Miguel Martínez Questo articolo è uscito per la prima volta sul numero 17 - dicembre 2003 - della rivista Rosso XXI (via Del Papa 98, 50053 Empoli, FI, e-mail rossoventunesimo@tin.it). La rivista è anche consultabile online.
Novembre 2003, i funerali dei militari morti a
Nassiriya. La regia mediatica ricorda un quadro dei tempi
della Controriforma. Un quadro insieme tenebroso e sentimentale, come quelli
che ornano le nostre basiliche; anzi, il quadro stesso è una basilica,
quella di San Paolo a Roma. La regia mira alla purezza metafisica – colori
netti, una musica solenne che escluda i colpi di tosse, le battute dei
portaborse, il ciacchettare delle scarpe lucidate e tutte le miserie di ogni
folla umana. Gli operatori, con l’accanimento e la passione dei
grandi artisti, scavano alla ricerca, insieme, dei morti, dei vivi e
dell’immortale. I morti mascherati da legno e da bandiere. Martiri,
eroi, santi. Categorie definite dall’alto dei microfoni e dei mixer dei
registi dello spettacolo, esse nascondono la miseria del delitto primario di
chi li ha voluti, vivi, a garantire la rapina di un paese; e a far svanire tra
le nuvole della retorica la realtà di corpi sfruttati, vampirescamente, anche
da morti. I vivi sono nettamente divisi in
due schiere. In primo piano, la plebe, i sofferenti, donne, bambini e anziani.
Il loro destino è il dolore, intervallato da avidi pasti e veloci divertimenti,
che devono però scomparire nell’ora in cui incarnano l’angoscia e la
sottomissione. è l’ora delle vedove, cui i nuovi granduchi e signori hanno
rubato il marito; ma adesso, nell’ora dello spettacolo, i potenti cedono loro
generosamente i posti in prima fila. Dove si potranno inquadrare meglio le
lacrime ai loro occhi o le loro mani che si contorcono dal dolore.
L’altra schiera è quella dello
sfarzo. I detentori del potere e coloro a cui essi ne delegano qualcosa.
Mafiosi, principi Borgia, capitani di ventura, ruffiani e truffatori, con la
loro schiera di servitori, mascherati ciascuno, secondo rango e funzione,
nell’impassibilità delle loro cravatte, delle loro stole, dei loro pennacchi;
con il loro rigore, con la loro austera immedesimazione nel ruolo, vegliano e
concedono la loro protezione agli irrimediabilmente impotenti.
In alto, tra le volte, gli immortali: i santi, gli
angeli. E il crocifisso sopra tutto e tutti. Come un’immane bestemmia che
prende il nome di Dio invano. Poi, dalla schiera di ben cinque
cardinali, si alza la voce del cardinale Ruini, delicatamente modellata in
diciassette secoli di freddi corridoi, di inchini che fanno bisbigliare la
seta, di misogini sorrisi e labirintici intrighi, sguardi sospettosi e acidi
complimenti. Dopo gli gnostici, i donatisti, i marcioniani, i catari, i
valdesi, i luterani, i modernisti, la maledizione cade sui terroristi. Che
la Madre Chiesa vota al braccio secolare, con preghiera – come ai tempi
dell’Inquisizione – di mostrare loro misericordia. “Li fronteggeremo con
tutto il coraggio, l'energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li
odieremo”. Energia di F-16, energia di fucilazioni sommarie, energia di case
abbattute in cinque minuti, energia di dieci anni di embargo. Ma senza odio.
