33. In definitiva, io non credo che le società del comunismo storico novecentesco fossero veramente uscite dal raggio di riproduzione sistemica del modo di produzione capitalistico. Questo non significa però che fossero dei semplici "capitalismi di stato" (Bordiga, Cliff, eccetera). Erano formazioni economico-sociali inedite ed incerte, il cui tallone d'Achille stava a mio avviso nella assoluta incapacità rivoluzionaria intermodale della loro base storico-sociale, la classe operaia, classe pienamente interna alla logica della riproduzione capitalistica.
34. Passiamo al concetto di sviluppo delle forze produttive. Molti marxisti sanno, o credono di sapere, che il concetto centrale di Marx è l'incapacità del capitalismo si sviluppare le forze produttive da lui stesso evocate. Ma questo non è esatto. Questo è semmai il concetto fondamentale di Engels, di Kautsky e del marxismo della II Internazionale, e poi della III Internazionale di Stalin, che alla luce della crisi del 1929 parlò addirittura di "putrefazione delle forze produttive" nel capitalismo. Il concetto centrale di Marx è un concetto in positivo, non in negativo, ed è quello della formazione progressiva di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale. In ogni caso, come capita per tutte le ipotesi scientifiche serie (che restano serie anche se vengono falsificate), non si è storicamente verificata né la formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato né la stagnazione dello sviluppo delle forze produttive nel capitalismo, che si è anzi dimostrato un involucro estremamente dinamico e capace di mutamento e di trasformazione. Anche in questo caso, il pensiero marxista ufficiale ha dimostrato di essere non un'avanguardia, ma una retroguardia, a causa della doppia pressione ideologica dei dirigenti cinici e dei militanti creduloni.
35. La corrente principale del pensiero marxista ha sempre adottato un'ideologia del progresso ingenuamente storicistica, inutilmente contrastata dai suoi critici (Bloch, Benjamin, Anders, eccetera), tutti zittiti ed emarginati. Il movimento maoista ha correttamente connotato questa ideologia in termini di "teoria reazionaria delle forze produttive". Altra cosa è invece il fatto per cui il movimento comunista al potere ha sempre privilegiato la produzione dei mezzi di produzione sulla produzione dei beni di consumo. Da un lato, questa era una scelta obbligata, perché i paesi comunisti furono messi fuori dalla divisione internazionale capitalistica del lavoro, e non potevano certamente comprare le armi dai capitalisti. Dall'altro, si trattava anche di una scelta di classe, cioè della classe burocratica di stato, perché il cosiddetto "consumismo" non è certo un fatto socialmente neutrale, ma è l'involucro di una pratica privatistica e familistica della vita quotidiana del tutto incompatibile con la mobilitazione irregimentata. Il "consumismo" è un processo interminabile che si autoalimenta, non è certo un tetto di bisogni naturali che si raggiunge (come il motto comunista "a ciascuno secondo i suoi bisogni"), ed appunto per questo carattere socialmente interminabile esso è inseparabile dalla riproduzione capitalistica, e non è assolutamente affrontabile con invocazioni moralistiche, non importa se di tipo comunista militante o cristiano pauperistico. Ci vuole un radicale mutamento di mentalità, ma questo non può essere perseguito da un movimento che non crede nella conoscenza filosofica.
36. Per finire su questo punto, un marxista della II Internazionale, seguace della teoria della centralità della vittoria o della sconfitta sulla base della sfida dello sviluppo delle forze produttive, non si sarebbe per nulla stupito della vergognosa implosione del 1991. L'avrebbe interpretata come la definitiva sanzione ideologico-politica di una ben più strutturale sconfitta, quella appunto della sfida produttiva. Vi è qui però anche un'ingenuità. Nel momento in cui la produttività è anche ottenuta con l'intensificazione del lavoro (taylorismo, fordismo, toyotismo, eccetera) bisogna proprio essere ingenui per pensare che i lavoratori, una volta espropriati i capitalisti, vogliano poi lavorare in modo ancora più intensificato. Questa illusione "stachanovistica" non può che durare ovviamente poco, e solo in momenti emergenziali. Chi scrive ha visto lavorare gli operai sia in Germania Ovest che in Germania Est, e non solo ha visto, ma ha anche lavorato. Ho così scoperto l'acqua calda, il fatto cioè che il lavoratore socialista, in modo del tutto comprensibile, "batte la fiacca" in rapporto a quello sfruttato dai capitalisti, ed in più è ostile ad ogni innovazione tecnologica se questa può comportare disoccupazione o anche soltanto intensificazione dei ritmi lavorativi. In questo non vedo nulla di male, anzi lo approvo pienamente. Mica siamo venuti al mondo solo per lavorare. Tutti gli operai sanno che il "battere la fiacca" è una forma legittima di potere operaio. Sono completamente d'accordo. Prima la colazione, poi la distribuzione delle mansioni, poi un po' di lavoro, poi il pranzo, poi un'altro po' di lavoro, poi la merenda, poi a casa. Ovviamente, alla fine la Trabant è meno tecnologica della Mercedes. A me questo va benissimo, perché non sono un "consumista", ma non mi si dica che la classe operaia è il fronte avanzato dello sviluppo delle forze produttive. E perché poi dovrebbe esserlo?
