Un articolo interessante e divertente di Michael Neumann, professore di filosofia alla Trent University, Ontario, Canada, uscito per la prima volta su Counterpunch il 4 giugno 2002. Si veda anche l'articolo di Shraga Elam,
Giudeofobia al servizio d'Israele Ogni
tanto, qualche intellettuale ebreo di sinistra tira un profondo respiro,
spalanca il proprio grande cuore, e ci annuncia che la critica a Israele o al
sionismo non è antisemitismo. In silenzio, queste persone si complimentano con
se stesse per il proprio coraggio. Con un lieve sospiro, cancellano ogni ombra
della preoccupazione che forse ai goyim – per non parlare degli arabi – non sia
il caso di mettere in mano questa pericolosa informazione. Qualche
volta sono i gentili al loro seguito, il cui ethos, se non la cui identità,
aspira all’ebraicità, a sobbarcarsi
questo compito. Per non sbilanciarsi troppo, si affrettano poi a ricordarci che
l’antisemitismo resta comunque qualcosa da prendere molto sul serio. Il fatto
che Israele, con l’approvazione di una nutrita maggioranza di ebrei, stia
combattendo una guerra – una guerra razziale, contro i Palestinesi – è proprio
la ragione principale per stare in guardia. Chi lo sa? Si potrebbe sempre
sollevare qualche ombra di risentimento! Io la
penso diversamente. Ritengo che non si dovrebbe quasi mai prendere sul serio
l’antisemitismo, e che qualche volta dovremmo perfino riderci sopra. Credo che
l’antisemitismo sia sostanzialmente irrilevante a proposito del conflitto
israelo-palestinese, se non forse come distrazione dai problemi reali. Io
sostengo che certe affermazioni siano vere; sostengo anche la loro sensatezza.
Non credo che farle sia una cattiveria gratuita come strappare la coda alle
lucertole. Antisemitismo, tecnicamente e strettamente
parlando, non significa odio per i semiti: questo è confondere le definizioni
con l’etimologia. Antisemitismo significa odio per gli ebrei. Ma su questo
punto, immediatamente, ci troviamo a dover fare i conti con il secolare “gioco
delle tre carte” dell’identità ebraica: “Ecco: la nostra è una religione! No:
un’etnia! No: un’entità culturale! Cioè, scusate… una religione!” Appena ci
stanchiamo di questo gioco, veniamo subito risucchiati nell’altro:
“Antisionismo è antisemitismo!”, che prontamente si alterna con quello
di: “Non confondiamo sionismo con ebraismo! Come osi, antisemita?!” Bene,
cerchiamo di essere sportivi. Cerchiamo di dare dell’antisemitismo un
definizione tanto estesa quanto potrebbe mai desiderarlo un qualsiasi
sostenitore di Israele: antisemitismo può essere l’odio per la razza ebraica, o
per la cultura, o per la religione ebraica, oppure odio per il sionismo. Odio,
ma anche disapprovazione, o opposizione, o lieve antipatia. Ma i sostenitori di
Israele non troveranno questo gioco divertente come si aspettano. Gonfiare il
significato di antisemitismo fino a includere qualunque cosa che possa
danneggiare politicamente Israele è una spada a doppio taglio. Può essere
comodo per colpire i propri nemici, ma il problema è che l’inflazione delle
definizioni, come qualunque altra inflazione, svaluta la moneta. Più cose si
definiscono antisemite, meno orribile suonerà il concetto di antisemitismo.
Questo accade perché, mentre nessuno può impedirci di gonfiare le definizioni,
continuiamo a non poter modificare i fatti. Nello specifico, nessuna
definizione di antisemitismo potrà cancellare la versione dei fatti,
sostanzialmente dalla parte dei palestinesi, che qui sostengo, come fanno la
maggior parte degli europei, molti israeliani, e un numero crescente di
nordamericani. Che
differenza fa questo? Supponiamo, per esempio, che un israeliano di destra dica
che le colonie rappresentano la realizzazione di aspirazioni che sono
fondamentali per il popolo ebraico, e che opporsi ad esse è antisemitismo.
