Di Luciano Andreotti
Questo articolo fa parte di un'antologia di articoli critici su Oriana Fallaci. ANALISI STILISTICO-RETORICA DELL'ARTICOLO DELLA FALLACI "LA RABBIA E L'ORGOGLIO" gennaio 2002, di Luciano Andreotti
Il primo tratto che colpisce nell'articolo della Fallaci è la sproporzione tra i contenuti di informazione e di riflessione da un lato e le dimensioni del testo dall'altro. Le quattro facciate di giornale, ridotte al solo sviluppo concettuale (ammesso che si possa usare propriamente questo termine), suonerebbero pressappoco così:
Questo riassunto ha richiesto 302 parole e 1858 caratteri, spazi
inclusi. Sarebbe interessante poter vedere che percentuale rappresenta del testo della
Fallaci. Che cosa contiene d'altro il testo? insistenze, digressioni, esempi, ampliamenti
concettuali e verbali d'ogni sorta con frequente ricorso a quel procedimento che
Quintiliano chiamava congeries... verborum ac sententiarum idem significantium
("accumulo di parole e pensieri che significano la stessa cosa") e che
considerava un caso di amplificatio. Valga per tutti un esempio: "Perché
quando è in ballo il destino dell'Occidente, l'America siamo noi. Noi italiani, noi
francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi
polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi"
(p.24, 5 colonna) (3):
è chiaro che il lungo elenco non è altro che l'ampliamento esasperatamente lungo di
"noi europei". Di fronte a questo gonfiamento dell'esile tessuto concettuale per
tirare fuori il debordante articolo, il pensiero dell'ulteriore gonfiamento che ha
prodotto il libro è di per sé sconvolgente. La semplice osservazione del procedimento indicato, su cui ritornerò più avanti, mostra immediatamente l'intento del testo: non si tratta di fornire informazioni o di elaborare riflessioni, ma di indurre effetti emotivi, non importa se fondati sul vero o sul falso. Degli obiettivi tradizionali della retorica, la Fallaci privilegia il "movere" e relega, come vedremo il "docere" a puro strumento del primo. Il contenuto di informazione infatti si riduce quasi esclusivamente a una serie di episodi, per lo più occorsi nel mondo islamico, di cui la scrivente è sempre e comunque l'assoluta protagonista. Analogamente quando la Fallaci enuncia una tesi, non si sente tenuta a dimostrarla con argomenti razionali e con documentazione: la sua parola le appare più che sufficiente e, in luogo dell'argomentazione fattuale o razionale, compare un'esasperata dilatazione fatta di sfogo viscerale, provocazione, esaltazione dell'io. Per esempio, quando dice "I kamikaze non sono dei martiri", ha a che fare con due termini usati per lo più in senso traslato il cui ambito di applicabilità è assai incerto e discutibile. Eppure non si sente tenuta a definire nessuno dei due concetti per mostrare eventualmente l'impossibilità di associare l'uno all'altro. L'enunciato diventa solo un pretesto di scherno bilioso contro le foto di due attentatori suicidi di cui parla nel suo "Insciallah" (4) e poi di una compiaciuta provocazione contro Arafat, il quale a leggere questo testo sembrerebbe non avere crucci più gravi che quello di "friggere" per le invettive di donna Oriana. 3. Idées reçues Ma di che tipo sono le idee che stanno alla base delle amplificazioni eloquenti della Fallaci? Essi sono del tipo di quelle che Flaubert chiamava idées reçues. Le idées reçues sono i luoghi comuni, gli stereotipi, i pregiudizi indimostrati eppure tenaci che circolano a livello di opinione collettiva e si fondano su arbitrarie generalizzazioni. Eccone alcuni esempi tratti appunto dal Dictionnaire des idées reçues dello scrittore francese: Letteratura: occupazione degli oziosi; Suicidio: prova di debolezza; Religione: fa parte dei fondamenti della società. È necessaria per i popoli, ma non ce ne deve essere troppa. "La religione dei nostri padri": l'espressione deve essere pronunciata con dolcezza persuasiva che tocca il cuore (5). Una classe consistente di idées reçues è costituita dai pregiudizi di un popolo su altri popoli. Per esempio al tempo di Flaubert per i Francesi i Tedeschi erano "un popolo di sognatori" (ma una nota avvertiva: invecchiato: Bismark stava facendo cambiare lo stereotipo...); gli Italiani "tutti musicisti" e "traditori"; gli Inglesi "tutti ricchi" mentre alla voce donne inglesi il dictionnaire riporta malignamente: "mostrarsi stupiti che esse abbiano dei bei bambini". La Fallaci non è