Carlo Melis Costa Luglio 2003 Anche in un mondo
globalizzato la lingua, la definizione dell’altro da sé è strumentale alla
classificazione del nemico, o, quanto meno, dell’estraneo.
Hic sunt leones “ si scriveva un tempo, in quelle zone di tenebra
della geografia delle quali non si conosceva nulla.
Ignote, e dunque non sedi
dell’Eden.
Ignote e quindi ostili.
Oggi non abbiamo più le
pergamene, abbiamo i dvd. I dvd in almeno tre lingue, i sottotitoli e le
traduzioni dei servizi giornalistici.
Ma quelle zone cupe ed
oscure, ove noi stessi partoriamo i nostri stessi nemici, rimangono, sia pure
attualizzate.
La sfortunata Amina fa delle
dichiarazioni che così vengono tradotte: “Io
spero in Allah perché Allah è buono “. Il palestinese dice: “Siamo nelle mani di Allah “, ed il
traduttore neppure si cura di interessarsi se il Palestinese appartenga o meno
alla cospicua rappresentanza cristiana.
Eppure, non sentiamo mai un
israeliano dire, a bocca del doppiatore:
“Io spero in JHWH “. Io non ho mai sentito dire in un film tedesco doppiato
“ Grazie, Gott”. Eppure il nome è lo
stesso, ed anzi nei secoli sono stati proprio i cristiani ad essere a sospetto
di politeismo per il culto trinitario.
Cosa ci apparirebbe il truce
faccione di Luttwak se dicesse: “ Noi
siamo il paese che crede in God e God ha creato gli stati uniti “?
E’ ovvio che sembrerebbe un
satrapo assiro in adorazione di una misteriosa entità. Quasi un morlock.
Ed ecco che quindi il nome
di Dio diviene patente dell’intraneus. Ma non solo. Le notizie ritagliano nelle
nostre anime spazi di oscurità e paure.
I rom, ad esempio, abitano
le nostre periferie. Li vediamo tutti i giorni. Ma appaiono ai nostri occhi
oscuri ed imperscrutabili, di loro ignoriamo origine e religione, non sappiamo
se parlino un dialetto serbocroato o punjabi.
Sappiamo, ma in modo
confuso, e perché qualcuno – non ricordiamo chi - ce lo ha detto, che sono
ostili e pericolosi. Ecco il frutto del più grande rigetto sociale della
storia. Ignoriamo in che direzione e perché si muovano, incessantemente,
secondo una direzione ondeggiante che a noi occidentali appare misteriosa ed
inquietante. La storia non parlerà mai di loro.
Non è un caso che, nella
storia tragicomica della guerra in Afghanistan, i nomadi abbiano la loro
importanza. Abbiamo seguito il Signor Karzai posto a nominale presidenza di un
paese di cui ignorava praticamente tutto, costretto ad essere controllato a
vista dai marines. Abbiamo seguito Zahir shah tolto alla dolce vita romana,
dapprima insediato poi fatto svanire nella nebbia mediatica. Abbiamo visto
riabilitato un tizio come Dostum, che farebbe sembrare i Talibani dei
focolarini. Abbiamo visto la coltivazione dell’oppio riprendere vistosamente.
Abbiamo visto queste cose e forse distratti non ne abbiamo viste altre.
I piloti americani che
gettavano il napalm sui cortei nuziali o sulle carovane di nomadi convinti che
si trattasse di “terroristi” non commettevano, purtroppo, alcun errore. Questi
ragazzi, forse nel privato persone amabilissime, bombardavano degli estranei ;
gettavano cioè bombe nella zona oscura della loro coscienza, uccidendo quelli
che a causa di una allucinazione ormai non solo collettiva ma culturale erano i
mostri.
Ma che erano invece solo persone, e spesso
inoffensive. Erano bambini e ragazze e donne.
E’ sempre grazie a questo
stato allucinatorio che abbiamo appreso (da fonti, si badi bene, mai indicate)
che forse Osama, ma sicuramente i luogotenenti (dei quali molti datici come
morti ognuno più volte), si nascondono nella oscura zona tribale del nord-ovest
pakistano. Vero cuore di tenebra, in realtà uno dei pochi “hic sunt leones” rimasti ai nostri tempi.
