di Walter Catalano
Flavia si ritrovò a correre all'impazzata insieme a Nabil nell'uragano di polvere sollevata dal volo silenzioso della formazione e dall'onda d'urto delle esplosioni. Istintivamente si erano presi per mano come in un ultimo gesto di fragile umanità: il soldatino di piombo e la ballerina fra le fiamme della fiaba di Andersen. Avevano perso le donne e i bambini dietro di loro, avevano perso Abdul che cercava invano di colpire un drone col suo panzerfaust, avevano perso il senso e il significato delle loro stesse esistenze: resistere significava solo prolungare un'agonia. Correvano per inerzia, sospinti dal vento e da un cieco istinto di sopravvivenza, incuranti di concetti come tempo, direzione o distanza. Un reticolo di filo spinato arrestò la loro corsa. Stranamente non erano stanchi, non avvertivano la sete o il caldo, i battiti del cuore recuperavano la frequenza ordinaria ed il respiro ansimante lentamente si acquietava. Avevano raggiunto il perimetro esterno del primo ordine di recinzione del campo. A poche centinaia di metri di distanza vedevano le torrette d'avvistamento montate su colonne metalliche; le baracche rettangolari più simili, da vicino, a bunker di cemento e l'ampio spazio di raccolta prospiciente ad una piccola caserma in mattoni rossi sul tetto della quale garriva la bandiera azzurra con la stella di David. Tutto appariva deserto e abbandonato, pietrificato in un'animazione sospesa, nell'eco di un'attività interrotta. Dov'erano i prigionieri ? Nabil era sicuro di averne visti molti nei giorni precedenti, aggirarsi in lunghe file sull'area di raccolta. Dov'erano i guardiani ? Stavano aspettando un convoglio di nuovi arrivati e avrebbero dovuto essere in pieni preparativi per l'accoglienza. Gravava invece un'immobilità e un silenzio innaturale. Perché poi le torri di guardia non li avevano avvistati ? Perché nessuna pattuglia era venuta loro incontro per fermarli ? Perché i droni non li avevano inseguiti ? Le domande si affollavano nella mente di Flavia e di Nabil, ma nessuno dei due parlava: anche i loro visi muti erano parte di quel grande silenzio, dell' inutile attesa di una risposta negata. Lo scatto di un percussore alle loro spalle non era una risposta. Fra lo scatto e la raffica fu come se il tempo si fosse dilatato. Non si voltarono aspettando l'impatto e sembrò che l'eternità avesse spalancato in anticipo i suoi portali. Flavia poteva osservare la scena dall'esterno, con obbiettività, senza fretta e senza rabbia. Fluttuava nel tempo e nello spazio: era una scheggia di vetro nella Notte dei Cristalli, era un fiocco di brina a Varsavia. Considerava, seguendo una trama tortuosa, come la stella delle vittime fosse gialla: la stella azzura, nel ghetto e altrove, la portavano invece le squadre dei collaborazionisti e dei kapò che avevano salvato la pelle. In qualche oscuro modo ebbe coscienza che tutte le vittime sono uguali e tutti i carnefici sono uguali e sentì una certa gioia e quasi l'orgoglio di essere vittima e non carnefice. Ora distingueva le ciminiere in lontananza; la soldataglia che oziava inerte sull'ampio portale; l'eco dei canti patriottici e delle risate, dei colpi di bastone; il cupo viavai presso i grandi camini che svettavano vertiginosi vomitando pinnacoli di un fumo denso e greve. Gli arcangeli di Nobadaddy volteggiavano in ampie spire su di loro, come avvoltoi nel cielo azzurro: lettere indecifrabili di un alfabeto ostile ordito per celare innominabili segreti.
Alla prima parte
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