sintetica come Flaubert, e ovviamente non è ironica, ma, se si spogliano le sue enunciazioni delle amplificazioni retoriche, esse assumono in tutto e per tutto la forma delle idèes reçues: enunciazioni che hanno l'apparenza di tesi sulla società, sulla cultura, sulla storia ecc..., ma non sono costruite con gli strumenti delle discipline storico-sociali, bensì con la generalizzazione arbitraria del pregiudizio corrente: Americani: tutti efficienti (Italiani: il contrario degli Americani) (23,4/5); Americani: tutti patrioti (Italiani: tutto il contrario) (23,5; 24,1), America: un paese giovane; nel 19 secolo stava costruendo la sua identità (Italia paese vecchio: ormai la sua identità non si può più modificare) (26,2); Islam: cfr. le voci chador, poligamia, alcolici (cfr.: divieto di...) (25,2); Paradiso islamico: "dove gli eroi si scopano le uri" (23,1). Antichi Romani: "si divertivano a veder morire i Cristiani dati in pasto ai leoni", Nota: "però è trascorso un po' di tempo e siamo diventati un pochino più civili" (25,4); Cristiani: "si divertivano a veder bruciare gli eretici". V. nota a: Antichi Romani Immigrati islamici: "alcuni di loro" lavorano, "perché gli italiani sono diventati talmente signorini" (26,1). A lasciarsi prendere la mano, si potrebbe trasformare quasi
l'intero testo in un dictionnaire des idées reçues: meglio
fermarsi. Citerò ancora un solo esempio, perché vi compare Michelangelo, immancabile
nella lunga serie delle idées reçues sull'Italia. Nell'ideale dizionario della Fallaci
la voce Italia sarebbe lunga più di to get in un dizionario di inglese (o qualche
altro verbo di questo tipo in qualche altra lingua a piacere). Nel paragrafo "Patria
di geni" della voce Italia comparirebbe la triade Leonardo, Michelangelo,
Raffaello (nei dictonnaires des idées reçues i geni compaiono
sempre per triadi). Ora in Amarcord di Fellini la straniera corteggiata dallo zio del
protagonista caratterizza gli italiani con i loro discorsi ricorrenti e la serie si
conclude con "Micelangelo (sic!), fanculo e o sole mio". Dallo zio
"Patacca" a donna Oriana, quando si tratta di orgoglio nazionale, non si può
fare a meno di "Micelangelo". Infatti la Fallaci con lui non rinuncia a
replicare (26,2), come non rinuncia al "topos" degli spaghetti nell'invettiva
finale contro l'Italia così diversa da come lei la vorrebbe (27,5: "tra una
spaghettata e l'altra"). L'argomentazione della Fallaci, oltre che di idées reçues, si
nutre di exempla. La definizione che Quintiliano dà degli Exempla è ancora una
volta utile e sintetica: rei gestae aut ut gestae ad persuadendum id quod intenderis
commemoratio = "Citazione di un fatto avvenuto o che si suppone avvenuto, utile a
persuadere su ciò di cui si vuole persuadere" (6). Le res gestae in questione sono tutte peripezie della
Fallaci e ci vengono presentate con l'esemplarità che si conviene all'auctoritas del
personaggio. Esse si svolgono nel mondo islamico che ci viene presentato come popolato da
fanatici stravolti ("quei volti distorti e cattivi quei pugni alzati") o
"rimbambiti" (tale era per lei Khomeini). Sulla caratterizzazione dell'Islam che
ne risulta non viene lasciato spazio a nessun dubbio a causa dell'auctoritas che il tono
perentorio conferisce al personaggio: vorresti chiedere prove e argomenti, dopo aver
ascoltato il racconto delle res gestae divae Orianae? (7) Aiuta in questo anche la forma di discorso
rivolto al "caro Ferruccio" con cui il lettore è chiamato a identificarsi e a
credere a Oriana, come le crede Ferruccio stesso. La possibilità che qualcuno chieda
prove o argomenti del resto non è contemplata neppure nelle altre parti del testo. La
Fallaci è così sicura di essere creduta acriticamente che non si sente tenuta alla
coerenza logica e argomentativa: Inveisce contro il "becero in camicia verde" e
poi snocciola un testo sull'Islam e l'immigrazione che il suddetto becero sottoscriverebbe
con entusiasmo. Oppure scrive: "Chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non ne parlavan
neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese
sarebbe cominciata nel 1789, ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana". Il
fatto che la Rivoluzione francese non fosse ancora avvenuta esclude che quelli che
l'avrebbero fatta parlassero dell'Illuminismo? Oppure la Fallaci dice che, siccome non
avevano ancora fatto la rivoluzione non erano rivoluzionari? Una battuta arguta, un Witz?
