Concetti strategici degli USA dalla fine della guerra fredda
 



“Carthago Delenda Est”, 15.06.99


Tolleranza zero

Loic Wacquant, 

http://www.comune.bologna.it/iperbole/assminsto/Sche_2000wacquant.htm

Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, 

Milano, Feltrinelli, 2000, p. 143

    “Tolleranza zero” è lo slogan coniato dal sindaco di New York Rudolph Giuliani per sintetizzare il suo programma politico con cui ha governato per anni la metropoli statunitense. Lo slogan si è non solo diffuso man mano in tutti gli Stati Uniti, trovando applicazione anche a livello federale, ma ha anche attraversato l’Atlantico per approdare prima in Gran Bretagna, poi nell’Europa continentale (sullo stesso tema si veda anche il volume di A. De Giorgi, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo).
    Wacquant analizza l’estendersi dello “stato penale” in parallelo al declino dello “stato assistenziale”, leggendo la “tolleranza zero” come la risposta autoritaria alla crescente pauperizzazione provocata dal ridursi dell’intervento pubblico nella sfera economica. Gli stati, secondo Wacquant, hanno rinunciato all’integrazione delle classi subalterne perché troppo costosa, preferendo la criminalizzazione e la punizione dura dei comportamenti “devianti” come il traffico di droga (la maggior parte dei carcerati sono in prigione per reati inerenti allo spaccio di sostanze stupefacenti) ma anche come il vagabondaggio o l’accattonaggio.
    Wacquant ripercorre la nascita e la diffusione della strategia della “tolleranza zero”, preparata dai
think thank neoconservatori come l’American Enterpise Institute, il Cato Institute, la Heritage Foundation ed il Manhattan Institute. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta questi prepararono i programmi politici che Reagan e la Tatcher avrebbero fatto propri, programmi basati sul “meno stato” in campo economico, e paradossalmente sul “più stato” per sanzionare i comportamenti criminali. Il Manhattan Institute ebbe un ruolo chiave nel diffondere programmi conservatori in materia di sicurezza, tramite conferenze, convegni, agganci col mondo accademico. Il Manhattan Institute offrì trentamila dollari a Charles Murray, “un politologo disoccupato di reputazione mediocre” per scrivere un saggio sulla necessità di favorire le politiche repressive e di diminuire la spesa sociale perché “individuava nell’eccessiva generosità delle politiche di sostegno ai gruppi svantaggiati la causa dell’incremento della povertà negli Stati Uniti. In tal modo, infatti, si ricompensava l’inattività provocando la degenerazione morale delle classi popolari, in particolare le unioni “illegittime”, causa ultima di tutti i mali della società. Diretta conseguenza di tutto ciò sarebbe stata la violenza urbana”. Questo saggio fu poi lanciato con un grande battage pubblicitario e fu da quel momento che si articolò l’offensiva culturale neoconservatrice in materia di sicurezza.
    Già in quel saggio erano esposte le idee fondamentali della riscossa politica e culturale neoconservatrice: il darwinismo sociale, principio in base al quale lo stato non deve fornire aiuti pubblici per non favorire comportamenti parassitari, il ritorno ai valori familiari tradizionali ed il loro supposto abbandono come causa di disgregazione sociale, le norme penali per contenere ribellioni o comportamenti devianti delle classi povere, non più assistite dai programmi di intervento pubblico.
    Wacquant riassume la rivoluzione neoconservatrice degli ultimi venti anni nella formula “declino dello stato economico, diminuzione dello stato sociale e glorificazione dello stato penale”. Il preteso liberalismo neoconservatore vuole una società “libera, ossia liberale e non interventista “in alto”, in particolare in materia fiscale e per quanto riguarda l’uso della forza lavoro, intrusiva e intollerante “in basso”, cioè nei confronti dei comportamenti pubblici degli appartenenti alle classi subalterne presi nella morsa della disoccupazione e della precarietà da un lato, del declino della protezione sociale e dei servizi pubblici dall’altro”.
    Il ruolo attuale del sistema penale ricorda quello dell’Europa e degli Stati Uniti agli albori della rivoluzione industriale, quando “l’imprigionamento si presentava in primo luogo come un metodo di controllo delle popolazioni devianti e dipendenti”. L’autore si richiama esplicitamente ad una visione foucaultiana, nel senso di considerare le norme penali come norme di controllo sociale dei ceti marginali. Wacquant in questa direzione si spinge forse un po’ troppo in là, deplorando anche l’introduzione di norme più severe nei confronti di gravi infrazioni al codice della strada; pensando alla situazione italiana, caratterizzata da un notevole grado di inciviltà stradale, questo esempio non è certo opportuno. Questo probabilmente dipende dall’idea foucaultiana dell’impossibilità di definire il concetto di crimine e di devianza, pena la trasformazione della sociologia in una sorta di “morale laica” asservita ad interessi di potere. Ma, a parte questa accettazione in toto del pensiero foucaultiano fino alle sue più discutibili applicazioni, il libro è pregevole perché analizza la costruizione delle politiche di “tolleranza zero” mettendo in rapporto la “devianza criminale” con le forme di legittimazione del potere, applicando le più felici intuizioni foucaultiane dell’analisi della “microfisica del potere” e del disvelamento degli interessi (di legittimazione del potere, appunto) che stanno dietro ai luoghi comuni della “repressione della criminalità”.
    Secondo Wacquant, le normative penali e la repressione carceraria hanno un vero e proprio carattere classista: nelle carceri della California, per esempio, “sei “ospiti” su dieci sono neri o latinos; meno della metà al momento dell’arresto aveva un impiego a tempo pieno, mentre i due terzi proveniva da famiglie con reddito inferiore alla metà della soglia di povertà”. Addirittura, negli Stati Uniti, da una ricerca risulta che la condizione di disoccupato è addirittura più pregiudizievole di quella razziale, riguardo alla probabilità di finire in prigione.
    Il basso tasso di criminalità e di carcerazione dei paesi che non hanno ancora completamente ceduto alla politica della “tolleranza zero”, come i paesi scandinavi, l’Austria e la Germania, si spiegherebbe invece con la solidità dello stato sociale di quei paesi, ancora non troppo intaccato dalle politiche neoliberiste.
    Il libro smentisce, citando numerose ricerche, tutte le tesi dei sostenitori della “tolleranza zero”: non è mai stato rilevato alcun nesso tra politiche repressive e diminuzione del tasso di criminalità. La “tolleranza zero” si risolverebbe perciò non in un rimedio al problema della criminalità, ma in una ben precisa politica di gestione dei conflitti sociali e di legittimazione del potere.

 Fabrizio Billi







questo articolo è tratto da un elenco di documenti riguardanti i "neoconservatori" o "neocon" americani presenti sul sito di Fisica/Mente. Non rispecchia quindi necessariamente l'opinione del curatore del sito Kelebek. Fare clic qui per la pagina principale di questa parte del sito, dedicata ai neoconservatori.




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