Ciò che suscita più ammirazione è la regia
invisibile. Opera dei geniali artisti di corte dei nostri tempi, in grado di
produrre uno spettacolo meraviglioso e significativo, di combinare riflettori e
divise e musiche con la stessa abilità con cui, un tempo, i pittori sceglievano
i loro colori. Con la stessa inerranza dei vescovi seicenteschi della più
remota provincia italica, in grado di generare processioni e scene
splendidamente funzionali. Non siamo solo di fronte al potere. Nessuna
direttiva dell’ufficio di Mediaset sarebbe in grado, da sola, a creare in poche
ore una così perfetta sintesi tra le voci dei commentatori, lo scintillio del
sole autunnale sul lucente metallo delle corazze dei soldati a cavallo, una
colonna sonora insieme oscura e incorporea, i volti delle donne eternamente
dolenti, la giusta illuminazione della cattedrale. Le istruzioni non spiegano nemmeno il secondo
momento, quando lo spettacolo del rituale diventa lo sfondo dello spettacolo
del commento, come i quadri e gli affreschi che facevano da sfondo alle
prediche domenicali: nelle innumerevoli talk-show, tutti i commentatori
e quasi tutti gli intervenuti, senza essersi consultati prima, sanno
esattamente quali luoghi comuni sciorinare, quali argomenti non toccare, quali
deviazioni scomunicare. No, non basta il semplice potere. Le istruzioni
possono funzionare solamente nel caso delle insensate ma rumorose beghe tra
fazioni. Le istruzioni servono alla farsa di un Rutelli, di un Prodi o
di un Fini, i quali scelgono con astuzia la frecciata da lanciare
all’avversario e concorrente: l’accusa è sempre e solo quella di aver violato
qualche regola di un gioco che tutti gli attori, comunque, sottoscrivono in
principio. No, nello spettacolo compatto dei funerali di
Nassiriya, dove Berlusconi e D’Alema assumono la stessa espressione e si
vestono allo stesso modo, siamo di fronte a qualcos’altro, qualcosa che
trascende i poli e gli ulivi: il dominio. Perché tutti gli attori del
funerale-spettacolo, dai cardinali fino all’ultimo tecnico delle luci, agiscono
sapendo intimamente entro quale quadro devono agire. E sapendo che un altro
quadro non può esistere. Quando il dominio si impone, anche le grandi masse
di persone se ne fanno spontaneamente esecutori. Non parliamo solo dei
politici, il cui fiuto per il dominio deve essere estremamente acuto; e nemmeno
dei registi che sanno che uno spettacolo sbagliato costerà loro la
carriera. No, gli esecutori del dominio si trovano ovunque.
In un paesino dell’hinterland milanese, dove le anziane donne si dividono a
scaglioni per andare in chiesa la domenica, in modo da non farsi ammazzare
tutte dal kamikaze islamico che cercherà inevitabilmente di fare strage
di cristiane durante la Santa Messa. Oppure nel bar, non molto lontano, dove un
gruppo di operai in pensione, bestemmiatori e con una storia di simpatie
comuniste alle spalle, si alza per urlare minacce contro una signora nota come amica
dei palestinesi. E, perché no, nei redattori di Libero¸il Corriere della
Sera, Il Manifesto, Il Riformista e Repubblica che il 22 novembre
hanno dedicato tutti articoli quasi identici ad attaccare chi in Italia osava
sostenere la resistenza irachena. Il dominio non è mai assoluto,
non penetra in tutti i cuori, ma certamente in tutte le teste, o quasi. Come
quando un portale web ti commissiona un articolo, il redattore lo commenta con
entusiasmo e poi sparisce nel nulla: ritelefoni due settimane dopo, e il
redattore ti risponde, “non è un argomento da trattare di questi tempi”. O un
editore alternativo e di sinistra promette di mandare il tuo libro avanti a
tutti gli altri e poi scompare, perché non vuole essere coinvolto con chi, in
altri contesti, chiama partigiani gli iracheni che lottano per la loro libertà.
Il dominio non viene da Dio, ma
dal Principe di questo mondo. L’accanimento nell’affermare il dominio è oggi
perfettamente uguali tra i clericali e gli anticlericali: nulla, se non i
riferimenti occasionali al crocifisso, distingue la violenza e l’infamia di un
cristianista come Socci, di un pagano come Borghezio, di un radicale come
Taradash, di un musulmano perfettamente integrato come Magdi Allam, di
un ebreo come Paolo Mieli.
Con la familiarità dei valletti e
dei portinai, in un paese cinico e miscredente, sappiamo tutto sui cardinali
cui baciamo gli anelli. L’Aretino descriveva così i porporati del suo tempo:
“Uno è falsario, l’altro è
adulatore,
Non è questione della sola
Chiesa; e nemmeno di infierire su difetti umani, universalmente distribuiti.
Quello che è interessante è che molti in Italia sono perfettamente coscienti
della menzogna sottostante a tutto il dominio. è chiaro a milioni che
l’invasione americana dell’Iraq non è moralmente diversa dall’invasione
longobarda dell’Italia; e che la resistenza all’invasione ha lo stesso valore
che poteva avere allora. No, l’intelligenza del dominio consiste nel non dirlo
pubblicamente. E nel denunciare prontamente chiunque altro lo dica, prima di
venire denunciati noi stessi.
Chi accusa i musulmani di ritorno
al Medioevo evidentemente finge di non accorgersi del nostro ritorno a un
passato, in realtà più barocco che realmente medievale. La Controriforma fu
l’epoca dello spettacolo per eccellenza, del teatro dei costumi, delle grandi
piazze, delle immagini, dei roghi, dei funerali, delle incoronazioni, dei
banchetti, che suggellavano i poli dello sfarzo e della miseria.