E come si concilia l'arguzia con l'orgogliosa rabbiosa profetica tragica Oriana? Può
sorridere colei il cui io è misura di tutto e tutti, amici e nemici: Io e Arafat, Io e
Giuliani, Io e Khomeini, Io e il sindaco di Firenze, Io e la Resistenza, Io e l'Italia? L'Io ipertrofico della Fallaci reclama continuamente tutta
l'attenzione del lettore e lo fa con un lessico talvolta ostentatamente colloquiale
"mi beccai un bel po' di pallottole", "sai tra me e lui non corre buon
sangue", "a parlare con gli Arafat, mi viene la febbre", "a pedate nel
posteriore per cretineria", "sor Giuliani per cortesia, ci dice come si
fa?" "Non era mica roba da mangiare, l'Illuminismo", "sveglia,
sveglia!" "mi sono sempre sentita nervosetta". Con questo cerca di creare
un'immagine di ruvida franchezza rafforzata di tanto in tanto con locuzioni icastiche:
"un paradiso dove gli eroi si scopano le uri", "Ammenoché il resto
dell'Occidente non smetta di farsela addosso", "sono così coglioni",
"quel rimbambito di Khomeini". Vuole accattivarsi la simpatia della
"gente", mostrandosi come una "senza peli sulla lingua", che
"dice pane al pane", che parla "alla buona". L'effetto è garantito,
infatti la Fallaci parla con gli stessi luoghi comuni dell' "uomo della strada",
sui pregiudizi del quale fa leva e di cui cerca di aizzare gli istinti più brutali.
Perciò accompagna la scelta lessicale dell'ostentata colloquialità con la scelta
retorica dell'uso di traslati usuali, delle figure stereotipe Di questi traslati il testo è disseminato. Ne citerò solo
alcuni, invitando chi li volesse contare a proseguire la ricerca: ero un pezzo di
ghiaccio; silenzio di tomba; quest'apocalisse; camaleontica abilità; il cane che si
mangia la coda; ringraziare in ginocchio; a capo chino; con la cenere sul capo; ha
rischiato di trasformarsi in cenere; s'è salvato per un pelo; il cancro ha beccato anche
lui; compattezza quasi marziale; gente con le palle; lacerante divisione. Il
significato di questo orientamento retorico, consapevole o inconsapevole, è chiaro: il
vero scrittore usa i traslati in maniera incisiva e pregnante, se sceglie uno stile
colorito (per esempio Gadda) in questo caso evita la banalità, a meno che non voglia
parodiare il linguaggio dei semicolti. Altrimenti, con una scelta stilistica orientata
alla sobrietà (Primo Levi, per esempio) i traslati sono limitatissimi, a meno che non si
tratti di mimare il linguaggio altrui (come in certi passi della Chiave a stella).