Il film “Black Hawk Dawn”, perfetto e
professionalissimo esempio di kulturkampf
diretta alla creazione di mostri, dopo aver fornito agli spettatori una lettura
della situazione somala degna di un cliente abituale di un bar di periferia,
inizia subito a fare sul serio.
La fotografia è
contrastatissima. E questo non è un dato stilistico, è una scelta estetica.
Una scelta, attenzione, che
trasforma ogni cono di ombra in una zona
di completa tenebra.
L’ombra della falda fa del
volto del nemico un cupo nulla. Dentro le finestre abbacinate dal sole il pozzo
di tenebra nasconde nemici che non sono simili a noi occidentali.
Ergo, non sono umani.
Si affastellano intorno ai
marines come creature di Lovecraft, venute da un passato dimenticato, perdono
ogni identità, e divengono inumane anche nella morte.
Memorabile infatti la scena
del somalo che, dopo aver sparato con un fucile contro un carro armato, viene
colpito da un proiettile del carro stesso ed esplode in mille pezzi. Chi era
quel somalo ? Cosa pensava ? Da chi era composta la sua famiglia ? Quali giochi
usava ad un anno e mezzo, quando iniziava a camminare ? No, risponde Scott,
tutto questo non ci deve interessare, perché era una creatura di tenebra. Lo
vedete bene come è esploso. Gli esseri umani mica esplodono così.
E’ così da sempre
nell’immaginario collettivo. L’occidentale, e quindi ciò che riconosciamo
inconsciamente come totalmente umano, mantiene l’integrità del corpo.
Ricordo lo shock che aveva
provocato una trentina di anni fa un film della factory di Warhol (forse siamo
dalle parti di Morrisey o giù di lì) intitolato semplicemente Autopsy. Intorno alle storie di un
fotografo becerone e di un chirurgo con problemi familiari, si svolge (dal
vero) la autopsia di un ingegnere morto di ictus.
Come film, inteso proprio
come reperto materiale, è bellissimo. Non c’è orrore, non c’è disgusto. Il
corpo viene destrutturato e smontato come effettivamente avviene nelle
necroscopie. Il corpo diviene quindi cosa, o meglio insieme di cose. Non c’è
più l’uomo, non c’è l’0ccidente. C’è la materia.
C’è da dire che Il film poi
si risolve in modo banale ed un po’ naif, con il chirurgo che sente nella sua
testa l’aria sulla quarta corda e capisce di far parte del mondo eccetera
eccetera, ed invece il fotografo becerone che va a sbronzarsi in una discoteca,
in cerca di una botta di vita e candidandosi invece a protagonista per il
sequel “Autopsy -il grande ritorno”.
Però rimane un grande
esempio di cinema.
Ecco, proprio questa
destrutturazione penso abbia voluta Scott nel trattare la carne degli estranei
somali. Le spoglie degli americani uccisi non vengono mai disassemblate.
Invece, le creature delle tenebre, non umane, ma pur senzienti nella loro
malvagità, subiscono lo smontaggio. Ora, se andate a vedere la parte sull’arte
arcaica dell’Hauser, storia sociale dell’arte, vedrete proprio come la
coscienza di sé nasca, secondo l’Autore, graficamente proprio con la eliminazione
delle partizioni tra le membra, il tronco, il capo.
Migliaia di anni dopo, i
media occidentali, per potersi degnamente difendere da un nemico che non
conoscono e che non intendono conoscere, decidono di compiere il cammino
inverso.
Con ciò inconsapevolmente
aiutando anche noi, cittadini di questo mondo, a creare dentro di noi le zone
di ombra ed i mostri che legittimino la separazione.
Vi è di più.
Nei giorni scorsi, gli
ultimi appartenenti al disciolto esercito Iraqeno, quelli che insomma da noi
sarebbero incensati come i combattenti di Cefalonia, sono stati classificati
dalla stampa come terroristi. Come terroristi sono stati eliminati. Senza cioè
che si vedesse una sola goccia di sangue. Così come il massacro di
Mazar-i-Sharif,dove abbiamo visto uomini dei corpi speciali lanciare granate,
ma non verso dove. Sappiamo solo che molti sono morti. Un piccolo assaggio
l’abbiamo avuto con le poche foto rubate con il talebano ignaro, ferito,
evirato e poi finito dagli uomini che pomposamente abbiamo definito l’alleanza
del nord.