Proprio per questo, la
Controriforma è il modello ideale per un’epoca come quella introdotta
dall’onnipresenza dei media. Media che offrono uno spettacolo globale – le
stesse reti che di giorno ci regalano la purezza dei funerali, di sera ci
dilettano con i giochi e di notte offrono masturbatorie immagini erotiche. Come
nella città-spettacolo della Roma papalina, dove l’interminabile sfilare di
preti si accompagnava ai rozzi giochi di strada, e le meretrici erano numerose
quanto i seminaristi.
A differenza di quanto speravano
i pensatori laici di qualche decennio fa, la Controriforma è perfettamente a
suo agio nell’era delle transazioni finanziarie in tempo reale. Non solo:
dietro lo spettacolo si trova sempre la fantasia assassina dello “scontro di
civiltà” e della “guerra di religione”, che riesce meglio di ogni altra a dare
conto, almeno in apparenza, di un universo mostruosamente complesso. Ed ecco
che l’era dei laureati di massa è anche l’era della guerra dei crocifissi.
Il dominio è tecnicamente
brillante; per il resto è irrazionale, e spesso sciocco. Dover pensare in un
solo modo induce necessariamente la pigrizia, le cellule del cervello si
riempiono di ragnatele.
Potendolo fare, ci vuole davvero
poco per smontare l’intero castello di menzogne su cui si regge il consenso.
Abbiamo appena vissuto una guerra illegale secondo gli stessi metri del
sedicente occidente, una guerra basata su due menzogne ridicole – la presunta
esistenza di legami tra il governo dell’Iraq e al-Qaida; e il suo presunto
possesso di armi di distruzione di massa. Non basterebbe dirlo, forse, per
smascherare l’enormità del crimine che è stato commesso?
No, non basta. Perché la forza del dominio sta
nella maniera in cui definisce le cose: io stesso ho appena usato due luoghi
comuni del dominio – legami, qualunque cosa significhi; e armi di
distruzione di massa. Il dominio è tale perché definisce le cose. Come
Adamo, signore del creato, perché chiama qualcosa selvaggina e
qualcos’altro proprietà. Le definizioni scendono dall’alto, ma
asserviscono il mondo intero. Apologeti del terrorismo, esportare la
democrazia, manifestazioni ambigue, sodali di Bin Laden, frequentazioni
sospette, sconfiggere la rete del terrore… Alla base del dominio c’è sempre il
sacrificio umano. Qualcuno deve perire, perché il dominio si salvi. Solo la
modalità dell’assassinio cambia, secondo le culture. Il modello italiano è certamente
quello del sacrificio sacerdotale. Ai tempi del sacerdozio biblico, nel giorno
più sacro dell’anno, il Sommo Sacerdote doveva gettare due dadi, su cui
figuravano le parole, per il Nome, cioè Dio; e per 'Azazel, il
demone del deserto. Il capro che la sorte votava a Dio veniva preparato per il
sacrificio, il secondo riceveva un nastro di lana rossa attorno alla testa. Il Gran Sacerdote sacrificava prima il capro
consacrato a Dio. Il sangue veniva spruzzato sulla tenda che nascondeva il
Santo dei santi e subito dopo sull'altare. Ritornava al capro da dedicare a
'Azazel, gli imponeva le mani e lo caricava di tutti i peccati di Israele; poi
lo mandava con un guardiano verso il deserto. Quando giungevano a una certa
roccia, il guardiano, improvvisamente, spingeva giù il capro che si sfracellava
sulle rocce sottostanti. Excalibur, l’infame trasmissione di Antonio Socci, subito dopo i fatti di Nassiriya.