I traslati banali rivelano la volontà di essere espressivi e l'incapacità di esserlo per
davvero. essi manifestano quindi un'inconsapevole volontà di apparire quello che non si
è, dunque non sono certo una marca di autenticità. Essi sono il corrispettivo verbale
delle idées reçues: come queste sono delle generalizzazioni indebite che si spacciano
per il risultato di una ricerca e di un processo di astrazione, così i traslati banali si
spacciano per creatività espressiva, mentre sono l'esatto contrario. La qualità di un
testo è inversamente proporzionale alla loro frequenza. La sintassi del testo predilige la coordinazione in accordo con
l'ostentazione di colloquialità e di franchezza rilevata a proposito del lessico, ma nei
momenti emotivamente culminanti le sequenze sintattiche si fanno più lunghe, non tanto
perché il periodo si arricchisca di subordinate, ma perché le esigenze retoriche
richiedono serie di membri sintattici coordinati a volte parecchio lunghe. Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini (23,5) Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte e magari i parenti dei parenti (25,5) Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri (24,4) Che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole. (23,1) Perché credi che martedì mattina? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini? Perché credi che fra le prime domande che mi ponevo? Perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? (23, 2/3) Come la mettiamo con la faccenda del chador? Come la mettiamo con la poligamia? Come la mettiamo col veto degli alcoolici? (25,2) Niente angeli, niente madonne, niente incenso (26,4) Anche in questo caso mi limito a esemplificare: chi volesse proseguire la ricerca, di queste sequenze di elementi sintattici paralleli (si tratti di singole parole, di sintagmi o di intere proposizioni) ne troverà in gran numero, con o senza anafora (ripetizione di parole o sintagmi), con o senza climax (andamento ascendente) o anticlimax (andamento discendente). Non voglio indugiare nel tecnicismo più dello stretto necessario: che questo tipo di stilemi caratterizzi il testo però è un dato di fatto e il loro significato è indubitabile. Essi rimandano a un modello retorico antico e ben individuato: l'Asianesimo. Non è certo il caso di addentrarsi in questioni di storia della retorica, ma è universalmente noto che gli oratori di quest'orientamento si affidarono sempre più agli effetti verbali ed emotivi che alla razionalità dell'argomentazione. Ma fin qui nulla di particolarmente rilevante: ci sono stati oratori di scuola asiana di grande prestigio e il modello (che del resto si ispirava a Gorgia) arrivò attraverso la Nuova Sofistica agli apologeti cristiani che ne fecero un uso di alto livello (8). Il fatto è però che il modello stesso si prestava ad un uso degradato puramente declamatorio. Proprio questo avveniva nelle scuole di retorica del primo secolo avanti Cristo così brillantemente caricaturate da Petronio. La retorica della Fallaci è declamatoria, pressoché priva di argomenti razionali fatta di stereotipi, di figure abusate e di un martellante uso dell'enumerazione dell'anafora ecc... per rinforzare con la ripetizione gli effetti patetici e provocatori che vuole ottenere. Il repertorio dei suoi argomenti, apparentemente è attinto dalla storia, ma in realtà lei fa della storia della sociologia, dell'antropologia lo stesso uso che i declamatores antichi facevano della storia e del mito: un repertorio di esempi divenuti stereotipi e atti a produrre effetti emotivi su un pubblico semicolto e poco dotato di senso critico. I riferimenti storici, sociali, culturali infatti vengono tutti strappati dal loro contesto problematico, ridotti a simboli "buoni" o "cattivi", omologati tutti allo stesso livello e usati come segnali per suscitare un'identificazione immediata o aizzare gli istinti aggressivi contro quelli che "ci" stanno facendo "una guerra di religione". 8. La "pappa del passato" Quale sia il procedimento con cui la Fallaci tratta la materia storica sociale ecc... ci è rivelato da una spia inconfondibile: il suo modo di evocare la cultura dell'Occidente. A p. 25 si legge "Dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate c'è Platone..." segue un elenco, quasi tutto per triadi che arriva fino a "...Rossini e Donizzetti e Verdi and Company". Se "dietro la nostra civiltà c'è" quello che dice la Fallaci, che cosa c'è dietro questo modo di presentare la "nostra civiltà" per elenchi indiscriminati di grandi nomi assemblati in un modo che ne fa percepire una scarsa frequentazione? La risposta si trova nel saggio di Furio Jesi intitolato Cultura di destra (9). L'elenco della Fallaci è segno inequivocabile di un approccio uguale a quello della parte della cultura di destra che Jesi chiama "profana" o "essoterica". Per la destra "profana" le opere d'arte e gli autori non sono fonti di riflessione problematiche con cui confrontarsi alla ricerca di percorsi critici ed elaborazioni teoriche, ma "roba di valore". Di fronte ad esse "Si avverte la necessità ideologica di appiattire le differenze che la storia