Tolleranza zero
Loic
Wacquant,
http://www.comune.bologna.it/iperbole/assminsto/Sche_2000wacquant.htm
Parola
d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società
neoliberale,
Milano,
Feltrinelli,
2000, p. 143
“Tolleranza zero” è lo slogan coniato dal sindaco di New York Rudolph
Giuliani per sintetizzare il suo programma politico con cui ha governato per
anni la metropoli statunitense. Lo slogan si è non solo diffuso man mano in
tutti gli Stati Uniti, trovando applicazione anche a livello federale, ma ha
anche attraversato l’Atlantico per approdare prima in Gran Bretagna, poi
nell’Europa continentale (sullo stesso tema si veda anche il volume di A. De
Giorgi, Zero
Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo).
Wacquant analizza l’estendersi dello “stato penale” in
parallelo al declino dello “stato assistenziale”, leggendo la “tolleranza
zero” come la risposta autoritaria alla crescente pauperizzazione provocata
dal ridursi dell’intervento pubblico nella sfera economica. Gli stati, secondo
Wacquant, hanno rinunciato all’integrazione delle classi subalterne perché
troppo costosa, preferendo la criminalizzazione e la punizione dura dei
comportamenti “devianti” come il traffico di droga (la maggior parte dei
carcerati sono in prigione per reati inerenti allo spaccio di sostanze
stupefacenti) ma anche come il vagabondaggio o l’accattonaggio.
Wacquant ripercorre la nascita e la diffusione della
strategia della “tolleranza zero”, preparata dai think
thank
neoconservatori come l’American Enterpise Institute, il Cato Institute, la
Heritage Foundation ed il Manhattan Institute. Tra la fine degli anni settanta e
l’inizio degli anni ottanta questi prepararono i programmi politici che Reagan
e la Tatcher avrebbero fatto propri, programmi basati sul “meno stato” in
campo economico, e paradossalmente sul “più stato” per sanzionare i
comportamenti criminali. Il Manhattan Institute ebbe un ruolo chiave nel
diffondere programmi conservatori in materia di sicurezza, tramite conferenze,
convegni, agganci col mondo accademico. Il Manhattan Institute offrì trentamila
dollari a Charles Murray, “un politologo disoccupato di reputazione
mediocre” per scrivere un saggio sulla necessità di favorire le politiche
repressive e di diminuire la spesa sociale perché “individuava
nell’eccessiva generosità delle politiche di sostegno ai gruppi svantaggiati
la causa dell’incremento della povertà negli Stati Uniti. In tal modo,
infatti, si ricompensava l’inattività provocando la degenerazione morale
delle classi popolari, in particolare le unioni “illegittime”, causa ultima
di tutti i mali della società. Diretta conseguenza di tutto ciò sarebbe stata
la violenza urbana”. Questo saggio fu poi lanciato con un grande battage
pubblicitario e fu da quel momento che si articolò l’offensiva culturale
neoconservatrice in materia di sicurezza.
Già in quel saggio erano esposte le idee fondamentali della
riscossa politica e culturale neoconservatrice: il darwinismo sociale, principio
in base al quale lo stato non deve fornire aiuti pubblici per non favorire
comportamenti parassitari, il ritorno ai valori familiari tradizionali ed il
loro supposto abbandono come causa di disgregazione sociale, le norme penali per
contenere ribellioni o comportamenti devianti delle classi povere, non più
assistite dai programmi di intervento pubblico.
Wacquant riassume la rivoluzione neoconservatrice degli
ultimi venti anni nella formula “declino dello stato economico, diminuzione
dello stato sociale e glorificazione dello stato penale”. Il preteso
liberalismo neoconservatore vuole una società “libera, ossia liberale e non
interventista “in alto”, in particolare in materia fiscale e per quanto
riguarda l’uso della forza lavoro, intrusiva e intollerante “in basso”,
cioè nei confronti dei comportamenti pubblici degli appartenenti alle classi
subalterne presi nella morsa della disoccupazione e della precarietà da un
lato, del declino della protezione sociale e dei servizi pubblici
dall’altro”.
Il ruolo attuale del sistema penale ricorda quello
dell’Europa e degli Stati Uniti agli albori della rivoluzione industriale,
quando “l’imprigionamento si presentava in primo luogo come un metodo di
controllo delle popolazioni devianti e dipendenti”. L’autore si richiama
esplicitamente ad una visione
foucaultiana, nel senso di considerare le norme penali come norme di
controllo sociale dei ceti marginali. Wacquant in questa direzione si spinge
forse un po’ troppo in là, deplorando anche l’introduzione di norme più
severe nei confronti di gravi infrazioni al codice della strada; pensando alla
situazione italiana, caratterizzata da un notevole grado di inciviltà stradale,
questo esempio non è certo opportuno. Questo probabilmente dipende dall’idea
foucaultiana dell’impossibilità di definire il concetto di crimine e di
devianza, pena la trasformazione della sociologia in una sorta di “morale
laica” asservita ad interessi di potere. Ma, a parte questa accettazione in
toto del pensiero foucaultiano fino alle sue più discutibili applicazioni, il
libro è pregevole perché analizza la costruizione delle politiche di
“tolleranza zero” mettendo in rapporto la “devianza criminale” con le
forme di legittimazione del potere, applicando le più felici intuizioni
foucaultiane dell’analisi della “microfisica del potere” e del
disvelamento degli interessi (di legittimazione del potere, appunto) che stanno
dietro ai luoghi comuni della “repressione della criminalità”.
Secondo Wacquant, le normative penali e la repressione
carceraria hanno un vero e proprio carattere classista: nelle carceri della
California, per esempio, “sei “ospiti” su dieci sono neri o latinos; meno
della metà al momento dell’arresto aveva un impiego a tempo pieno, mentre i
due terzi proveniva da famiglie con reddito inferiore alla metà della soglia di
povertà”. Addirittura, negli Stati Uniti, da una ricerca risulta che la
condizione di disoccupato è addirittura più pregiudizievole di quella
razziale, riguardo alla probabilità di finire in prigione.
Il basso tasso di criminalità e di carcerazione dei paesi
che non hanno ancora completamente ceduto alla politica della “tolleranza
zero”, come i paesi scandinavi, l’Austria e la Germania, si spiegherebbe
invece con la solidità dello stato sociale di quei paesi, ancora non troppo
intaccato dalle politiche neoliberiste.
Il libro smentisce, citando numerose ricerche, tutte le tesi
dei sostenitori della “tolleranza zero”: non è mai stato rilevato alcun
nesso tra politiche repressive e diminuzione del tasso di criminalità. La
“tolleranza zero” si risolverebbe perciò non in un rimedio al problema
della criminalità, ma in una ben precisa politica di gestione dei conflitti
sociali e di legittimazione del potere.
Fabrizio
Billi