Possiamo accettare questa posizione, che certamente è difficile da confutare.
Ma non possiamo nemmeno abbandonare la convinzione, ben fondata, che gli
insediamenti israeliani stiano soffocando il popolo palestinese e spegnendo
ogni speranza di pace. Dunque, fare
acrobazie sulle definizioni non serve a niente: possiamo solo dire: al diavolo
le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, le colonie sono inaccettabili.
Dobbiamo anche aggiungere che, dal momento che siamo moralmente obbligati a
opporci alle colonie, siamo obbligati a essere antisemiti. Grazie
all’inflazione delle definizioni, certe forme di “antisemitismo” sono diventate
un obbligo morale. Diventa ancora peggio quando è l’antisionismo ad essere
bollato come antisemita, perché le colonie, se anche non rappresentano le
aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, sono un’estensione del tutto
plausibile del sionismo. Opporsi alle colonie vuol dire quindi opporsi al
sionismo, e dunque, secondo la definizione allargata, è antisemita. Più il
concetto di antisemitismo viene espanso fino a includere l’opposizione alle
politiche di Israele, più esso sembra una cosa positiva. E, dati i crimini di
cui deve rispondere il sionismo, c’è un altro semplice passaggio logico da
fare: l’antisionismo è un obbligo morale, dunque se essere antisionisti è
antisemitismo, l’antisemitismo stesso diventa un obbligo morale. Foto ricordo di un safari - febbraio 2002 Quali
sono questi crimini? Perfino gli apologeti di Israele, in maggioranza, hanno
smesso di negarli, limitandosi a insinuare che farli notare è un po’
antisemita. Dopotutto, Israele non è peggio di altri. Primo: e allora?
Impariamo all’età di sei anni che “lo fanno tutti” non è una scusa valida. Ce
lo siamo dimenticato? Secondo, i crimini non diventano peggiori solo perché
considerati indipendentemente dal loro scopo. è vero, altri popoli hanno
massacrato dei civili, li hanno lasciati morire per mancanza di cure mediche,
hanno demolito le loro case, distrutto i loro raccolti, e li hanno usati come
scudi umani. Ma Israele lo fa per validare l’affermazione inesatta di Israel
Zangwill del 1901, secondo cui “La Palestina è una terra senza un popolo; gli
Ebrei sono un popolo senza terra”. Spera di creare una terra totalmente
svuotata dai gentili, un’Arabia deserta in cui i bambini ebrei possano
ridere e giocare in mezzo a un deserto chiamato pace. Molto
prima dell’era di Hitler, i sionisti arrivarono da luoghi lontani migliaia di
chilometri per spogliare dei loro beni persone che non avevano mai fatto loro
nulla di male, e di cui riuscirono a ignorare la stessa esistenza. Le atrocità
dei sionisti non facevano parte del piano iniziale. Emersero man mano che il
razzismo inconsapevole di un popolo perseguitato sfociava nell’ideologia di
superiorità razziale di un popolo persecutore. Questa è la ragione per cui chi
guidò le violenze, le mutilazioni e le uccisioni di bambini a Deir Yassin
sarebbe poi diventato primo ministro di Israele. Ma questi omicidi non
furono abbastanza. Oggi, quando Israele potrebbe avere la pace senza pagare
alcun prezzo, continua a condurre un’altra campagna di spoliazione, rendendo
lentamente, deliberatamente, la Palestina un luogo invivibile per i
palestinesi, e vivibile per gli ebrei. Il suo obiettivo non è la difesa o l’ordine
pubblico, ma l’estinzione di un popolo. In verità, Israele ha abbastanza
abilità di pubbliche relazioni da farlo con un grado di violenza americano
piuttosto che hitleriano. Si tratta di un genocidio più delicato, più gentile,
che dipinge i suoi responsabili come vittime. Israele
sta costruendo uno stato razziale, non religioso. Io, come pure i miei
