Da Antonio Gramsci a Piero Fassino:

Note introduttive per farsi una ragione e capirci qualcosa in ciò che è successo nel comunismo italiano

II parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione

Alla parte precedente

Alla parte successiva




2. Antonio Gramsci, l’Ordine Nuovo e le origini del comunismo italiano

Non vi è qui lo spazio per soffermarsi sulle origini storiche del comunismo italiano fra il 1919 ed il 1921 e sulle componenti politiche e ideologiche che vi confluirono. Mi limiterò a commentare soltanto la figura di Antonio Gramsci e l’impostazione della rivista torinese Ordine Nuovo. Credo che il cuore del problema stia proprio qui, ed occorra capirlo.

Gramsci è stato spesso accusato di “produttivismo”, di “fabbrichismo”, ecc., ecc. Credo che si tratti di una accusa ingenerosa, ingiusta e sbagliata. Gramsci aveva tutte le ragioni storiche per credere nel 1919 che il problema della “traduzione” in Italia della rivoluzione russa del 1917 non potesse limitarsi alla costruzione di un disciplinato partito comunista per la presa del potere (come di fatto sosteneva Amadeo Bordiga), ma dovesse basarsi sulla capacità complessiva reale della classe operaia della grande fabbrica moderna di gestire la riproduzione armonica dell’intera società. Si trattava di una ipotesi assolutamente legittima e coerente, che derivava direttamente da un fatto incontrovertibile, e cioè che la borghesia si era moralmente e politicamente delegittimata con il bagno di sangue della grande guerra 1914-1918. Questo “spirito di scissione” (espressione letterale gramsciana) dalla borghesia imperialistica e dalle direzioni socialiste opportuniste era in quel momento del tutto logico. Chi “retrodata” al 1919-21 la consapevolezza del fallimento del comunismo storico novecentesco del 1989-91 è al di fuori non solo del marxismo ma del comune buon senso.

Oggi però sappiamo tre cose. Primo, che il ciclo storico 1919-1991 mostra che, almeno per ora, la classe operaia di fabbrica si è ampiamente mostrata incapace politicamente e culturalmente di gestire l’intera produzione sociale in vista di un mutamento stabile del modo di produzione. Secondo, che è filologicamente assodato che Karl Marx non ha mai pensato che il soggetto rivoluzionario anticapitalistico fosse la classe operaia di fabbrica, ma pensava invece che lo fosse il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della grande produzione capitalistica, da Marx connotata con il termine inglese di general intellect. Terzo ed ultimo, che l’attribuzione della capacità rivoluzionaria al proletariato di fabbrica fu una creazione autonoma di Engels, su mandato indiretto della classe operaia socialdemocratica tedesca della seconda rivoluzione industriale e della grande depressione 1873-1895, che fece ragionevolmente pensare ad un possibile imminente crollo della intera produzione capitalistica, e soprattutto ad una sua strutturale incapacità di sviluppare le forze produttive.

Oggi sappiamo queste tre cose, e molte altre ancora. Ma Gramsci non poteva saperle, ed è sciocco rimproverarlo con il “senno del poi” di ottanta anni dopo. Egli era dunque pienamente legittimato a porre il problema della capacità autonoma produttiva complessiva del proletariato. Onore a Gramsci per averlo pensato allora, ma nessun “onore” ai gramsciani di ottanta anni dopo che fingono che il tempo da allora non sia passato.



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