Etica ed economia
Una critica radicale a Michael Novak e ai teocon

settima parte
 

di Oscar Nuccio



Alla nota introduttiva




Prendiamo la questione della valorizzazione della vita attiva ad opera del protestantesimo: innumeri sono le fandonie raccontate dagli storici, raccolte e propagandate dai giornalisti

Racconta il noto Tawney, autore de La religione e la genesi del capitalismo, di un prete che sceglie come materia del sermone domenicale le parole dei Proverbi: "Non datemi né ricchezza né povertà , ma quel che basti al mio sostentamento". Avendo in mente lo stereotipo del medio evo di Sombart e di Toniolo, egli non può non commentare: "[in breve] era lo sfondo del pensiero economico ereditato dal sedicesimo secolo [da quello nord-europeo, forse, non certamente da quello italiano] e che portò agli stupefacenti mutamenti che "fecero di quell'età uno spartiacque in fatto di sviluppo economico" [ciò avvenne al di là delle Alpi; non nella Penisola italiana dove gli "stupefacenti mutamenti" erano accaduti da un pezzo].

Cambiamenti che avrebbero incoraggiato, secondo quanto scrive l'americano Robert Heilbroner, il "perseguimento della ricchezza e di un sistema di vita dedito agli affari". La fonte dello storico statunitense è sempre Tawney il quale aveva sostenuto che dal "reiterato insistere sugli obblighi secolari come imposti dal dovere religioso deriva che non il ritiro dal mondo, ma la coscienziosa esecuzione dei doveri è tra le più alte virtù religiose e morali". La sua asserzione trova sostegno nella seguente dichiarazione di un autore del XVII secolo (R. Steele) secondo cui i "frati mendicanti e quei monaci che vivono soltanto per sé e per la loro devozione formale, non fanno una sola cosa per guadagnarsi da vivere o per il bene della umanità […] eppure hanno il coraggio di vantarsi che la loro vita è uno stato di perfezione; mentre sono inferiori al più povero ciabattino, perché egli ha una vocazione che viene da Dio, ed essi non l'hanno". Commenta Tawney: "l'idea non era nuova. Lutero l'aveva messa innanzi, come arma contro il monachesimo".

L'idea non era nuova, d'accordo, ma non bisogna partire da Lutero per vederla usata contro i frati mendicanti. Prima, molto prima., di essa si erano serviti gli umanisti civili italiani del '300 e del '400 per valorizzare la vita attiva. Quale delle due forme di vita è da preferire tra l'attiva e la contemplativa? se lo era chiesto nel '200 Albertano da Brescia. Dilemma risolto poco dopo da Guittone d'Arezzo a favore della vita activa.

La vocazione dell'uomo è terrena, scrisse Franco Sacchetti e ribadì Coluccio Salutati la cui difesa della vita activa o negociosa è un grande contributo alla codificazione dei valori umanistici. Con acutezza di pensiero superiore a quella dello Steele citato ed elogiato da Tawney, l'umanista toscano si domanda se si possa veramente pensare che al Signore sia stato più caro Paolo (solitario ed inattivo) del laborioso Abramo.

Che anche la terrena esistenza operosa sia una "vocazione" (l'enfatizzato ed abusato "beruf" protestantico) fu concetto saldo del pensiero di Salutati il quale in molteplici occasioni ebbe a sostenere che "consacrarsi [si colga il significato "religioso" del verbo il cui sinonimo è "votarsi"] onestamente ad oneste attività può essere cosa più santa che non vivere in ozio nella solitudine. Poiché la santità raggiunta con una vita rustica giova soltanto a se stessa, come dice san Girolamo. Ma la santità della vita operosa innalza l'esistenza di molti".

Glossando la pagina del "suo" Steele, Heilbroner scrive che il lavoro idealizzato dallo scrittore protestante del Seicento è una "specie di disciplina ascetica, più rigorosa di quella imposta da qualsiasi ordine mendicante", che "non deve essere esercitata in solitudine", bensì "eseguendo puntualmente i doveri sociali". Forse che medesimo concetto non era stato formulato duecento anni prima da Coluccio Salutati?

