ALCUNI PROBLEMI CHE SI PONEVANO AL MOMENTO DELL'UNITA'
La riforma Casati era quanto di più avanzato vi fosse in Italia immediatamente prima dell'unificazione. Abbiamo già visto che in gran parte essa era velleitaria perché non aveva né forniva gli strumenti perché si realizzasse. Abbiamo anche vista l'eccessiva enfasi ai portati del Romanticismo, all'educazione classica come asse portante della scuola e alla sua separazione da quelle tecniche e professionali che nascevano male come delle vere cenerentole nonostante vi fosse un grande bisogno di un loro armonico sviluppo in uno Stato in rapida evoluzione che si proponeva alla guida dell'Italia e che vedeva una rapida industrializzazione con mancanza di operai specializzati. Vi era però un peccato di fondo che minava tutto l'impianto: la scarsa considerazione per la scuola di base. Da un lato gli asili infantili, che pure erano una creazione di Ferrante Aporti, esule in Piemonte dal 1848, furono completamente trascurati e dall'altro la scuola elementare trascurata ed abbandonata ai comuni che spessissimo non avevano risorse per farla funzionare. Infine, con l'Unità, questa scuola fu trasferita d'autorità a tutti gli altri Stati con gli infiniti problemi che ne discesero e con la percezione dell'autoritarismo di tale operazione unita all'impreparazione della classe dirigente ad una visione estesa all'intera penisola (non disponevano di studi, di indagini, di statistiche indispensabili per ogni operazione di riforma). Vi era poi un elemento che fece fare molti passi indietro anche ai liberali più aperti: l'emergere in Europa del socialismo. Al di là di altri problemi che vedremo in seguito, i problemi più gravi con i quali l'Italia unita doveva confrontarsi era la completa arretratezza dell'intero Paese che misurava, ad esempio, un'analfabetismo di gran lunga maggiore che nel resto d'Europa. Non a caso la Chiesa era stata (e sarà mantenuta) come pilastro dominante dell'educazione). Dalle tabelle seguenti si può cogliere l'abisso di separazione dell'Italia (e della cattolica Spagna) dal resto d'Europa:
Maschi % | Femmine % | Totale % | |
1861 | 72,00 | 84,00 | 78,00 |
1871 | 67,04 | 78,94 | 72,96 |
1881 | 61,03 | 73,51 | 67,26 |
1901 | 51,13 | 60,82 | 56,00 |
1911 | 42,80 | 50,50 | 46,20 |
1921 | 33,40 | 38,30 | 35,80 |
1931 | 17,00 | 24,00 | 21,00 |
1951 | 10,50 | 15,20 | 12,90 |
1961 | 6,60 | 10,00 | 8,30 |
1971 | 4,00 | 6,30 | 5,20 |
1981 | 2,03 | 3,61 | 3,10 |
1991 | n.d. | n.d. | 2,10 |
Fonti:
Genovesi, Storia
della scuola in
Italia dal
Settecento a
oggi, Laterza
2000
Anno |
Italia |
Spag |
Ger-Aus |
Sviz |
Francia |
Sve-Nor-Dan |
Bel-Ol |
Ing |
USA |
Giap |
1861 |
74,7 |
75 |
20 |
19 |
47 |
10 |
45 |
31 |
20 |
36 |
1880 |
47,5 |
55 |
2 |
2 |
17 |
1 |
22 |
14 |
17 |
29 |
1900 |
48,6 |
51 |
1 |
1 |
17 |
0,5 |
19 |
3 |
11 |
12 |
1920 |
35,2 |
49 |
1 |
1 |
14 |
0,5 |
15 |
3 |
8 |
5 |
1941 |
13,8 |
17 |
1 |
1 |
12 |
0,5 |
11 |
2 |
5 |
4 |
1950 |
12,9 |
16 |
1 |
1 |
4 |
0,5 |
3 |
2 |
3 |
2 |
1960 |
8,3 |
12 |
1 |
1 |
3 |
0,5 |
2 |
1 |
2 |
1 |
1970 |
5,2 |
5,9 |
1 |
0,5 |
2 |
0,5 |
1 |
0,5 |
1 |
1 |
1980 |
3,1 |
3,4 |
0,5 |
0,3 |
0,4 |
0,5 |
0,4 |
0,4 |
1 |
1 |
1990 |
2,9 |
2,8 |
0,2 |
0,2 |
0,3 |
0,3 |
0,3 |
0,3 |
0,5 |
0,2 |
anni di freq.scuola |
7,6 |
6,9 |
11,6 |
11,6 |
12 |
11,4 |
11,3 |
11,7 |
12,4 |
10,8 |
Fonte: Libro-Agenda "FINO AL 2001 E RITORNO" di Francomputer