La distanza crea ignoranza.
L’ignoranza, a sua volta,
rende plausibile qualsiasi verità.
I terribili attentati
terroristici in Israele sono ampiamente documentati. I piccoli feriti sono
fotografati, lasciano una scia di strazio nei nostri cuori. Braccia disperate a
toccare i copricapo di feltro, mani disperate che si strappano le treccine da
chassidim.
Vero, doloroso. Straziante.
Ma i morti palestinesi di
due mesi, tre anni, i “terroristi” di quattro anni uccisi dalle sedicenti
innocue pallottole di gomma non vengono menzionati.
Le uccisioni selettive che
provocano danni collaterali, non bambini, ma “palestinesi”, di cui solo a ben
vedere scopriamo la vera entità. “UCCISO UN PALESTINESE NEL CORSO DI SCONTRI AD
HEBRON “ (due anni). Diremmo mai UCCISO UN ITALIANO NEL CORSO DI INCIDENTI A
GENOVA. (due anni)?. O piuttosto non diremmo “massacrato un bambino a Genova.
“? Ed ancora, di questi massacri, chi ha visto in occidente le immagini ?
Nessuno.
Non è solo vero che il sangue palestinese non vale il sangue israeliano (eppure per alcuni è sicuramente vero, i secondi credono in Dio, i primi in Allah), ma è vero anche che quod non est in media non est in mundo (a scanso di equivoci, preciso che ho considerato “media” come neologismo indeclinabile). E ciò che non è ripreso, non esiste. Per trovare le vere immagini dei bombardamenti intelligenti in Iraq mi sono dovuto collegare in modo fortunoso ad un sito connesso a Robert Fisk. Cosa dovrei fare per trovare le immagini di oggi dell’Afghanistan ? Gira un magistrale thriller metafisico, The Ring, colta e non adulterina versione di un cult nipponico. “Ringu”. Nella migliore tradizione di I soliti sospetti, di Blair Witch, ed altri, il film suggerisce, ma non impone allo spettatore l’orrore della spersonalizzazione. Lascia così in modo maieutico che sia lo stesso spettatore a imporre a se stesso le proprie paure. Ebbene, una delle scene più massive, in entrambe le versioni, è quella ove si scopre che coloro i quali sono in difetto (non spiegherò perché) appaiono nelle fotografie, sia al solfato d’argento che digitale, sfuocati. La condanna è dunque innanzitutto la perdita del sé, ma soprattutto la perdita della percezione mediatica. Le povere vittime sono sfuocate, ombre in perpetuo movimento nel crepuscolo come i personaggi di Gogol. Ed ugualmente dobbiamo dire, oggi, delle misconosciute vittime della storia. Il guaio è che non spetta né a noi, né al nostro comportamento, né ad una legge superiore stabilire chi deve riuscire sfuocato. Una forma di teologia cattolica che va emergendo in questi anni, attribuisce al riposo di Dio un passaggio di testimone all’uomo nella realizzazione del creato. Attribuendo quindi all’uomo la responsabilità del destino. Nella logica attuale è invece il fine di pochi gruppi a stabilire chi dalla storia deve sparire. Nessuno può trovare dentro di sé colpe. Perché colpe non vi sono. Vi sono invece popoli senza nome e senza volto, costretti da un destino non voluto a soffrire, senza che di queste ragioni possano comprendere. Ed è curioso invece che Michelangelo (e cioè proprio colui il quale nel proprio mausoleo lasciò scritto di non volere sentire il rumore del mondo) attribuisca nel giudizio universale ad ogni volto non solo stupore, dolore, solitudine e disperazione. Ma voglia quasi riuscire ad attribuire ad ognuno un volto, occhi, lineamenti diversi, come se un nome potesse rispettivamente identificarli. E’ questo il solo mondo che ritengo giusto, dove il dolore abbia una causa, ed ogni sofferente un nome. Solo così l’indifferenza può
essere battuta dalla compassione.
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