Nour Dachan, presidente dell’Unione delle Comunità e delle Organizzazioni
Islamiche in Italia, viene votato al sacrificio. L’ambientazione: una stupenda
cappella romanica, spoglia. Schiere di suore, preti, carabinieri e militari,
tutti rigorosamente in divisa. Un altare in fondo esalta gli eletti e il loro
rituale. Massimo Introvigne, avvocato torinese che svolge il ruolo di tuttologo
planetario, di sommo esperto di ogni aspetto di ogni comunità umana, militante
del ramo italiano di un gruppo dal significativo nome Tradizione, Famiglia e
Proprietà, esige da Nour Dachan la “condanna del terrorismo”. La formula
dell’abiura che apra qualche remota speranza di perdono. Il capro emette un belato – oltre ai diciannove
soldati volontari di un esercito di occupazione, dice, sono morti anche
centinaia di migliaia di occupati. No, stronca il conduttore-sacerdote, non si può
parlare di ciò che il mondo ha fatto all’Iraq; non si può parlare dell’infinita
violenza che il mondo islamico subisce per mano occidentale da 170 anni. No,
perché questa non è una trasmissione politica, qui stiamo parlando di
Nassiriya. E la definizione assiomatica è che resistere è terrorismo, e chi non
è contro il terrorismo, è terrorista lui stesso. Ma Socci e Introvigne lo dicono con tutta la
delicatezza dell’inquisitore che, mentre altri accendono per lui il rogo, prega
per l’anima dell’eretico. In prima serata, il giorno dei funerali di
Nassiriya. Su Rai Tre, Ballarò trasmette scena dopo scena del rito della
mattina. Su Rai Due, uno sceneggiato – carabinieri con i pennacchi, carabinieri
dai buoni sentimenti, carabinieri arruffoni, con piccole trasgressioni e grandi
obbedienze, carabinieri innamorati. Su Rai Uno, tutto un frusciare di tonache, la
storia infinitamente edulcorata di Giovanni XXIII, viso da bambinone ebete
mentre abbraccia bambini inebetiti. è una storia di stoffa, innanzitutto – divise,
cappelli, tricorni, zuccotti e altri addobbi. Ed è una storia di potere:
è evidente che in tutto ciò giocano un ruolo interessi reali, militari,
ecclesiastici, politici. Ma c’è dell’altro. è un potere dolce, materno, che
assorbe tutti. Il carabiniere raffigurato nello sceneggiato è Salvo D’Acquisto,
il carabiniere buono. Il Papa è il papa buono. Come buoni
sono i carabinieri di Nassiriya, ritratti innumerevoli volte con bambini
sorridenti in braccio. Il potere che permette alla plebe di sussistere, che regala
un sorriso, ma dall’alto, molto in alto, lì dove risiedono coloro che
detengono le chiavi di Pietro – chiavi delle carceri, chiavi dei palazzi,
chiavi del paradiso. Tutto si assorbe, come la dea che divenne Santa
Venera. O come Fabrizio De Andrè, uno dei più straordinari smascheratori del
dominio. L’altra sera abbiamo potuto vedere, sempre in televisione, una fila di
signorine-bella-presenza, dall’occhio vacuo, che cantavano in coro il suo Bocca
di rosa. Oscurando proprio il brano che dice: “Spesso gli sbirri e i carabinieri
Morto, castrato, beatificato. Ma cambio ancora canale. Su Rete 4 vedo un
frammento di un western. Visi barbari e feroci. La stoffa degli abiti è elementare,
senza svolazzi o grifoni o simboli araldici. Uno scambio di battute. Uno dei
barbari, con il viso crudele e astuto, dice “siete in sei, il numero perfetto”.
Un altro risponde: “pensavo che tre fosse il numero perfetto”. “No – risponde
il primo – sei è il numero perfetto perché la mia pistola ha sei colpi in
canna”. Questo è il volto dell’altro dominio,
l’iperdominio perché infinitamente più importante di quello della
Controriforma. Il dominio degli Stati Uniti d’America. Nessuna tonaca, nessun
pennacchio. Il potere non è esterno; risiede piuttosto in ogni membro della
plebe. Assume la forma nuda, immediata, della canna della pistola. Un potere
che si misura, non nel numero di sorrisi e di parole non detto, ma nel numero
matematicamente accertabile di colpi. Il dominio americano abbraccia con una parvenza
democratica, lontanissima dal potere patriarcale, paternalista del vecchio
continente. La sua bontà sta nell’uguaglianza apparente, nell’assenza delle
nostre forme di ipocrisia. Anzi, è il potere degli uomini buoni, della community,
raccontato in quello straordinario film che è Dogville. Nel villaggio
degli uguali, il sacrificio umano non lo compie il sacerdote. Lo compie il
villaggio stesso, attraverso la generazione dello schiavismo, attraverso l’autocompiacimento
della propria bontà che culmina nella festa del linciaggio e dello sterminio.
La guerra infinita del bene contro il male. Le due immagini del dominio, il sacrificio
sacerdotale e il linciaggio, gli addobbi colorati dei cardinali e i colpi in
canna dei saccheggiatori, si fondono però nella creazione di un unico
immaginario nostro, nella grandiosa – e criminale – fantasia dell’Occidente. Ora che la follia dilaga, siamo noi i veri
moderati in questi tempi di estremismo del dominio. Noi, i “terroristi,”
i “cospiratori islamonazicomunisti,” i “nemici dell’Occidente”. Restare lucidi. Saper dire che il re è nudo, per
quanta stoffa finga di indossare. Chiamare le cose con il loro nome. Rimanere
in piedi mentre soffia forte il vento della diffamazione e della pazzia del
conformismo. Anche
questa è Resistenza.
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