"La sola nazione indispensabile del mondo":

la retorica della libertà americana
 



Miguel Martínez

Pubblicato per la prima volta su Eretica, n. 1, luglio-settembre 2005 (CP n. 162, 06034 Foligno).

In rete, novembre 2005.

Su questo stesso tema, si veda anche "Armageddon: L’impero americano e l'immaginario del dominio universale", di Miguel Martinez.




"Poi, nel tumulto e nel trionfo, la Promessa si è lanciata sul palcoscenico del mondo, per fare di questo il Secolo Americano".

(dal discorso inaugurale di Clinton, 1997)

Rispondo all'invito a scrivere un articolo sul secondo discorso inaugurale di George W. Bush, in cui il presidente della Guerra infinita ha usato una quarantina di volte le parole liberty e freedom per affermare la missione imperiale degli Stati Uniti. Ripensandoci, credo che possa essere più utile un articolo invece sul significato stesso dei discorsi presidenziali.

I dominanti, lo sappiamo, mentono. Per questo, molti antagonisti non li ascoltano quando parlano: "bando alle chiacchiere, guardiamo ai fatti".

Ovvio che bisogna guardare ai fatti, ma occorre capire cosa sono i fatti. Innanzitutto, si confonde la micromenzogna con la menzogna globale. Le affermazioni di Bush e di Colin Powell sulle presunte "armi di distruzione di massa" in Iraq sono micromenzogne: rientrano nei trucchi meschini, che usa da sempre chi ha bisogno di ottenere un piccolo vantaggio sul prossimo. Invece la menzogna globale è il fondamento stesso del dominio, ed è quindi un fatto di primaria importanza, proprio come il PIL. È la menzogna globale che permette a Bush di venire rieletto trionfalmente, a dispetto delle micromenzogne regolarmente smascherate, a volte anche dai media importanti.

Per smascherare la menzogna globale, non basta dimostrare, fatto contro fatto, che qualcuno ha detto concretamente il falso. La menzogna globale è pervasiva, onnipresente, inafferrabile e in un certo senso inconfutabile.

Essa assume la sua forma più pura nel logo: il puro nulla che diventa la falsa essenza del dominato. In No logo, Naomi Klein racconta come il designer della Nike fosse solito recarsi nei quartieri neri di New York regalando scarpe, allo scopo di fare attecchire la moda:

"E' incredibile. I ragazzi impazziscono. È allora che ti rendi conto dell'importanza della Nike. Quando i ragazzi ti dicono che la Nike è la prima cosa nella loro vita - la ragazza è solo la seconda" .
La produzione reale, con la sua dura oggettività, è stata esiliata (in massima parte) nelle periferie del mondo, dalle maquiladoras messicane al tenebroso cuore della Cina industriale. All'Occidente rimane invece l'essenza menzognera del capitalismo.

Nell'epoca del virtuale e del simultaneo, dobbiamo capire la menzogna per sopravvivere. Tutto è diventato finzione. In larga misura lo è la stessa economia delle corporation e del flusso globale; lo sono la grandi rappresentazioni mediatiche, come i funerali del Papa; lo è l'industria culturale che ha sostituito quasi tutti i modi in cui gli esseri umani creavano, sognavano, speravano o temevano.

La cosiddetta controinformazione serve a smascherare le micromenzogne. Però le micromenzogne vengono e vanno: quando scopriamo che i signori della guerra hanno mentito raccontandoci di stragi di massa nel Kosovo, nessuno ricorda più dove si trovi quel territorio; e tutti sono in ascolto passivo di nuovo menzogne, ancora da confutare.

Saper leggere la menzogna globale è l'unica cosa che ci può rendere una libertà più duratura. Per farlo dobbiamo ascoltare con attenzione le parole e i simboli dei dominanti, i loghi e i luoghi comuni che instillano costantemente in noi.

Il punto fondamentale è capire che il dominante ha il potere di definizione. È lui che crea le alternative tra cui ci tocca scegliere: ponendoci, ad esempio, la domanda assoluta, siamo dalla parte della libertà o dei tiranni?