Il primo censimento post-unitario del 1861, rivelò e rilevò una media di analfabetismo del 75%, un dato drammatico tanto più si andava a sud e più diffuso tra la popolazione di sesso femminile. Ancora le differenze linguistiche da regione a regione ed i diversi dialetti nell’ambito della stessa regione erano diversissime e scarsa era la conoscenza della lingua nazionale, parlata solo dai letterati, funzionari, avvocati da quelli insomma che conoscevano anche il latino. Si pensò allora di istituire una vigilanza all’insegnamento della lingua nazionale con la diffusione dei provveditorati agli studi e come modello fondamentale per la didattica fu scelto quello tedesco o prussiano, sia per scelte di matrice politica quali il centralismo e la forte burocrazia ma anche per contenuti e metodi didattici ministeriali cui il cittadino si doveva conformare passivamente con il versamento del tributo. L’impianto didattico prevedeva la divisione in classi per anni di corso, la priorità alle discipline letterarie e classiche anche negli indirizzi tecnici, la svalutazione della scuola di base e la super valutazione di quella secondaria classica ed universitaria, gli orari rigidi e l’eliminazione di ogni attività non prevista dai programmi ministeriali. Altra affinità con il modello della dotta Germania, fu il concetto di libertà accademica, in particolare del mondo universitario dalla passata egemonia ecclesiastica dei gesuiti in Piemonte come dei luterani in Germania, infine la concessione classista di separare nettamente la scuola antica classica dalla nuova scuola tecnica ed entrambe ancora dal grado di istruzione elementare, ribadendo il concetto delle differenze sociali dei ceti e della divisione sociale del lavoro.
Merita il soffermarsi un istante sulle condizioni di vita di gran parte della popolazione in modo si possa meglio cogliere il livello enorme di difficoltà con cui ci si scontrava nell'intervento scolastico.
Le famiglie vivevano in stalle «avendo riguardo a lasciare uno spazio difeso dal bestiame, ove si ricoveravano nel giorno le donne e i bambini» (...) e altre in tuguri di pietra con pertugi a mo' di finestra chiusi con la carta o in catapecchie di legno «spalmato dentro e fuori di creta» con tetti di «canna di sorgo di turco» (...) o in stanze sotterranee, o comunque basse, umide, «con pavimento o in terra o in tavelle rotte e sconnesse, non difese dal freddo, non dal caldo, con le pareti affumicate e sozze di ogni bruttura (...) dove rari entrano i raggi solari, ove esalano disagradevoli e malsani odori, che (...) è necessità far servire a più usi, ove spesso [il povero] deve riposare con la moglie, i genitori, le sorelle, i fratelli» (...) e, in alcuni casi, con vari animali, dalle galline al maiale, all'asino o al mulo. Non mancano addirittura famiglie che vivono «in grotte, od in capanne di sterpi e di mota prive di finestre, o nelle umide cantine dei 'fondaci' napoletani» (...).
L'affollamento, in questi locali multiuso e fatiscenti ma costosi - più di un quinto del salario mensile -, dal mobilio ridottissimo e di risulta, con il pagliericcio al posto del letto, con le imposte delle finestre, quando ci sono, che fanno da tavolo durante le ore del giorno, arriva anche a dieci persone. Sono condizioni che per molti milioni di italiani perdureranno fino alla seconda guerra mondiale e oltre e non lasciano dubbi sulle conseguenze negative anche sul piano sanitario, già grave non solo per le generali carenze igieniche, i troppo frequenti matrimoni fra consanguinei, e per un'assoluta mancanza di una vera e propria assistenza medica - del resto rifiutata fino a quando è possibile -, ma anche per i pesanti orari di lavoro (dalle 12 alle 15 ore giornaliere) e per gli endemici stati di denutrizione di una siffatta popolazione di diseredati.