genitori, sono sempre stato ateo. Eppure ho diritto, per la mia nascita
biologica, alla cittadinanza israeliana; magari voi siete i più fervidi
credenti nel Giudaismo, ma questo diritto non lo avete. I palestinesi vengono
vessati e uccisi per me, non per voi. Sono spinti verso la Giordania, a morire
in una guerra civile. E dunque no, sparare ai civili palestinesi non è la
stessa cosa che sparare ai civili vietnamiti o ceceni. I palestinesi non sono
un “danno collaterale” in una guerra contro comunisti ben armati o forze
separatiste: gli si spara perché Israele pensa che tutti i palestinesi debbano
dileguarsi o morire, così che le persone con un nonno ebreo possano tracciarsi
le suddivisioni di proprietà sulle macerie delle loro case. Questo non è il
tragico errore di una superpotenza arrogante e pasticciona, ma un male
emergente, la strategia deliberata di uno stato concepito e impegnato in nome
di un nazionalismo etnico sempre più aggressivo. Ha al suo attivo relativamente
pochi cadaveri, ma le sue armi nucleari potrebbero uccidere probabilmente
venticinque milioni di persone in poche ore.
Intendiamo
dire che è antisemitismo accusare non solo gli israeliani, ma gli ebrei in
generale, di complicità in questi crimini contro l’umanità? Di nuovo, forse no,
perché ci sono argomenti più che ragionevoli a sostegno di queste affermazioni.
Paragoniamole, ad esempio, con l’affermare che i tedeschi in generale
furono complici di certi crimini. Questo non ha mai voluto dire che tutti i
tedeschi, fino all’ultimo uomo, donna, bambino e ritardato mentale, fossero
colpevoli. Vuol dire che la maggior parte dei tedeschi lo fu. La loro colpa non
fu, ovviamente, quella di aver spinto prigionieri nudi dentro le camere a gas.
Fu quella di aver sostenuto gli individui che pianificarono quegli atti, oppure
– come molta letteratura ebraica moralistica, sopra le righe, ci spiega –
quella di aver negato l’orrore che si dispiegava attorno a loro, quella di aver
rinunciato a parlare e a resistere, quella del consenso passivo. è da notare
che, in questo caso, il fatto che ogni forma di resistenza attiva potesse
essere estremamente pericolosa non è valido come scusante. Bene,
non c’è praticamente nessun ebreo che oggi possa correre dei rischi per il
fatto di parlare chiaro. E il parlare chiaro è l’unica forma di resistenza che
si richiede. Se molti ebrei parlassero chiaro, la cosa avrebbe un effetto
enorme. Ma la stragrande maggioranza degli ebrei non lo fa; e, nella maggior
parte dei casi, non lo fa perché sostiene Israele. A questo punto, la stessa
nozione di responsabilità collettiva dovrebbe forse essere abbandonata; forse,
qualche persona intelligente cercherà di convincerci che dobbiamo farlo. Ma al
momento presente, l’evidenza per la complicità ebraica sembra molto più forte
di quella per la responsabilità tedesca. Dunque, se non è razzista, ed è
ragionevole, affermare che i tedeschi sono stati complici di crimini contro
l’umanità, non è razzista, ed è ragionevole, dire lo stesso degli ebrei. E se
anche il concetto di responsabilità collettiva fosse da abbandonare, il dire
che la maggior parte delle persone ebree adulte sostiene uno Stato che commette
crimini di guerra sarebbe sempre ragionevole, perché è semplicemente la verità.
Quindi, se dire queste cose è antisemitismo, può apparire ragionevole essere
antisemiti. In
altri termini, c’è da fare una scelta. O si usa la parola antisemitismo
adattandola alle proprie intenzioni politiche, o la si usa come termine di
condanna morale, ma non si possono fare entrambe le cose. Se si vuole evitare
che l’antisemitismo finisca con il diventare qualcosa di ragionevole o di
eticamente accettabile, esso deve essere univocamente definito, senza polemica.
