di Oscar Nuccio
E così pure il lettore che non conosca tutta l'opera teologica di Calvino, e si affida alla vulgata di Max Weber, sopravvaluta il ruolo della "predestinazione" nel sistema teologico del Riformatore e pertanto fa svolgere (il che fa pure Ernest Tröltsch) alla dottrina della predestinazione un ruolo determinante nella influenza avuta dal calvinismo sullo sviluppo del capitalismo. Con il solito sistema di attribuire ad epoche precedenti idee e dottrine di età posteriori, il sociologo ha finito per assegnare, sic et simpliciter, al pensiero di Calvino quello che era stato il prodotto religioso del puritanesimo del Seicento, vale a dire la Confessione di Westminster (1647), strumento di terrore che formula con spaventosa ferocia il dogma della predestinazione. Tale "trasfigurazione dei terrori dell'anima solitaria in disciplina consapevolmente accettata nella dura società capitalistica è stata al centro della tesi di Weber e ne costituisce la parte più nota, più affascinante e più debole". Non soltanto la dialettica di questo processo mentale "resta artificioso, niente affatto stringente, facile a rovesciarsi in tutti i sensi, e valida unicamente in un contesto sociale e morale assai particolare". Non è possibile, puntualizza H. Lüthy, fare di questo dogma la pietra angolare dell'insegnamento di Calvino, la qual cosa invece fanno molti commentatori i quali sembrano avere conosciuto il calvinismo soltanto attraverso l'interpretazione weberiana. Nella teologica opera monumentale del Riformatore tale dottrina appare tardi ed ha una parte secondaria; è stata formulata con precauzione, "quasi incidentalmente, in un contesto preciso che è il solo a chiarirne il significato". A sua volta ammonisce l'insospettabile Biéler che non si "ha il diritto sulla base del principio della predestinazione di assimilare il calvinismo di Calvino al puritanesimo posteriore", il che fanno sociologi e storici, non pochi, che parlano di protestantesimo e di capitalismo senza avere letto di prima mano gli scritti di Calvino.
E non si ha neppure il diritto di attribuire al pensiero di Calvino ed al calvinismo posteriore caratteristiche dottrinali consolidatesi nella cultura formatasi anteriormente al Cinquecento. Calvino non ha visto nulla che gli altri prima di lui non avessero già visto. Quando si fosse a conoscenza, per studio diretto e di prima mano (il che non sono molti a fare), dei testi dei teologi, dei canonisti, dei frati predicatori, e si passasse ad analizzare le pagine "socio-economiche" del Ginevrino si accerterebbe agevolmente che sulle questioni concernenti il rapporto del cristiano con il mondo materiale le differenze di giudizi e di prescrizioni sono minime, per non dire nulle. Come nella dottrina teologico-giuridica ("petrinologica") le norme di condotta che si indirizzano al cristiano fanno tutte perno sui fondamentali principi della autosufficienza e del necessario, anche nel sistema di Calvino questi costituiscono i cardini delle regole "socio-economiche". Delegittimato, al pari di quello che avevano fatto teologi e canonisti, il superfluo (da intendere teologicamente), viene necessariamente condannata la ricchezza che allontana l'uomo da Dio. Ritorna dunque nelle pagine di Calvino la demonizzazione della "avarizia", anche questa da intendere teologicamente come desiderio di avere più del necessario. L'avaro dei teologi, e di Calvino, non è Paperon dei Paperoni, ma colui che travalica il confine tra necessario e superfluo. Aveva sentenziato il teologo del '200 Pietro Lombardo: "quia plus tendit malum invenit". Stessa sentenza ripete Calvino, con buona pace dei suoi sociologici apologeti. Questi dice, non dissimilmente da Tommaso d'Aquino e da Bernardino da Siena, che soltanto l'azione potente dello Spirito Santo conducente alla liberazione offerta da Gesù Cristo, può affrancare il cristiano dalla tirannia della moneta. L'influenza esercitata dalla ricchezza sull'uomo ha l'effetto di alienarlo da Dio e conduce l'umanità alla distruzione. Questi segni negativi - dice Calvino in linea con quanto predicato dai pulpiti per secoli - si vedono specialmente nelle città in cui il commercio apporta grandi fortune e vi fa crescere l'orgoglio il quale procede direttamente dalla idolatria del denaro. Poiché il peccato di Adamo ha distrutto l'ordine primitivo della comunione dei beni (lo aveva detto già Bonaventura da Bagnoregio), la legge di Cristo ha provveduto a stabilire nuove regole in virtù delle quali le ricchezze vengono a perdere il loro potere oppressore e nel rispetto di quelle i cristiani stabiliscono un regime di generosa comunanza delle cose materiali delle quali solo ed unico dominus è Dio. Quali siano i limiti ed i condizionamenti del diritto di proprietà che derivano da questo principio teologico, del tutto simile nella dottrina cattolica, si comprendono facilmente. Si può ricostruire il "pensiero economico" di Calvino in capitoli sulla "azione sociale" della Chiesa, sulle "condizioni sociali dei lavoratori", sul "calvinismo e l'attività finanziaria", sulla "distribuzione della ricchezza", sui "mercanti ed il commercio", e così via, la qual cosa ha fatto il citato Biéler enfatizzando l'importanza della precettistica "economica" del Riformatore, e questo è ancora un male minore, ma non si deve parlare di originalità della precettistica di Calvino. Questa - contrariamente a quanto sostenuto dallo storico francese - non è affatto originale. Lo è se il confronto viene fatto tra il corpus dottrinale del medioevo teologico-scolastico e l'insieme delle proposizioni calviniane, presentando queste, infatti, talune novità che appartengono non già a Calvino ma all'epoca (metà del Cinquecento) in cui egli scrisse. Non è originale il Riformatore se il confronto viene fatto - come ho spiegato nella Civiltà italiana nella formazione della scienza economica - tra l'insieme di tali proposizioni calviniane ed il sistema "economico" prodotto dall'umanesimo civile italiano. Questo è il punto da tutti, dico tutti, ignorato. Che Calvino fece uso di soluzioni "laiche" quando affrontò, direttamente o indirettamente, questioni socio-economiche si deve prendere in considerazione ai fini dell'analisi corretta del suo pensiero; ma per fare questo si deve avere completa conoscenza delle teorie elaborate dai giuristi laici e dagli umanisti civili, conoscenza che non hanno gli storici del pensiero economico e meno che meno i sociologi. Prendiamo in esame l'affermazione di Bièler che scrive: "la posizione di Calvino verso il prestito con interesse deve essere considerato un atto senz'altro decisivo [sic!!!] nella storia economica dell'Occidente, un "turning point" [sic!!!] della sua evoluzione". Da qui a fare del Riformatore uno dei padri del capitalismo moderno il passo è stato breve, ma anche falso.
Alla parte successiva
Home | Il curatore del sito | Oriente, occidente, scontro di civiltà | Le "sette" e i think tank della destra in Italia | La cacciata dei Rom o "zingari" dal Kosovo | Il Prodotto Oriana Fallaci | Antologia sui neoconservatori | Testi di Costanzo Preve | Motore di ricerca |