di Gaspare De Caro Ringraziamo lo storico Gaspare De Caro per averci permesso di riprendere qui il suo articolo, comparso per la prima volta su Hortus Musicus, anno IV, n. 15, luglio-settembre 2003 www.hortusmusicus.com.
11 aprile 2003, Nassiriya, Iraq
centrale. è l’alba. Al check-point i
liberatori garantiscono l’ordine di ciò che resta. Dopo ricostruiranno. Si
avvicina un minibus: undici persone a
bordo, anche due bambini sul sedile anteriore, a dimostrare intenzioni
pacifiche. Il conducente non capisce che deve fermarsi, forse è terrorizzato
dalle armi dei marines. «Ad alta velocità», dirà poi l’ufficiale che comanda il
posto di blocco, il minibus «si è infilato nel tratto a zig zag delimitato da
ostacoli». Non abbastanza velocemente, però, da evitare la punizione immediata.
Le raffiche dei marines uccidono i bambini e feriscono equanimi tutti gli
adulti. Le perquisizioni non trovano armi. I soldati ammettono il «deplorevole
errore» e prestano ai feriti «le migliori cure disponibili sul posto». Sono
umani, dopo tutto.
Episodi così ce ne sono stati
molti in Iraq, in quei giorni: a Hillah quindici morti; a Najaf sette morti,
tra i quali cinque bambini; a Samawa un morto e tre feriti; a Bagdad due uomini
e un ragazzo uccisi. Ogni volta le autorità militari hanno dato esaurienti
spiegazioni tecniche, hanno ammesso
l’errore, hanno espresso condoglianze alle famiglie, se residue. Non c’è motivo
di dubitare delle loro buone disposizioni, ma è dubbio che colgano davvero la
logica degli eventi, la stringente necessità dell’impulso ad uccidere. La
migliore filosofia politica americana, l’accreditata tesi liberale, che già
illuminò l’era Clinton, dell’esistenza di «popoli decenti» (decent peoples) e di popoli che non lo
sono – da ridurre pertanto all’unica ragionevole way of life –, potrebbero
spiegare una tale inclinazione alla correzione radicale; ma i marines non sono
sospettabili di leggere Rawls.
Un apologo di Brecht può aiutare
meglio a capire.
Il mercante Langmann attraversa
il deserto di Jahí con un portatore carico di bagagli. Ha fretta, insulta e
bastona il portatore perché non indugi. Durante una sosta il portatore gli si
avvicina per offrirgli dell’acqua. Il mercante crede che la borraccia sia una
pietra e che il portatore voglia colpirlo. Estrae la pistola e lo uccide. In
tribunale si giustifica: «Ma io come potevo supporre che fosse una borraccia?
Non c’era ragione perché quell’uomo mi offrisse da bere. Non gli ero amico». E
il giudice, saggiamente: «In altre parole, voi avete avuto ragione di supporre
che il portatore nutrisse rancore contro di voi. Avreste, cioè, ucciso un uomo
che nella fattispecie era innocuo, ma del quale voi non potevate sapere che era
innocuo. Qualche volta capita lo stesso alla polizia. Sparano sulla massa dei
dimostranti, su uomini pacifici, soltanto perché non riescono a capire come mai
questi uomini non li abbiano sbalzati di sella e linciati. Questi poliziotti
sparano perché hanno paura, ecco tutto. E che abbiano paura è prova di buon
senso. Voi non potevate sapere che quel portatore rappresentava l’eccezione!
Non è così?». Di qui la sentenza: «Il mercante e il portatore appartenevano a
classi diverse, e il mercante doveva aspettarsi da lui il peggio. Non poteva
credere a un atto di amicizia da parte del portatore, dato che (come ha
confessato lui stesso) lo aveva maltrattato. La ragione lo avvertiva che stava
correndo un grave pericolo.
L’accusato quindi ha agito in stato di legittima difesa, e poco importa che
fosse realmente minacciato o che solo supponesse di esserlo: date le
circostanze doveva necessariamente sentirsi in pericolo. L’accusato pertanto è
assolto».
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