Saremmo al sicuro, se confinassimo l’idea di antisemitismo all’odio
esplicitamente etnico per gli ebrei, a chi attacca qualcuno solo perché è nato
ebreo. Ma saremmo inutilmente al sicuro: neppure i nazisti affermavano di
odiare la gente solo perché era nata ebrea. Sostenevano di odiare gli ebrei
perché essi aspiravano a dominare gli ariani. Chiaramente, una visione simile
deve essere considerata comunque antisemita, sia che appartenga ai cinici
razzisti che l’hanno concepita, sia agli stupidi che l’hanno mandata giù. C’è
un solo modo per essere sicuri che il termine antisemitismo includa
tutti (e soltanto) le azioni o gli atteggiamenti negativi verso gli ebrei.
Dobbiamo cominciare da quelli su cui siamo tutti d’accordo che lo siano, e
assicurarci che il termine indichi tutti e solo quelli. Probabilmente, tutti
noi condividiamo un senso morale comune abbastanza per poterlo fare. Per
esempio, condividiamo abbastanza senso morale per dire che tutti gli atti e le
avversioni basate sulla discriminazione etnica sono inaccettabili, e di
conseguenza possiamo classificarli senza dubbio come antisemiti. Ma non vuol
dire che qualunque forma di ostilità verso gli ebrei, nemmeno nel caso
che significhi ostilità verso una maggioranza schiacciante di ebrei, debba
essere considerata antisemita. Né dovrebbe esserlo qualunque forma di ostilità
verso la religione o la cultura ebraica. Io,
per esempio, sono cresciuto nella cultura ebraica, e come capita a molte
persone che sono cresciute in una determinata cultura, essa ha finito con il
non piacermi. Ma è insensato classificare il fatto che non mi piaccia come
antisemita; e non perché io sono ebreo, ma perché la mia antipatia è innocua.
Forse non è innocua in assoluto: potrebbe darsi che, in qualche debolissimo
modo indiretto, essa un giorno incoraggi qualcuno degli atti o degli
atteggiamenti pericolosi che abbiamo deciso di chiamare antisemiti. Ma allora?
Il filosemitismo esagerato, quello che considera tutti gli ebrei come dei
santi, brillanti, sensibili e intelligenti, potrebbe avere lo stesso effetto. I
pericoli prospettati dalla mia disapprovazione per la cultura ebraica sono
molto minori. Anche nei casi in cui è molto diffusa, l’antipatia collettiva per
una cultura è normalmente innocua. La cultura francese, per esempio, sembra
risultare largamente antipatica tra i nordamericani, ma nessuno, nemmeno i
francesi, considera questo una sorta di crimine razzista. Non è
neppure vero che tutte le azioni o gli atteggiamenti che possano recare un
danno agli ebrei siano da considerare antisemiti. Molte persone disapprovano la
cultura americana; alcuni boicottano i prodotti americani. Sia l’atteggiamento,
sia l’azione potrebbero in generale recare un danno agli americani, ma non c’è
niente di moralmente condannabile nell’una o nell’altra cosa. Definirli come
atti di antiamericanismo significherebbe solo affermare che alcune forme di
antiamericanismo sono perfettamente accettabili. Se l’opposizione alla politica
di Israele viene chiamata antisemita, in quanto potrebbe portare qualche danno
agli ebrei in generale, questo significherà solo dire che alcune forme di
antisemitismo sono ugualmente accettabili. Se
si vuole che antisemitismo rimanga un termine negativo, lo si può
applicare anche al di là delle azioni, delle idee e dei sentimenti
esplicitamente razzisti. Ma non lo si può applicare oltre gli esempi di
ostilità grave e chiaramente ingiustificata contro gli ebrei. I nazisti si
costruirono fantasie storiche per giustificare i propri attacchi; lo stesso
