8. La leggenda infondata di un Risorgimento senza eroi.
  Il risorgimento (1815-1861) è stato un grande periodo storico, eroico 
  e legittimo, della nazione italiana. Questa è la premessa da cui partire. 
  Certo, non bisogna dimenticare il precedente eroico periodo del giacobinismo 
  patriottico italiano (1796-1799), da non identificare assolutamente con l'"occupazione 
  napoleonica" in quanto il giacobinismo italiano è uno stupendo esempio 
  per verificare la felice convergenza nell'idea di patria della rivendicazione 
  di un'unità nazionale basata sulla lingua e sulla cultura e di una democratizzazione 
  radicale della società basata sulle due idee regolatrici di libertà 
  e di eguaglianza. Lo stesso risorgimento italiano posteriore ha avuto moltissimi 
  eroi, di cui ne ricordiamo qui soltanto due, uno meridionale ed uno settentrionale: 
  il meridionale Carlo Pisacane, uomo d'azione (e morto in combattimento come 
  il Che Guevara) e sostenitore di una rivoluzione democratica, ed il settentrionale 
  Carlo Cattaneo, intellettuale di primordine e sostenitore di un intelligente 
  federalismo italiano, democratico e repubblicano. Taciamo su altre splendide 
  figure di patrioti, ben note a chiunque conosca la storia e non si limiti al 
  dialetto sinistrese imperante negli ultimi decenni. Come è possibile, 
  allora, che abbia potuto diffondersi tanto, in particolare fra gli intellettuali, 
  l'infondata leggenda di un "risorgimento senza eroi", da dimenticare 
  più che da rivendicare? 
  
   
Vi sono per questo molte ragioni. In primo luogo, 
  la cultura cattolica e clericale (da non confondere con la religione cristiana), 
  che ha sempre denigrato il risorgimento per il semplice fatto che esso è 
  stato fatto senza e contro di lei. In secondo luogo, la cultura monarchica e 
  sabauda, che ha arrogantemente identificato il risorgimento con la sua diplomazia 
  espansionistica piemontese e con le sue scelte politiche ed amministrative. 
  
In terzo luogo, la cultura laica e massonica, che ha rivendicato a sé 
  il monopolio culturale del risorgimento identificandolo con il proprio profilo 
  ideologico e sociale, particolarmente odioso e ripugnante. In quarto luogo, 
  infine, la cultura socialista e poi comunista italiana, che ha sempre e solo 
  visto contadini, braccianti, operai ed artigiani dove c'erano anche degli italiani. 
  Questa quarta componente deve essere considerata con particolare attenzione, 
  perché le ragioni che la hanno portata a questa soluzione sono state 
  nobili e giustificate, e non devono pertanto essere poste sullo stesso piano 
  delle tre componenti precedenti. Chi scrive si è formato culturalmente 
  dentro l'utopia cosmopolitica e classista dell'emancipazione universale ed internazionale 
  del proletariato, non la rinnega affatto e la rivendica integralmente come matrice 
  passata e prospettiva futura della propria biografia culturale cosciente. Detto 
  altrimenti, chi scrive non è affatto un pentito filosofico e culturale, 
  al contrario. Anzi, è proprio per questa ragione che occorre prendere 
  le distanze recisamente non certo dal nocciolo universalistico ed emancipativo 
  dell'utopia rivoluzionaria di Marx (di cui sono comunque da ridefinire integralmente 
  le basi ideologiche, filosofiche e scientifiche), ma dalla tradizione di stupida 
  negazione dell'identità storica e culturale nazionale, una tradizione 
  parassitaria frutto di un economicismo e di un politicismo esasperati. Questa 
  tradizione, lo si noti bene, sta alla base del presente riciclaggio delle burocrazie 
  amministrative del comunismo italiano in personale politico di gestione dell'attuale 
  americanizzazione culturale. Questi sciagurati sono il vettore ideale dell'attuale 
  processo di americanizzazione culturale, e di conseguente cancellazione dell'identità 
  culturale nazionale, proprio perché provengono da una tradizione di precedente 
  (anche se apparentemente ideologicamente invertita) negazione, implicita o esplicita, 
  dell'identità culturale nazionale (e la figura tragicomica del ministro 
  pidiessino Berlinguer deve essere messa al centro dell'attenzione). È 
  questo il punto principale da capire, ed è questo il punto che la stragrande 
  maggioranza degli intellettuali italiani (indifferentemente ulivisti, polisti 
  e leghisti) non capisce, per il semplice fatto che essi si ritengono la soluzione 
  del problema, laddove invece purtroppo essi sono l'aspetto principale del problema.
  Vi sono ancora due questioni, delicate ed importanti, sui cui vorrei richiamare 
  l'attenzione. La prima è la questione, postasi proprio a metà 
  Ottocento, dei cosiddetti popoli senza storia. Si tratta di una formulazione 
  errata ed infelice, sfortunatamente adottata anche da pensatori geniali come 
  Engels, l'amico e collaboratore di Marx. Con questa linea di ragionamento si 
  finirà col dire che gli italiani hanno storia mentre i friulani ed i 
  sardi no, che i turchi hanno storia mentre i curdi no, che gli spagnoli hanno 
  storia mentre i baschi no, che gli svedesi hanno storia mentre i lapponi no, 
  che i francesi hanno storia mentre i còrsi ed i bretoni no, eccetera. 
  In realtà la storia ha anche uno statuto nazionalitario, non solo nazionale 
  in senso stretto, nel senso che l'unificazione linguistica, lo sviluppo di una 
  grande letteratura scritta, e la costituzione in stato non possono e non debbono 
  essere postulati come una sorta di premessa per una inesistente "etnogenesi 
  legittima". La categoria di "popoli senza storia" deve essere 
  rifiutata come categoria sciovinistica e pseudo-scientifica. Inglesi ed aborigeni 
  australiani sono entrambi popoli a pari dignità storica, anche se ovviamente 
  nessuno nega che i primi hanno influenzato in modo incomparabilmente maggiore 
  la storia mondiale.
  La seconda questione sta nel fatto che l'ammissione della pari dignità 
  nazionale di tutti i popoli del mondo non implica necessariamente la loro statalizzazione 
  separata, quando questa comportasse inevitabilmente spartizioni, annessioni, 
  secessioni, trasferimenti etnici forzati, ecc. In questo caso, bisogna dire 
  che l'esistenza di stati democratici, federali o confederali, di tipo multinazionale, 
  era e resta la soluzione migliore, contro ogni deportazione amministrativa ed 
  unificazione linguistica e culturale forzata. Ad esempio, lo spezzettamento, 
  la balcanizzazione e la libanizzazione del grande impero multinazionale ottomano 
  furono soluzioni peggiori di una sua (possibile) democratizzazione multinazionale 
  (e si vedano su questo gli studi in lingua francese dello studioso libanese 
  Georges Corm, che illuminano bene anche le questioni palestinese ed israeliana).