In alcune zone, come quelle della Bassa padana, del Comasco, dell'alto Milanese e del Veneto, i contadini si cibano esclusivamente di mais, che sazia senza nutrire, così come in Puglia «i braccianti non mangiano che pane nero d'orzo» (...). Nella maggior parte delle mense contadine e proletarie la carne è del tutto assente e il consumo di pesce è irrisorio e limitato al merluzzo. Il basso rifornimento di calorie, dovuto a un'alimentazione scarsa di grassi, vitamine e proteine e spesso centrata su un unico cibo, come la polenta, favorisce il diffondersi della pellagra e il permanere di uno stato di denutrizione che depaupera le possibilità lavorative degli adulti e di rendimento scolastico dei ragazzi, quando non porta entrambi a una morte precoce.
La denutrizione porta a rachitismo, a scarsa concentrazione e a problemi agli occhi. Le scuole, quando esistono, sono lontane e difficilmente raggiungibili sia dai fanciulli che dai maestri, le condizioni delle scuole erano insane e molti maestri si ammalarono di tubercolosi (dei fanciulli non si sa perché gli eventuali casi vanno sotto la dicitura: assente).
A margine di queste drammatiche, vicende vi era il dibattito teorico dei liberali sull'organizzazione sociale, sul ruolo della scuola e come essa doveva essere intesa in termini di libertà. Questo dibattito è ben riassunto da Geymonat e Tisato e merita di essere riportato perché è ancora oggi (o forse soprattutto oggi) strumento di riflessione importante [18]:
Di fronte al profilarsi della possibilità di un « monopolio » statale in campo educativo, l'atteggiamento dei liberali « laici » è duplice. Da una parte abbiamo il gruppo degli studiosi e uomini politici che fanno capo al periodico II progresso, fra i quali la figura più significativa è quella di Bertrando Spaventa, dall'altra il gruppo dei collaboratori del Risorgimento e della Croce di Savoia, fra i quali emergono il Farini, il Berti e il Cavour.
Per i componenti di questo secondo gruppo, il cui liberalismo è di derivazione empiristico-anglosassone, la libertà è una tecnica, un metodo capace di assicurare un processo di auto-equilibrazione in ogni settore della vita. Non c'è dunque alcuna valida ragione per accettare il liberismo in campo economico e rifiutare la più assoluta libertà nel campo educativo. (...)Questi liberisti non si rendono conto del fatto che parlare di concorrenza, a proposito delle istituzioni educative, non significa nulla, se non si precisi il piano sul quale si intende che la concorrenza stessa si attui. In economia le cose sono molto semplici: concorrenti i produttori, giudici gli acquirenti, premio il maggiore smercio della merce che risulta complessivamente meno costosa e migliore. Trasferito il metodo sul piano della scuola, risulterebbero concorrenti le varie scuole « libere » e giudici le famiglie. Ma queste ultime in base a quale criterio valuteranno la bontà del prodotto? In base alla migliore istruzione ed educazione impartita oppure in base alla maggiore indulgenza nel far conseguire i famigerati « titoli » ?
D'altro canto, se la concorrenza si attua fra scuole appartenenti a confessioni, religiose o politiche, diverse, essa viene inesorabilmente declassata a strumento di proselitismo, l'idoneità scientifica degli insegnanti passa in seconda linea di fronte alla integrità, ortodossia e saldezza della loro « fede ». Nell'uno e nell'altro caso, la scuola perde di vista quello che dovrebbe essere il suo vero fine, vale a dire il promovimento di libere e consapevoli personalità [sottolineatura mia]. (...)