Gli Stati Uniti

Tutti i fili della menzogna globale ci portano agli Stati Uniti. Non per qualche arcana qualità del suolo o della gente, ma semplicemente perché è il paese dove il capitalismo può esprimersi nella sua forma più pura. E perciò è la patria dell'industria culturale, e quindi il contenuto principale di tutti i televisori e walkman del pianeta. È la patria dei logo e della pubblicità. E infine, cosa come vedremo strettamente correlata, si autorappresenta come il paese della libertà.

Una delle grandi occasioni per ascoltare, e interpretare, la grande menzogna, sono i discorsi che fanno i presidenti della Repubblica alla loro inaugurazione. Proprio nella loro retorica fumosità, vanno all'essenza: vengono preparati da una squadra di lucidi tecnici, per esprimere nella maniera più scientifica i sentimenti delle masse, distillato di prediche domenicali, di insegnamenti scolastici, degli show televisivi, dei fumetti e del vissuto quotidiano.

Ascoltiamo qualche frase di Ronald Reagan, nel suo discorso inaugurale del 1981:

"L'ordinato passaggio di autorità richiesto dalla Costituzione avviene in maniera regolare, come è avvenuto per quasi due secoli, e pochi di noi si fermano per riflettere su quanto siamo davvero unici. Agli occhi di molti nel mondo, questa cerimonia che si svolge ogni anno e che noi accettiamo come normale è nientemeno che un miracolo […]. Siamo un popolo unito, che ha giurato di mantenere un sistema politico che garantisce la libertà individuale più di ogni altro al mondo".
"Quanto siamo unici ("how unique we really are"), "un miracolo", un sistema che "garantisce la libertà individuale più di ogni altro"… Sono questi i termini con cui si constata il fatto la Repubblica è governata da immutabili oligarchie.

Nel suo discorso, Reagan trasforma anche l'avanzata delle privatizzazioni in una mistica missione di elezione: "Siamo una nazione che ha un governo - non il contrario. E questo ci rende speciali tra le nazioni della Terra".

Un essere-speciali che è garantito da Dio stesso. Reagan aggiunge infatti:

"Mi dicono che oggi si svolgono decine di migliaia di raduni di preghiera, e di questo sono profondamente grato. Noi siamo una nazione sotto Dio, e io credo che Dio abbia voluto che fossimo libero".
Unicità, Elezione, Missione. E Dio come comandante supremo.

L'individuo immaginario

Gli Stati Uniti sono l'esito di un processo di forze economiche e sociali gigantesche e di una standardizzazione infinitamente più efficace di qualunque piano quinquennale sovietico. Ma invece di astrarre tutto questo in un'ideologia istituzionale, come hanno fatto il cattolicesimo o il comunismo reale, la Repubblica ha generato qualcosa di straordinario, forse il più potente di tutti i prodotti americani: l'individuo immaginario. L'individuo immaginario lo troviamo nei racconti edificanti sui "Padri Fondatori", come nei presidenti della Repubblica e nel cinema:

"Nell'industria culturale l'individuo è illusorio non solo a causa della standardizzazione delle sue tecniche produttive. Esso viene tollerato solo in quanto la sua identità senza riserve con l'universale è fuori questione." [1]
Da qui nasce la fondamentale illusione dell'uomo comune. L'identificazione con l'universale - cioè con la società capitalista e le sue feroci disuguaglianze - genera uniformità e mediocrità. Dall'uniformità e dalla mediocrità nasce il personaggio stereotipato del regular guy, l'uomo onesto, che - "come noi" - ha qualche simpatico difetto. Può possedere pozzi di petrolio in un paese con milioni di senzatetto; ma tutto va bene se non ci umilia psicologicamente azzeccando troppo spesso l'ortografia delle parole o disdegnando il baseball. Il baseball a sua volta è ovviamente un prodotto industriale miliardario, ma sembra "democratico" perché viene consumato dalle masse.

americano medio stati uniti


L'illusione dell'uomo comune - membro del team, personaggio della sitcom - trova la sua apoteosi nel Presidente. Nessuno è mai riuscito a sembrare più integralmente comune di Ronald Reagan; e infatti nessun presidente è mai stato altrettanto amato.

Vittorio Zucconi, nella sua divertente biografia di George Bush Junior [2], spiega perfettamente come un miliardario appartenente a una famiglia aristocratica della costa orientale sia riuscito a farsi eleggere sostanzialmente spacciandosi per scemo. Bush può dire, we, the people, "noi, il popolo", proprio perché somiglia profondamente al carattere generale del prodotto ultimo del mercato: il popolo stesso.