fanno i moderni antisemiti che credono nei Protocolli dei Savi di Sion. Lo
stesso fanno i razzisti striscianti, che si lamentano del dominio ebraico
sull’economia. Questo è antisemitismo nel senso stretto e negativo della
parola. Si tratta di azioni o di propaganda pianificate per fare del male agli
ebrei, non per qualcosa che hanno fatto, ma per quello che sono. Lo stesso
discorso può applicarsi agli atteggiamenti che questa propaganda punta a
inculcare: benché non sia sempre esplicitamente razzista, essa si porta dietro
motivazioni razziste, e l’intenzione di fare un danno reale. Un’opposizione
ragionevolmente fondata alle politiche di Israele, invece, non si adatta a
questa descrizione, nemmeno quando offende tutti gli ebrei. Né vi si adatta la
semplice e innocua antipatia per qualcosa di ebraico. Istruttore della "Legione ebraica" composta in gran parte da cittadini degli Stati Uniti In
conclusione, quello che ho suggerito è che sarebbe meglio restringere la
definizione di antisemitismo, in modo tale che nessun atto possa essere allo
stesso tempo antisemita e accettabile. Ma possiamo andare oltre. Ora che abbiamo
giocato abbastanza, poniamoci qualche domanda sul ruolo che ha il vero,
deprecabile antisemitismo, nel conflitto israelo-palestinese e nel mondo in
generale. Indubbiamente
esiste del genuino antisemitismo nel mondo arabo: la diffusione dei Protocolli dei
Savi di Sion, le leggende sugli ebrei che nei loro rituali verserebbero il
sangue dei bambini gentili. Questo è oggettivamente ingiustificabile. Ma lo è
anche il fatto che si siamo dimenticati di nuovo di rispondere alla lettera
della nonna. In altri termini, c’è un punto importante: dobbiamo semplicemente
accettare il principio che l’antisemitismo è un male. Non farlo ci porrebbe al
di fuori del consesso civile. Ma è una cosa molto diversa dall’avere qualcuno
che ci ossessiona pretendendo che l’antisemitismo sia il Male di tutti i Mali.
Non siamo bambini che stanno imparando la moralità: è responsabilità
nostra stablire le nostre priorità
morali. Non possiamo farlo fondandoci su orribili immagini che risalgono al
1945, o sui lamenti angosciati di giornalisti sofferenti. Dobbiamo chiederci
quanto male fa o può fare l’antisemitismo, non nel passato, ma oggi. E dobbiamo
chiederci dove questo male può manifestarsi, e perché. Si
ritiene che vi siano gravi pericoli nell’antisemitismo del mondo arabo. Ma l’antisemitismo
arabo non è la causa dell’ostilità araba verso Israele, o magari verso gli
ebrei. Ne è un effetto. Il progredire dell’antisemitismo arabo va di pari passo
con il progredire dell’avanzata territoriale ebraica, e delle atrocità commesse
da ebrei. Questo, non per giustificare il genuino antisemitismo, semmai, per
banalizzarlo: esso è arrivato nel Medio Oriente con il sionismo, e scomparirà
quando il sionismo cesserà di essere una minaccia espansionistica. Di fatto, la
sua causa principale non è la propaganda antisemita, ma gli sforzi sistematici,
decennali e senza posa che fa Israele per coinvolgere tutti gli ebrei nei
propri crimini. Se l’antisemitismo arabo persistesse dopo il raggiungimento di
un accordo di pace, potremmo discuterne, e deprecarlo. Ma comunque, non farebbe
molto danno reale agli ebrei. I governi arabi avrebbero solo da perdere,
permettendo attacchi contro i propri cittadini ebrei: significherebbe un invito
per Israele a intervenire. E ci sono ben poche ragioni di aspettarsi che tali
attacchi si verifichino: se tutti gli orrori delle recenti campagne israeliane
non sono bastati a provocarli, è difficile immaginarsi cosa potrebbe riuscirci.