Ed è precisamente sotto questo punto di vista che il liberalismo dello Spaventa ci appare più consapevole e concreto di quello cavouriano. Lo Spaventa sostiene la necessità di rinviare l'applicazione del principio di libertà al momento in cui sarà stata distrutta la posizione di privilegio tuttora detenuta dal clero; fino al momento in cui si potrà garantire a tutte le scuole private una effettiva parità di condizioni. Ora è chiaro che l'incubo dello Spaventa per le « Orsoline, i Carmelitani scalzi e gli Agostiniani calzati », il suo timore di una monastica coorte dilagante per l'Italia alla conquista della scuola non nasce da un'astratta preoccupazione per il turbamento dell'equilibrio fra i concorrenti. Non il monopolio in quanto tale, ma « quel particolare monopolio » è il nemico dello Spaventa. A questo punto, il problema della libertà di insegnamento, intesa come facoltà concessa ai privati ed agli enti di istituire e gestire scuole, si innesta e si trasforma in quello della libertà della cultura. « Riconoscere la libertà dell'insegnamento è riconoscere la sovranità della ragione nell'ordine del pensiero. » Non si tratta più di sapere dal risultato della concorrenza quale sia la scuola migliore, se quella privata o quella statale, se quella confessionale o quella laica: la scuola migliore è quella che riconosce la sovranità della ragione. Il problema della opportunità o inopportunità di concedere a chicchessia la facoltà di istituire e gestire scuole si trasforma, con lo Spaventa, nel problema di favorire il sorgere e lo svilupparsi di una scuola libera all'interno, una scuola in cui la libertà costituisca il metodo stesso dell'insegnamento. Tale non è, non può essere, la scuola confessionale. D'altro canto, non si tratta di favorire tante scuole di parte quante sono le correnti, giacché in questo caso ognuna educherebbe, con eguale intolleranza, in base ai chiusi principi del suo verbo. La soluzione sta in una scuola aperta alle diverse ed anche alle opposte esigenze educative e tale può essere solo la scuola di Stato.
È sintomatico il fatto che i più accaniti difensori del principio della libertà di insegnamento, come facoltà di istituire e di gestire scuole, siano i cattolici. Non si tratta più ormai di « cattolici liberali », dal momento che il liberalismo cattolico è stato condannato già dal 1832 con l'enciclica Mirari Vos e il liberalismo in quanto tale è stato a sua volta colpito con l'enciclica Quanta cura e col Sillabo, nel 1864. Si tratta, anzi, degli ambienti più rigorosamente ortodossi; e ciò rende estremamente palese il carattere meramente « politico » della battaglia ed il significato strumentale che alla libertà viene attribuito.
Quale sia, poi, l'atteggiamento dei cattolici di fronte al problema della libertà « nella » scuola e di fronte al problema della educazione alla libertà è facile stabilire solo che si consideri l'enciclica Libertas, promulgata da Leone XIII nel 1888.
« Essendo fuori dubbio che la sola verità debba informare le menti perché in essa sola sta il bene, il fine e la perfezione delle intellettuali creature, l'insegnamento non deve perciò dettare altro che il vero. » Il moderno concetto della libertà di insegnamento è accusato di concedere ugual diritto all'errore e alla verità; pertanto esso è il concetto di « una libertà che lo Stato non può concedere senza mancare al suo dovere».
In questa situazione nasce l'Italia Unita del 1861 e, senza cambiamenti importanti relativamente alla scuola, quella del 1870.
Prima di concludere questo paragrafo è opportuno un cenno al problema dell'insegnamento della religione cattolica, problema che si riproporrà più volte e che vale la pena discutere ora. Nella Legge Casati (1859) tale insegnamento era al primo posto. Il Regolamento applicativo (1860) prevede l'esonero in un modo contorto e distorto, utilizzando indifferentemente le due frasi seguenti: fanciulli che non professano il culto cattolico e allievi appartenenti a culto non cattolico. Come osserva Manacorda [11] nell'istruzione secondaria, cioè i vecchi ginnasi e licei e i nuovi istituti tecnici, l'istruzione religiosa non figurava nell'elenco delle materie, come nelle elementari, ma l'art. 193 stabiliva che «sarà data da un Direttore spirituale nominato dal Ministro della pubblica Istruzione per ciascun stabilimento secondo le norme da determinarsi con un regolamento»; e l'art. 222, dichiarandone obbligatoria in generale la «frequentazione dei corsi», consentiva:
Gli alunni però acattolici, o quelli, il cui padre, o chi ne fa legalmente le veci, avrà dichiarato di provvedere privatamente all'istruzione religiosa dei medesimi, saranno dispensati dal frequentare l'insegnamento religioso e dall'in-tervenire agli esercizj che vi si riferiscono. Tale dichiarazione dovrà esser fatta per iscritto e con firma autentica ai Direttori od ai Presidi di questi stabilimenti.