L'immagine dell'"uomo comune" è più potente di qualunque ideologia razionalizzata, proprio perché immagine. Permette di assorbire in sé diversi sistemi di ideologia - le varie religioni, o le tesi conservatrici e liberal - perché la gente può litigare sulle parole, ma non su un sorriso o su una virile stretta di mano. È immediatamente comprensibile a chiunque conosca il gusto di un aneddoto o si riconosca nella camicia a scacchi o nelle battute di un personaggio. Penetra negli strati affettivi, prerazionali delle persone, molto più a fondo di quanto possano fare i testi di qualche filosofo. È perfettamente inconfutabile - cosa si può dire contro un uomo semplice, onesto, che fa i suoi sbagli ma non si arrende mai?

Ed è anche esportabile: viaggia in un DVD, e con qualche ritocco politicamente corretto, può entrare nel villaggio di pescatori tailandesi, nella colonia messicana o tra i discotecari di Bologna.

I racconti dell'Uomo Comune

Il presidente rispecchia l'uomo comune; ma il vero uomo comune - che ovviamente non esiste nella realtà concreta, se non come approssimazione - vive nei racconti che il dominio narra senza posa. Nel suo discorso inaugurale, Ronald Reagan racconta la storia di un "giovane barbiere", Martin Treptow, morto sul fronte francese nel 1917. Sul suo corpo, avrebbero trovato un diario, con un "impegno" ("pledge" ha però anche la forza di un giuramento davanti a Dio) - "l'America deve vincere questa guerra. Perciò io lavorerò, risparmierò, mi sacrificherò [...] come se tutta la lotta dipendesse solo da me". Concetti certamente banali, ma interessanti perché Reagan (o il suo regista) simboleggia l'intera comunità degli americani attraverso un "barbiere" (mestiere umile ma autonomo), con un cognome che indica che è un "immigrato"; e che combatte per vincere guerre in terre lontane.

A Reagan e ai due Bush, il nostro centrosinistra contrappone Clinton. Ascoltiamo allora alcune delle espressioni del discorso inaugurale del grande liberal, nel 1993. Un discorso in realtà ancora più messianico di quello di Reagan (e anche quello di George Bush del 2005):

"Quando i nostri fondatori proclamarono con coraggio l'indipendenza dell'America al mondo, e i nostri scopi all'Onnipotente, sapevano che l'America, per durare, avrebbe dovuto cambiare. Non cambiare tanto per cambiare, ma cambiare per preservare gli ideali dell'America - la vita, la libertà, la ricerca della felicità. Anche se marciamo alla musica dei nostri tempi, la nostra missione va al di là del tempo.

Oggi, mentre un vecchio ordine se ne va, il nuovo mondo è più libero ma meno stabile […]. Chiaramente, l'America deve continuare a guidare il mondo che noi abbiamo fatto tanto per costruire […].

Quando saranno minacciati i nostri interessi vitali, o si sfida la volontà e la coscienza della comunità internazionale, agiremo […].

Ma la nostra grande forza è la potenza delle nostre idee, che sono nuove in molte terre. In tutto il mondo, vediamo come vengano abbracciate - e ciò ci riempie di gioia. Le nostre speranze, i nostri cuori, le nostre mani sono con coloro che, su ogni continente, stanno costruendo la democrazia e la libertà. La loro causa è la causa dell'America.

Oggi facciamo molto di più che celebrare l'America; ci dedichiamo di nuovo all'idea stessa dell'America.

Le Scritture dicono, "non stanchiamoci nel fare del bene, perché al momento giusto, raccoglieremo, se non ci lasceremo sopraffare dalla debolezza".

Dalla cima gioiosa della montagna di celebrazione, odiamo la chiamata a servire nella valle. Abbiamo udito le trombe. Abbiamo cambiato la guardia. E ora, ognuno di noi a modo suo, e con l'aiuto di Dio, dobbiamo rispondere alla chiamata. Grazie a tutti, e Dio vi benedica tutti".

Il discorso meriterebbe pagine di analisi, ma bastano alcuni commenti.