Ci vorrebbe probabilmente qualche azione israeliana così orrenda e criminale da
far scomparire gli attacchi stessi. Se è
verosimile che l’antisemitismo possa avere effetti terribili, è di gran lunga
più probabile che li abbia nell’Europa occidentale. Là, i risvegli neofascisti
sono del tutto reali. Ma sono un pericolo per gli ebrei? Non ci sono dubbi che
Le Pen, per fare un esempio, sia antisemita. Ma non esiste alcun indizio che
abbia intenzione di fare qualcosa a questo proposito. Al contrario, sta facendo
ogni sforzo possibile per pacificarsi gli ebrei, e forse addirittura per
assicurarsi il loro aiuto contro il suo vero obiettivo, gli “arabi”. Non
sarebbe certo il primo politico ad allearsi con qualcuno che non gli piace. Ma
se avesse davvero dei piani accuratamente dissimulati contro gli ebrei, allora
sì che sarebbe insolito: Hitler e i russi antisemiti che avrebbero scatenato i
pogrom erano straordinariamente
trasparenti sulle loro intenzioni, e non tentarono mai di accattivarsi
il sostegno degli ebrei. E che alcuni ebrei francesi vedano Le Pen come uno
sviluppo positivo, o addirittura un alleato, è un fatto (si veda, per esempio, Le
Pen è un bene per noi, dicono sostenitori ebrei, Ha’aretz, 4 maggio 2002, e
il commento di Goldenburg su France TV del 23 aprile). Certo, esistono ragioni
storiche per temere un orrendo assalto contro gli ebrei. E tutto è possibile:
potrebbe esserci un massacro di ebrei a Parigi domani stesso, oppure di
algerini. Quale dei due è pù probabile? Se si imparano lezioni dalla storia, le
si dovrebbe applicare a circostanze che si somiglino. L’Europa di oggi
assomiglia ben poco all’Europa del 1933. E ci sono anche possibilità positive:
per quale motivo la probabilità di un pogrom dovrebbe essere maggiore di quella
di vedere l’antisemitismo svanire in una malevolenza inconcludente? Qualunque
legittima preoccupazione dovrebbe basarsi sul fatto che c’è effettivamente una
minaccia. L’occorrenza
di aggressioni antisemite potrebbe dimostrare questa minaccia. Ma queste prove
sono notevolmente confuse: non viene fatta nessuna distinzione tra gli attacchi
contro monumenti o simboli ebraici e le effettive aggressioni contro ebrei.
Inoltre, si mette l’accento sull’aumentata frequenza degli attacchi, tanto da
lasciar sfuggire all’attenzione il fatto che il loro livello sia veramente
molto basso. Gli attacchi simbolici, in effetti, sono aumentati in assoluto, in
modo significativo. Quelli alle persone no [1]. Ancora più importante, la
maggior parte di questi attacchi viene da residenti musulmani: in altre parole,
da una minoranza largamente odiata, perseguitata, e soggetta a severo controllo
poliziesco, che non ha la minima possibilità di intraprendere una seria
campagna di violenza contro gli ebrei. è certo
molto spiacevole che una mezza dozzina di ebrei siano finiti in ospedale –
nessuno ucciso – a causa di recenti aggressioni in vari luoghi d’Europa. Ma
chiunque consideri questo come uno dei problemi più importanti del mondo,
semplicemente non ha dato un’occhiata al mondo. Questi attacchi sono di
competenza della polizia, non sono una ragione per cui noi tutti dobbiamo farci
poliziotti di noi stessi e degli altri, per arginare qualche mortale malattia
morale. Questo tipo di reazione è appropriato solo quando gli assalti razzisti
avvengono in società ostili o indifferenti alla minoranza aggredita. Coloro che
hanno realmente paura di un ritorno del nazismo, per esempio, dovrebbero
riservare la loro angosciata preoccupazione alle aggressioni, di gran lunga più