Dal che risulta che l'insegnamento religioso comportava anche atti di culto, e che si obbligava a una dichiarazione formale chi volesse esonerarsene. Di fatto, per la facoltà di esonero si pensava allora (e anche poi, fino ai nostri giorni) soltanto agli ebrei ed ai valdesi.
Nella Legge la religione compariva ancora a proposito delle pene disciplinarie a cui potevano essere sottoposti gli insegnanti [11]:
L'art. 106, tra «le cause che potevano portare alla sospensione o alla rimozione di un membro del Corpo Accademico», citava anche «l'aver coll'insegnamento e cogli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l'ordine religioso e morale» (...); e l'art. 216 estendeva queste norme anche ai professori dei licei e ginnasi, e il 292 a quelli degli istituti tecnici.
Con il ministro Coppino, nel 1867, non si forniscono indicazioni per l'esonero. Il 29 settembre del 1870, a soli nove giorni da Porta Pia (ormai obsoleta e nella sola attesa della rotazione di 180° della statua del bersagliere di bronzo), il ministro Correnti invia una circolare a tutte le scuole affermando che la religione dovrà essere impartita solo a chi ne faccia richiesta. La Legge Coppino del 1877 non farà cenno all'insegnamento della religione nella scuola e pone al primo posto tra le materie obbligatorie, quello occupato nel 1859 dalla religione cattolica, l'insegnamento delle prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino. Ma il non dire è fonte di equivoco, fatto che è alla base degli atteggiamenti di gran parte della classe politica. E da qui sorgeranno molte controversie che vedranno impegnate le varie istituzioni. La cosa fu presa in mano da Leonida Bissolati (1908) che, in Parlamento, presentò una mozione in cui invitava il governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma l'insegnamento religioso. Il Parlamento bocciò la mozione con soli 60 voti a favore su 407 parlamentari. Dopo gli scioperi del 1904 vi è una convergenza tra laici e clericali che prepara il Patto Gentiloni (l'enciclica Il fermo proposito di Pio X del 1905 rappresentava un superamento del non expedit di Pio IX del 1874, che impediva ai cattolici la partecipazione alla vita politica italiana, e le gerarchie si accordarono con Giolitti perché i cattolici votassero quei candidati liberali che non avrebbero sostenuto leggi antireligiose, al fine, per Giolitti, di sostenere i liberali al potere contro l'avanzata delle sinistre) ed i Patti lateranensi del 1929.
Per parte sua la Chiesa continuerà a sostenere le sue ragioni che, naturalmente, sono quelle vere. Si susseguiranno in tal senso, dopo il Sillabo (1864) e l'enciclica Aeterni Patris (1868) di Pio IX, le encicliche Libertas (1883), Immortale Dei (1885) di Leone XIII e la Pascendi (1907) di Pio X. In tali scritti si sostiene che la scuola è libera di insegnare la verità e ciò che è buono e che il giudizio su ciò che è vero e ciò che è buono spetta solo alla Chiesa. I liberali vengono utilizzati come ha sempre fatto la Chiesa che si muove su un doppio binario: dove è al potere tenta di trasformare lo Stato in confessionale, mentre dove si trova in minoranza reclama il diritto alla tolleranza, alla libertà educativa, alla libertà di culto.