L'America non è semplicemente la sua "gente", come nei discorsi dei presidenti italiani; non è il suo paesaggio o i suoi luoghi: come dice Clinton, è piuttosto il paese del "cambiamento". Il potere di definizione che esercita permette a lui (come agli americanisti nostrani) di dare un nome esaltante al fatto che incessanti trasformazioni economiche creino continuamente nuove isole di ricchezza mentre quelle vecchie diventano deserti, ghost town e ghetti.

L'America per Clinton è "ideali", "missione", "idee", "causa". Nel suo discorso del 1997, Clinton ribadisce, arrivando addirittura a definire la sua l'unica nazione indispensabile della Terra:

"L'America è l'unica nazione indispensabile del mondo (America stands alone as the world's indispensable nation). Guidati dall'antica visione di una terra promessa, noi rivolgiamo lo sguardo verso una terra di nuova promessa" .
Questo è un punto che rende ardua ogni discussione sugli Stati Uniti: pochi altri paesi ci pongono una simile confusione tra nazione e ideologia. E' successo, in passato, in altri casi: pensiamo all'URSS, che però aveva almeno un nome diverso da "Russia" per distinguere tra un antico paese, con il suo popolo e la sua lingua, e un progetto ideologico-statale. Se negli anni cinquanta, forse, non era facile distinguere tra "russi" e "comunisti", oggi la differenza è palese.

Mentre non esistono nemmeno le parole per distinguere tra "americani-abitanti" e "americani-ideologia". È per questo che Costanzo Preve ha coniato il termine ideocrazia per definire gli Stati Uniti. Ai critici, che giustamente vorrebbero che le colpe dei governi non ricadessero sui governati, sfugge però il nocciolo del problema: il pericolo per il mondo non è solo il "governo Bush", ma l'intero sistema che coopta massicciamente la comunità nell'illusione della libertà.

Libertà intercambiabile

"Libertà" significa semplicemente la possibilità di fare qualcosa, anche a spese di qualcun altro: la libertà molto concreta e fisica di cui godono gli assassini del Cermis o l'omicida di Calipari è stata ottenuta a spese di qualcun altro, in questo caso dell'Italia. La libertà è strettamente associata alle condizioni reali delle società: senza che nessuna legge lo prescriva, i forti legami sociali e lo scarso traffico consentono ai bambini di Alessandria d'Egitto di giocare a pallone per strada, o agli adulti di pregare sui marciapiedi il venerdì, cosa semplicemente inimmaginabile nel nostro mondo di appartamenti rifugio/carcere. Ma la stessa povertà che permette questo tipo di libertà rende impossibile a chi vive farsi le vacanze in qualche località esotica.

Negli Stati Uniti, esistono molte libertà, mentre ne mancano altre. Probabilmente, è più facile fondare un'azienda lì che in molte altre parti del mondo; esiste l'antico diritto di portare le armi; esiste una concreta facilità di movimento, grazie anche all'intercambiabilità delle famose balloon frame houses, inventate nell'Ottocento per permettere di costruire ovunque, in poco tempo e a poco prezzo, case prodotte industrialmente; la libertà generazionale è garantita dalla sostanziale dissoluzione della famiglia. Esiste un ampio diritto di espressione scritta, ovviamente per chi ne ha i mezzi e per chi non viola le feroci leggi proprietarie sui "diritti d'autore" o sui brevetti, spesso invocate per i motivi più imprevedibili.

Molte cose che noi consideriamo diritti - quindi "possibilità di fare qualcosa" e quindi "libertà" - non sono nemmeno contemplate, come l'asilo o l'assistenza medica. Esiste certo un ampio sistema di assistenza pubblica, che però ha chiari scopi caritatevoli (e clientelari), ma non è un diritto, e la sua accessibilità dipende da capricciosi fattori locali ed etnici.

Allo stesso tempo esistono anche divieti inimmaginabili da noi: fino a qualche anno fa, quasi la metà degli stati vietava i "rapporti sessuali contro natura" (compresi quelli all'interno di coppie eterosessuali sposate), cosa che non avveniva nemmeno sotto il fascismo; oggi, lo stato di New York - faro dei liberal di tutto il mondo - permette il ballo solo in alcune discoteche autorizzate e lo vieta persino nelle case private. Regolarmente, le autorità locali impongono il coprifuoco oppure circondano e isolano con barricate interi quartieri con operazioni militari che ricordano quello che avviene in Palestina. Una strage di ottanta persone, come quella commessa a Waco, sarebbe difficilmente da immaginare da noi: perché l'americana "certezza del diritto" implica anche la certezza dell'annientamento per chi davvero esce fuori dai confini.