sanguinose, e di gran lunga più facilmente perdonate, contro gli zingari, la
cui storia di persecuzioni è pienamente paragonabile al passato degli ebrei. La
posizione degli ebrei è molto più vicina a quella dei bianchi americani, che
sono anch’essi, ovviamente, vittime di aggressioni a sfondo etnico. Non c’è
dubbio che molte persone rifiutino questa sorta di ragionamento numerico a
sangue freddo. Replicheranno che, con l’ombra del passato che incombe su di
noi, anche una sola ingiuria antisemita è una cosa terribile, e che la bruttura
non si può misurare dal numero di cadaveri. Ma se assumiamo un punto di vista
più ampio sulla faccenda, l’antisemitismo diventa meno importante, non
di più. Considerare qualunque spargimento di sangue ebraico come una calamità
planetaria, che va al di là di ogni misura e paragone, è razzismo puro e
semplice: significa dare al sangue di una razza un valore maggiore che a quello
di tutte le altre. Il fatto che gli ebrei siano stati perseguitati per secoli,
e che abbiano sofferto terribilmente mezzo secolo fa, non cancella il fatto
che, nell’Europa di oggi, gli ebrei sono cittadini ben integrati, che hanno di
gran lunga meno ragioni di soffrire e di temere di quante ne abbiano altri
gruppi etnici. Certo, le aggressioni razziste contro una minoranza benestante
sono tanto spregevoli quanto gli attacchi razzisti contro una minoranza povera
e senza potere. Ma aggressori ugualmente spregevoli non vuol dire attacchi
altrettanto preoccupanti. Non
sono gli ebrei, oggi, che vivono con l’incubo del campo di concentramento. I “campi di transito” proposti da Le Pen
sono per gli arabi, non per gli ebrei. E per quanto vi siano partiti
politicamente rappresentativi che contengono molti antisemiti, non uno solo di
questi partiti mostra alcun segno di articolare, e tanto meno di perseguire, un
programma antisemita. Né esiste alcuna ragione di sospettare che, una volta al potere,
cambieranno tono. L’Austria di Haider non è considerata pericolosa per gli
ebrei; né lo era la Croazia di Tudjman. E sa anche ci fosse un tale pericolo,
be’, abbiamo uno stato ebraico con tanto di armi nucleari pronto ad accogliere
qualunque rifugiato, come pure farebbero gli Stati Uniti o il Canada. E dire
che non ci sono pericoli reali adesso, non significa dire che bisogna ignorare
ogni pericolo che potrebbe sorgere in futuro. Se in Francia, per esempio, il
Front National cominciasse a invocare campi di transito per gli ebrei, dovremmo
preoccuparci. Ma non è il caso di preoccuparci per ogni cosa allarmante che
potrebbe appena ipoteticamente accadere: ci sono cose molto più allarmanti che
accadono già! Si
potrebbe sempre replicare che, se le cose non sono diventate più allarmanti, è
solo perché gli ebrei – e altri – sono sempre stati tanto vigili nel combattere
l’antisemitismo. Ma questo non è plausibile. Per prima cosa, la vigilanza
contro l’antisemitismo è una specie di visione a senso unico: come i
neofascisti stanno ben imparando, possono sempre evitare di farsi notare
rimanendosene zitti a proposito degli ebrei. Inoltre, non ci sono stati
pericoli gravi per gli ebrei nemmeno in paesi tradizionalmente antisemiti sui
quali il mondo non tiene gli occhi aperti, come l’Ucraina o la Croazia.
Paesi ai quali si dedica pochissima attenzione non sembrano più pericolosi di
quelli che ne hanno molta. Per quanto riguarda le vigorose reazioni contro Le
Pen in Francia, esse sembrano avere molto più a che fare con la repulsione
francese verso il neofascismo che con le rampogne della Anti-Defamation League.