In particolare c'è il Sillabo che faceva esplicito riferimento alla scuola, lanciando [11]
il suo anatema contro tre affermazioni: che «tutto il regime delle pubbliche scuole può e deve essere affidato alla civile autorità», cioè allo Stato; che «l'ottimo andamento della società civile richiede che le scuole siano sottratte all'influenza moderatrice o all'ingerimento della Chiesa»; e che «ai cattolici può essere accetto quel sistema di educare la gioventù, il quale sia separato dalla fede cattolica e dalla potestà della Chiesa». Come spesso avveniva, ad esempio con certi rapporti polizieschi sui moti liberali o socialisti, il Sillabo enunciava così, al negativo ma con perfetta chiarezza, e solo per lanciare contro di essi il suo medievale anatema, i principi liberali della civiltà moderna. E questi tre punti - limitazione della scuola statale, presenza della Chiesa nella scuola statale, scuola confessionale per i cattolici - sono esattamente quello che i nuovi clericali rivendicano ancora oggi.
Oltre a ciò vi erano queste tolleranti prese di posizione papali [11]:
ecco Pio VII definire lupi rapaci i maestri laici, e i aggiungere: «Spingeteli fuori e sterminateli immantinente»; ecco Pio IX dichiarare che i libri erano «da distruggere completamente, bruciandoli»; e denunciare i «mostruosi e fraudolenti errori delle astutissime società bibliche», e «l'orribile infezione delle dottrine pestilenziali e la sfrenata libertà di pensare, di parlare, di scrivere», e «i perversi insegnamenti che corrompono in modo compassionevole la gioventù e le somministrano fiele di drago nel calice di Babilonia». Altro, dunque, che libertà d'insegnamento! E finalmente Leone XIII, con l'enciclica Libertas del 1888, tagliò corto, rifacendosi ad altre dichiarazioni dei suoi predecessori: «La libertà d'insegnamento è al tutto contraria alla ragione e nata per pervertire totalmente le intelligenze». Questa era dunque, nonostante tutte le confusioni verbali, la posizione cattolica, ripetuta del resto a ogni pié sospinto sulla stampa clericale colta e popolare. E, a scanso di equivoci, Leone XIII aggiungeva: «Non esser lecito concedere illimitata libertà di pensiero, di stampa, di insegnamento e di culto»; e conseguentemente chiedeva che queste libertà fossero «legalmente represse». Un bel programma poliziesco, da parte di un papa esaltato oggi come un innovatore quasi liberale e democratico. Il quale, per togliere ogni dubbio, dichiarava infine che la Chiesa «attendeva tempi migliori per valersi della libertà sua». E questi tempi migliori verranno,
basta aver pazienza, con Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Ruini e consoci.
Infine la Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, segnerà tutto il periodo prefascista con commenti come il seguente [2]:
Chi ha detto che il pane dell'anima sia l'alfabeto ? Il pane dell'anima è la verità; e l'alfabeto può servire per la verità e per la bugia (1872).
Da prendere in considerazione vi è anche la funzione dei libri di lettura (il libro di testo verrà più tardi, per ora è del solo maestro) che viaggiano in modo del tutto separato da quanto si programma. A lato di benemerite edizioni di libri di divulgazione scientifica (Hoepli, Treves e Sonzogno) che comunque sono per veramente poche persone, in epoca di Positivismo, vi è un'ottuso attacco a tutto ciò che è razionale, domina l'antipositivismo ed il clericalismo. In tali libri, soprattutto a livello elementare, non è mai venuta meno l'esaltazione patriottarda, quella del Dio - Patria - Famiglia. La storia viene vista come un portato di Dio, si esalta acriticamente il Risorgimento e la nostra discendenza dall'Impero Romano, dominano i buoni sentimenti tra i quali una retorica della Patria che non si confronta mai con le esigenze del cittadino. La Provvidenza è poi onnipresente e guida il mondo. La Chiesa, esclusa dalla scuola, ricompare attraverso i libri martellando con campagne reazionarie ed oscurantiste. Una di queste riguarderà ad esempio l'evoluzionismo (ma stiamo o no parlando di oltre 100 anni fa ?). Ma anche la fabbrica, l'industria, è qualcosa di negativo, un portato della scienza e come tale da rifiutare. Si esalta il lavoro sottomesso, l'aiutati che Dio t'aiuta, la felicità di lavorare, la disciplina, il rifiuto dell'ozio, il timore di Dio, il peccato, il sapersi organizzare da solo in modo si possa anche fare a meno della scuola. Il giudizio su questa criminale opera di indottrinamento è tutto al lettore.