Infine - e non è poco - non esiste concretamente alcuna possibilità (e quindi alcun diritto) a cambiare governo, rispetto a un bipartitismo che persegue sempre le stesse politiche.

Le libertà americane sono forme estese di libertà d'impresa. Le religioni sono esse stesse imprese e non istituzioni; e la stampa è una forma d'impresa con una tale potenza da godere di una grande autonomia, se pensiamo all'Italia dove è subordinata ai dettati dei politici, del Vaticano e delle imprese che contano davvero.

Le libertà americane sono quindi strettamente collegate al fatto che gli Stati Uniti sono un paese ricco. E gli Stati Uniti sono un paese ricco perché hanno un capitalismo senza freni, un esercito in grado di piegare chiunque gli si opponga e praticamente nessuna opposizione interna. Per garantire la permanenza di questa situazione, il diritto deve essere certo per le imprese, e quindi nessun governo deve minacciarle con improvvise tassazioni, regolamentazioni ecologiche o cambiamenti nella politica imperialista.

Per quanto riguarda le altre libertà, esse possono scomparire in un istante, come abbiamo visto con il Patriot Act, che in un colpo solo ha reso i cittadini - e ancora di più gli ospiti stranieri, e ancora di più persone che vivono all'estero - indifesi di fronte al potere quanto lo è il cittadino egiziano medio.

Come si passa da questa situazione reale alla fantasia del "paese della libertà"? Anzi, al Dio di Libertà citato da Bush nel 2005:

"La storia ha una direzione visibile, impostata dalla libertà e dall'Autore della Libertà."
La libertà gode di se stessa, rispecchiandosi contro il totalitarismo. Cioè contro epoche e luoghi totalmente diversi, fingendo che la differenza americana sia il frutto di "valori superiori", e non di una situazione economica e militare assolutamente privilegiata

Il "totalitarismo" è la fantasia del "tiranno": un singolo uomo, avido e di animo malvagio, che soffoca la libera impresa, uccide la gente perché scrive poesie e rapisce le donne più belle. Il tiranno è la forma estrema del government, quando un potere politico impazzito osa ribellarsi ai proprietari che hanno concorso a stabilirlo.

Qui troviamo però una dialettica cruciale, che sfugge ai liberal e ai loro sodali nostrani. Da una parte, l'odio per il "totalitarismo" permette ai giovani di arruolarsi in qualunque guerra imperialistica: lo sfruttamento e la violenza si vendono meravigliosamente come lotta contro lo sfruttamento e la violenza. E permette a masse di persone semplici di aderire con una furia da noi inconcepibile alle campagne contro le "interferenze" del governo, facendo fallire anche modestissime riforme come quella della sanità proposta da Hillary Clinton.

Dall'altra parte, l'incessante richiamo alla libertà porta qualcuno ad aprire gli occhi. Perché ci si accorge che gli Stati Uniti non sono il paese di tutti, ma di pochi; e che sono proprio quei pochi, attraverso il government, a mandare i giovani a uccidere e a morire in luoghi e per cause che non li riguardano.

Da qui, accanto all'opposizione politicamente corretta e lucida, ma sempre pronta a consegnarsi a qualche candidato del partito democratico, nasce un'opposizione vasta, confusa, ma interessante, che prende alla lettera la retorica della libertà. Un'opposizione che condanna insieme guerre, monopoli e il divieto di portare armi; si appella alla Bibbia perché riconosce nel warfare state imperiale la Bestia profetizzata dall'Apocalisse; fantastica di complotti veri e immaginari; e rivolge contro il dominio le sue stesse armi retoriche.

Note:

[1] Max Horckheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell'illuminismo¸ Torino, Einaudi, 1997, p. 166.

[2] Vittorio Zucconi, George. Vita e miracoli di un uomo fortunato, Feltrinelli, 2004.


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