37. Passiamo al venerando e centrale concetto di rapporti sociali di produzione. Secondo Marx è questo, e solo questo (e non le forze produttive) a costituire la "struttura" di un modo di produzione. Anche su questo punto i maoisti hanno avuto ragione. Bisogna allora applicare questo concetto anche alle società del comunismo storico novecentesco.
Su questo punto posso farla corta, perché ho già ripetutamente detto nei paragrafi precedenti che condivido la tesi maoista delle società di classe e non quella trotzkista degli stati operai burocraticamente degenerati. Respingendo le tesi sul cosiddetto "capitalismo di stato" (Cliff, Bordiga), credo che si avvicinino più al problema coloro che come Paul Sweezy parlano di società di classe ancora inedite, o coloro che come Rudolph Bahro (con l'avallo autorevole di una recensione su Les Temps Modernes di Herbert Marcuse) hanno utilizzato l'analogia con il modo di produzione asiatico, per indicare società di classe unite alla pianificazione economica ed alla mancanza di proprietà privata dei mezzi di produzione (più esattamente, l'analogia si presterebbe meglio alle società a modo di produzione asiatico-orientale piuttosto che a modo di produzione asiatico propriamente dette).
A differenza dei maoisti, tuttavia, non condivido la tesi per cui in URSS la società di classe sarebbe iniziata nel 1956 con il congresso del PCUS ed il cosiddetto colpo di stato di Nikita Krusciov. Si tratta di una teoria assolutamente insostenibile. I "colpi di stato" non modificano la natura di una società (e questo vale naturalmente sia per il 1956 in URSS sia per il 1976 in Cina). Krusciov non ha inaugurato il dominio sociale della nuova borghesia burocratica del partito-stato, ma lo ha semplicemente normalizzato e stabilizzato, collegializzandolo. Il vero costruttore di questa nuova classe (volutamente o meno può essere biograficamente interessante, ma non marxisticamente decisivo) fu Stalin a partire dal 1929, dal momento che i piani quinquennali non furono soltanto un accorgimento economico socialmente neutrale, ma il meccanismo di costituzione di una nuova classe dominante gestionale. Questo fu capito bene da Charles Bettelheim, anche se quest'ultimo poi usò il termine leggermente improprio di "capitalismo di partito". Dal 1929 al 1934 questa classe si costituì e si formò. Ma fu solo dal 1934 al 1939 che questa nuova classe poté realmente imporsi, con i processi staliniani. Questi processi non furono assolutamente (in termini marxisti) un errore, una paranoia georgiana, una crudeltà asiatica, un riflesso dell'accerchiamento fascista, eccetera, ma furono il solo modo di liberare un milione di posti nell'apparato dello stato-partito per cooptare un milione di persone nuove che li occuparono mediante la diffamazione e la calunnia. Krusciov fece parte di questa generazione di cialtroni. I figli di questa generazione, nati negli anni Trenta e giunti ai posti di direzione negli anni Sessanta e Settanta (e Gorbaciov ne è un esempio addirittura comico), non potevano ovviamente credere più in nulla, perché sapevano perfettamente che il libero dibattito ideologico marxista avrebbe potuto portare nel migliore dei casi al licenziamento, e nel peggiore allo spostamento di tronchi in Siberia a quaranta gradi sotto zero. Sono queste le basi "materiali" di quella crisi "morale", apertasi a metà degli anni Sessanta, e che infine portò negli anni Ottanta al fenomeno Gorby.
38. Questo maestoso e semplice fenomeno ha dato luogo fra i marxisti a patetici fenomeni di "rimozione". A ragione l'ex-marxista Kolakowsky ha parlato di "pensiero magico", nel senso che per molti marxisti il vero ed il falso non dipendono dal loro razionale contenuto, ma dalla fonte da cui provengono. Krusciov nel 1956 disse soltanto ciò che per tre decenni era stato detto da vari oppositori e critici indipendenti, ma tutto questo era stato liquidato come calunnie della CIA, mentre quando cominciò a dirlo il Gran Sacerdote tutti cominciarono a stracciarsi le vesti in modo pagliaccesco ed esilarante. Che cosa dire? Una sola cosa: vergogna!