Questi atteggiamenti erano anche delle numerosissime riviste cattoliche che insistevano invece su astratti buoni sentimenti [11]:
la rivista cattolica La donna e la famiglia, nel recensire un libro di un sacerdote per , le scuole, commentava: «Per poter bene educare, bisogna che Dio intervenga. Oh! l'istruzione sì, io la voglio e divulgata dovunque; ma l'istruzione non è educazione; l'istruzione sola getta sul popolo raggi sinistri per lui e per gli altri». Mirabile osservazione, dove è da osservare che il riferimento è però solo al popolo. E ancora, altrove: «L'istruzione da sola scalza la fede religiosa e fomenta l'odio verso i padroni, perché insegna a confrontare con rancore il loro vivere comodo e lieto col proprio di stenti e privazioni». La scuola dell'alfabeto, per il fanciullo (e la fanciulla) del popolo fanciullo, era in gran parte semplice scuola di catechismo e di conformismo; senza contare che per la quasi totalità degli alunni era un'assurdità distante dalle loro iniziali esperienze di vita e dalle loro aspettative, un'acculturazione forzata.
E La donna e la famiglia continuava, estendendo le sue riflessioni dalla scuola all'intera vita sociale: «Forse non mai, più distintamente di adesso, si appresentó la battaglia tra il Bene e il Male. Da una parte Dio, la Famiglia, la Patria; dall'altra l'ateismo, il comunismo, l'Internazionale; da una parte il cattolicismo, la figliolanza divina, la civiltà; dall'altra il libero pensiero, la discendenza dalle scimmie, il petrolio che incendia biblioteche, musei e cattedrali». Qui la semplificazione delle contrapposizioni era assoluta: ma per quanto tempo ancora sentiremo, e anche da più alte cattedre, simili prediche, in un linguaggio identico a questo della vulgata popolare!
Sempre nel 1878, un'altra enciclica di Leone XIII (Quod apostolici muneris) affermerà i principi fondamentale della convivenza dal punto di vista della Chiesa, soprattutto in relazione ai barbari Socialisti, Comunisti, Nichilisti che cospirano nel mondo [6]:
« disuguaglianza tra gli uomini», « diritto di proprietà e di dominio », obbedienza alla Chiesa e allo Stato dei padroni. Cellula e modello della vita sociale è la famiglia fondata «sopra l'unione indissolubile dell'uomo e della donna», sulla subordinazione delle «spose » ai « mariti », dei figli ai padri, «imperocché, stando ai cattolici insegnamenti, nei genitori e nei padroni si trasfonde l'autorità del Padre e del Padrone Celeste, la quale perciò come in essi prende da Lui l'origine e la forza, così necessariamente ne partecipa anche la natura, e da quella nell'esercizio s'informa».
Consapevole di possedere « tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane», la Chiesa offre il suo sostegno allo Stato moderno e all'ordine capitalistico-borghese chiedendo in cambio l'indispensabile «condizione di libertà».
La Chiesa chiede quindi ufficialmente delle contropartite ai liberali di destra ed a Giolitti, ed esse, in cambio del sostegno della Chiesa con il gregge dei cattolici pronto ad uscire dai recinti, vengono date. Inizia il cammino che, per mere ragioni di potere della Chiesa, degli agrari e degli industriali più arretrati, porterà ad alleanze che prepareranno dei disastri clamorosi.
Mario Alighiero Manacorda commenta in modo condivisibile [11]:
E davvero l'Italia moderna e laica ha reso un grande servizio alla fede cattolica, quando con la presa di Roma del 1870 l'ha liberata dalla sua identificazione con lo Stato pontificio, in presenza delle cui vergogne nessun papa potrebbe oggi dare lezioni di morale e di democrazia a noi e al mondo.
sia in formato elettronico che su carta, a condizione che non si cambi nulla, che si specifichi la fonte - il sito web Kelebek http://www.kelebekler.com - e che si pubblichi anche questa precisazione Per gli articoli ripresi da altre fonti, si consultino i rispettivi siti o autori |
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