Oso dire che il pensiero del Cancelliere fiorentino valorizza l'uomo laborioso più di quanto facciano Calvino ed i calvinisti di Weber, Tawney, Heilbroner & C., per la ragione che mentre per l'umanista la scelta della vita activa è la conseguenza dell'autonomia dell'individuo, della sua libertà cosciente, per i riformatori è indicazione esterna, eteronoma, per quanto la si voglia giudicare elevata e nobile.

Da Albertano da Brescia a Coluccio Salutati a Leonardo Bruni a Leon Battista Alberti a Lorenzo Valla, lungo il corso di due secoli ed oltre, il valore della vita activa fu espresso con termini esaltanti la virtù umana del facere.

Chi abbia letto le bellissime pagine di Giannozzo Manetti sa che non bisogna aspettare il filosofo britannico John Locke, al quale sir Eric Roll sciovinisticamente attribuisce il merito della vittoria sul medio evo, per sapere che la creazione "lasciata a se stessa è incompleta".

Rivelando ignoranza di secoli di pensiero umanistico, il rinomato e gettonato Michael Novak - giustamente contrastato da don Innocenti - ripete banalità circolanti in decine e decine di libri di storia e dice che con Locke nasce un "senso nuovo [sic!!] e corroborante della vocazione umana". E pertanto, dopo il filosofo del '600, la "riflessione sull'agire di Dio nel mondo […] fu diversa [sic!!]", la "vocazione degli esseri umani veniva ad essere nobilitata".

Del vasto repertorio di castronerie del sociologo americano mi limito a riportare questa di stampo "weberista" che forse è la più vistosa: "Sbattendo dietro di sé le porte del monastero - per esprimerci con Weber - la Riforma ha sprigionato [sic!!] l'energia di alcune virtù umane […]. Progresso e crescita economica - non solo personale ma anche per il mondo intero - venivano visti come volontà di Dio".

Novak, Sombart, Tawney, Weber, Heilbroner (ed i loro pigri ripetitori) hanno dovuto pescare tra gli scrittori nord-europei del '600 e del '700 per poter proporci interpreti dei valori della vita attiva e della importanza del "tempo". Se Sombart e Weber ci mettono innanzi l'americano Benjamin Franklin che coniò la locuzione "il tempo è denaro", Tawney ci propone Matthew Henry il quale disse che i "prodighi del loro tempo disprezzano le loro anime".

La "ciliegina sulla torta" dello sciocchezzaio (termine azzeccato coniato da …Flaubert) storiografico è messa da Novak che, più weberista di Weber, scrive che in "epoche e culture precedenti, sia i santi cristiani che i saggi umanisti dello storicismo [quali?] avevano dato consigli contro l'eccessivo impegno mondano, contro l'ambizione e contro il benessere. Ora [siamo nella seconda metà del '700] Franklin trasforma ciò che prima veniva considerato malvagio nientemeno che in virtù". Avrebbe detto il compianto marchese de Curtis (in arte Totò): "ma mi faccia il piacere!!".

A Franklin possiamo pure riconoscere il merito di avere coniato il detto "il tempo è denaro", ma il concetto in esso espresso è anteriore di cinque secoli all'età del beniamino di Sombart, Weber, Tawney, Novak & C. Lo troviano nei trattati di Albertano da Brescia, prima metà del '200, nei Ricordi del mercante-scrittore Paolo da Certaldo, nelle splendide pagine di Leon Battista Alberti il quale insegnò che sa fare ogni cosa colui che "non sa perder tempo […] e chi sa adoperar il tempo, costui sarà signore di qualunque cosa ei voglia".

Il concetto è completato dall'ammaestramento morale di due uomini d'affari del '400 quali sono Francesco di Marco Datini da Prato e Benedetto Cotrugli (dalmata di Ragusa) autore della splendida opera intitolata Mercatura; il primo insegnò: "colui avanza l'altro, che meglio sa spendere il tempo suo". Cotrugli mise l'accento sui danni economici derivanti al mercante che non amministra razionalmente il tempo: "perdere il tempo è tanto quanto perdere il denaro".


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