pone nel passato, di disporre di un valore compatto, uniforme, sostanzialmente indifferenziato". "Gli elementi culturali sono per così dire omogeneizzati in questa pappa dichiarata preziosa...". "Questo linguaggio per luoghi comuni... non ha rapporto con la ragione né con la storia: nasce da roba di valore che viene chiamata il passato, ma che è così storicamente indifferenziata da poter circolare nel presentepossiede tutta la sua ripugnanza per la storia che è camuffata da venerazione del passato glorioso". Ho evidenziato con il corsivo i tratti che ritengo decisivi per l'identificazione, ma forse è superfluo: il quadro tracciato da Jesi si adatta alla perfezione con l'uso del "passato glorioso" della "cultura occidentale" da parte della Fallaci. Ma il procedimento dell'omogeneizzazione per formare una "pappa preziosa" non è applicato solo al passato della cultura occidentale: lo stesso trattamento lo subisce la storia dei padri fondatori degli Stati Uniti dove Franklyn, Jefferson, Adams, Washington e altri finiscono insieme ai classici che essi leggevano nella pappa preziosa della Fallaci. E non si tratta solo del passato: il panegirico (che con incerta memoria scolastica la Fallaci chiama "peana") di Giuliani (e poi di tutta l'America) è una poltiglia omogenea che non reca traccia di differenze, né complessità di sorta: è roba di valore e basta. La peculiarità della Fallaci è che all'omogeneizzato buono fa riscontro quello cattivo: L'immagine del mondo islamico costruita anch'essa senza traccia di strumento antropologico, storico, sociologico e via dicendo, ma appunto mettendo insieme roba, per così dire, di "disvalore", con lo stesso procedimento con cui frulla la "roba di valore" per confezionare la "pappa preziosa" dell'Occidente. Perché? Proviamo a tirare le somme: la Fallaci parla di culture, di
società, di politica, di storia, di religioni e di altro ancora, senza servirsi delle
ricerche e dei linguaggi della sociologia, della storiografia, della storia letteraria e
filosofica, mentre si serve abbondantemente di stereotipi, di pregiudizi dell' "uomo
della strada", di una presentazione del passato in forma di "pappa
preziosa". Usa traslati banali, anziché optare o per un linguaggio sobrio, o per uno
autenticamente creativo ed espressivo. Ricorre alla retorica dei declamatores per
ottenere effetti clamorosi su contenuti banali. Dilata con le digressioni e le
declamazioni la povertà del contenuto di riflessione. Una macchina argomentativa e
linguistica di questo tipo, anziché cogliere qualche problematico tratto di verità in
una realtà complessa e inquietante, deforma e stravolge tutti i contenuti con cui viene a
contatto, perché va ripetuto nessun pensiero è indipendente dalla forma espressiva
che gli dà corpo. NOTE (1) Nella conclusione dell'articolo si legge: "Col che ti saluto, caro Ferruccio, e t'avverto di non chiedermi più nulla. Meno che mai di partecipare a risse o a polemiche vane...". (2) L'enunciato non si trova ovviamente nel testo, ma si ricava dalla presenza stessa della rievocazione che non ha evidentemente nessuna funzione informativa, ma solo patetico-espressiva. (3) Nelle citazioni i numeri indicheranno rispettivamente pagina e colonna: es.: 24,5. (4) Questa è un'analisi stilistico retorica e non psicologica. Tuttavia è impossibile non notare la ridondante presenza dell'io della scrivente: anche i "kamikaze" non sono kamikaze qualunque, ma kamikaze D.O.C. qualificati dall'essere entrati a far parte del "suo" Insciallah. (5) Nel testo francese avec onction, parola a cui è difficile trovare un corrispondente in italiano e che ho reso pertanto con la perifrasi con cui è spiegata sul dizionario Robert. Vale la pena di confrontare la definizione ironica di Flaubert con quanto dice (senza ironia) la Fallaci di se stessa e della religione cristiana. (6) Quintiliano, Instituto oratoria, V, 11, 6 (Trad. it. O. Frilli, Bologna 1992). (7) Res gestae in latino, oltre che "fatti avvenuti", significa anche "imprese". Res gestae divi Augusti è il titolo con cui ci è stato tramandato il testamento politico ideologico di Augusto, inciso su una lastra trovata ad Ankara e per questo denominato Monumentum ancyranum. La Fallaci con il suo articolo, e con il relativo libro, dà l'impressione di voler fare un'operazione analoga nei confronti della contemporaneità e della posterità occidentale. (8) Chi volesse saperne di più in proposito si legga L'antica prosa d'arte di Eduard Norden. Un testo non recente ma tuttora valido. (9) Furio Jesi, Cultura di destra, Milano, 1979. Il saggio, molto pregnante e fondato su un sapere ampio, rigoroso e documentato, qual era quello di Jesi, individua due matrici nella cultura di destra di fine Ottocento e del Novecento. Una matrice "sacra" o esoterica: quella del Nazismo mistico votato alla morte come valore; una matrice "profana" o essoterica, quella del Fascismo benpensante che cerca nel passato culturale "roba di valore" e "lusso spirituale", guardandosi bene da un approccio problematico e critico alla storia, alla letteratura eccetera.
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