Supporre che le organizzazioni ebraiche e i coscienziosi giornalisti che
insistono sul pericolo antisemita stiano salvando il mondo dalla catastrofe è
come affermare che siano stati Bertrand Russell e i pacifisti quaccheri a
salvarci da una guerra nucleare. A
questo punto, si potrebbe dire: quali che siano i reali pericoli, questi
avvenimenti sono comunque atroci per gli ebrei, e si portano dietro
insopportabili ricordi dolorosi. Questo può essere vero per quei pochi che
ancora hanno questi ricordi, non per gli ebrei in generale. Io sono un ebreo
tedesco, e avrei un’ottima opportunità di rivendicare il mio status di vittima
di seconda o terza generazione. Invece, gli incidenti antisemiti e un clima di
crescente antisemitismo non mi preoccupano così tanto. Ho molta più paura
quando mi trovo in situazioni realmente pericolose, per esempio quando guido. E
comunque, anche i ricordi dolorosi e gli stati d’ansia non rappresentano molto,
paragonati alle reali sofferenze fisiche inflitte dalle discriminazioni a tanti
non ebrei. Tutto
questo non vuole sminuire tutto l’antisemitismo, ovunque. Si sente spesso
parlare di malevoli antisemiti in Polonia o in Russia, sia per le strade, sia
al governo. Ma, per quanto ciò possa essere preoccupante, è anche immune da
ogni influenza da parte dei conflitti israelo-palestinesi, ed è molto
improbabile che quei conflitti possano influenzarlo in un modo o nell’altro.
Per di più, per quanto ne so, in nessun luogo c’è tanta violenza contro gli
ebrei quanta ce n’è contro gli “arabi”. Quindi, se anche l’antisemitismo è, da
qualche parte, una questione catastroficamente seria, possiamo solo concluderne
che il sentimento antiarabo è qualcosa di ancora, molto più serio. E siccome
qualunque gruppo antisemita è anche, e in misura molto maggiore, contro
l’immigrazione e contro gli arabi, questi gruppi si potrebbero combattere non
in nome dell’antisemitismo, ma in difesa degli arabi e degli immigrati. In
breve, il vero scandalo oggi non è l’antisemitismo, ma l’importanza che gli si
dà. Israele ha commesso dei crimini di guerra. Ha coinvolto gli ebrei in
generale in questi crimini, e in generale gli ebrei si sono affrettati a
lasciarvisi coinvolgere. Questo ha provocato astio contro gli ebrei. Perché non
avrebbe dovuto? In qualche caso questo astio è razzista, in qualche altro caso
no, ma cosa importa? Perché dovremmo dedicarvi tanta attenzione? Il fatto che
la guerra etnica di Israele abbia provocato un’aspra rabbia è importante in
confronto alla guerra stessa? La remota possibilità che da qualche parte, in
qualche momento, in qualche modo, questo odio potrebbe forse, in teoria,
uccidere degli ebrei è importante rispetto alla brutale, reale persecuzione
fisica dei palestinesi, e rispetto alle centinaia di migliaia di voti a favore
di chi vorrebbe internare gli arabi nei campi di transito? Oh, ma… dimenticavo.
Come non detto, mi rimangio tutto: qualcuno con la bomboletta spray ha scritto
degli slogan antisemiti sul muro di una sinagoga. [1]
Nemmeno la ADL o il B’nai B’rith includono gli attacchi palestinesi contro
Israele nel conto; parlano piuttosto di “Punti di vista insidiosi con cui viene
visto il conflitto tra israeliani e palestinesi, usati dagli antisemiti” (http://www.adl.org/presrele/ASInt_13/4084_13.asp)
E come molte altre persone, io non considero gli attacchi terroristici di
organizzazioni come Al Qaeda come esempi di antisemitismo, ma piuttosto come
una fallimentare campagna paramilitare contro gli USA e Israele. Perfino se li
si include nel conto, non appare particolarmente pericoloso essere ebreo al di
fuori di Israele.
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