Note critiche sul trotzkismo:

Contributi per una discussione da proseguire

II parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in cinque parti.

Alla prima parte
Alla parte successiva




6. Senza confondere metodologicamente il trotzkismo con il negrismo, intendo sostenere che nell'attuale congiuntura politica e teorica il primo è di fatto subalterno al secondo. Tesi indubbiamente provocatoria, ma purtroppo non assurda come può sembrare a prima vista. in questo contributo non ho certo lo spazio per discutere della figura storica di Trotzky (1879-1940), e neppure per analizzare la storia dell'URSS fra il 1917 ed il 1940. Toccherò invece solo tre punti. In primo luogo, i tre concetti fondamentali della dottrina trotzkista (rivoluzione permanente, impossibilità di costruzione del socialismo in un solo paese, teoria della burocrazia e della dinamica sociale dei paesi dell'ex-socialismo "realizzato"). In secondo luogo darò la mia personale interpretazione della natura del trotzkismo e della sua dialettica tragica, o meglio tragicomica (dottrinarismo a priori ed empirismo a posteriori, unicità della dottrina e frammentazione inevitabile dei gruppi, universalismo astratto e particolarismo concreto, eccetera). In terzo luogo farò alcune ipotesi sul trotzkismo politico oggi. Prima, però, voglio fare ancora una premessa su Stalin, per cercare di ridurre al minimo gli equivoci e le malevolenze.

7. Una premessa sulla questione di Stalin è necessaria, perchè ogni discussione sul trotzkismo rischia di non partire neppure, e di essere avvelenata a priori, se si pensa che il critico del trotzkismo voglia "giustificare" Stalin e lo stalinismo, schierarsi al suo fianco, avallare i suoi processi ed i suoi gulag, eccetera. Non è certo il mio caso. Io capisco benissimo che negli anni Venti e Trenta la questione della scelta "secca" fra Stalin e Trotzky fosse una scelta reale ed ineludibile per i comunisti di quelle generazioni, ma oggi la retrodatazione simbolica (e fantasmatica) della dicotomia può solo creare un universo parallelo e virtuale di disputanti teologici su contenziosi un tempo sanguinanti ma oggi del tutto esauriti. Si accomodi che vuole, ma io per principio non mi lascio imprigionare oggi nella dicotomia Stalin/Trotzky. Lo facciano gli stalinisti, lo facciano i trotzkisti, ma io non lo farò. Per rispetto verso il lettore, che ha il diritto di conoscere le premesse di valore di chi scrive (unica possibile "oggettività" per il saggista, che non dispone di un laboratorio come un fisico, un chimico o un biologo), dirò egualmente che cosa penso della questione di Stalin.

In estrema approssimazione, la questione di Stalin può essere affrontata sulla base di tre approcci distinti, a volte interconnessi, ma in cui ce n'è sempre uno dominante e gli altri due dominati: l'approccio realistico di tipo politico-diplomatico-militare, l'approccio etico ed infine l'approccio strutturale in senso marxista. Il mio approccio è il terzo. L'approccio della stragrande maggioranza dei "marxisti" che conosco è sempre sistematicamente o il primo (in maggioranza) o il secondo (in minoranza). Vediamo.

Il primo approccio, ispirato alla tradizione della Realpolitik (da Machiavelli a Hobbes, da Bismarck a Churchill, eccetera), si basa sulla tradizionale separazione metodologica di Machiavelli fra politica e morale, e giudica Stalin (dal 1924 al 1953) sulla base del contesto storico, geografico, geopolitico, economico, diplomatico e soprattutto strategico-militare. Il contesto è quello della minaccia militare della Germania e del Giappone fino al 1945, e poi della minaccia atomica americana dopo il 1945. Sulla base di questo approccio, di cui non nego assolutamente la legittimità e la pertinenza, la maggior parte delle scelte di Stalin (non tutte) appare effettivamente non solo comprensibile, ma anche giustificata. La scelta della cosiddetta "industrializzazione" del 1929 appare logica, in un'ottica di confronto economico e militare con il capitalismo e poi con il nazismo. Lo stesso patto con Hitler del 1939, ingiustificabile sul piano etico ed ideologico, è invece del tutto comprensibile sul piano geografico, geopolitico e militare. La trasformazione violenta delle "repubbliche popolari" (1945-1949) in veri e propri stati satelliti sovietizzati, un vero scandalo sul piano dell'etica e della politica marxiste, appare comprensibile nell'ottica della guerra fredda (storicamente iniziata dagli americani e da Churchill, come gran parte della storiografia anche occidentale ha stabilito) e del ricatto atomico (cfr. Filippo Gaja, Il secolo corto, Maquis editore, Milano 1994). Se la rottura con Tito (1948) appare chiaramente un errore di arroganza staliniana, gli stessi processi (1936-1938) diventano in questa ottica solo un "errore", e non un crimine, perchè questo approccio realistico-militare espelle per principio ogni considerazione etica dal suo apparato teorico di valutazione.

Il secondo approccio, che è il contrario dialettico polare del primo, ed è perciò altrettanto unilaterale (anche se più simpatico) è quello ispirato alla grande tradizione etica ed umanistica del marxismo, per la quale i realisti hobbesiani e machiavellici hanno sempre e solo un sorrisino di scherno o un sospiro di compassione. Alla luce di questo approccio Stalin appare un dittatore cinico e spietato, moralmente del tutto ingiustificabile, massacratore di vecchi rivoluzionari (Bucharin, Zinoviev, fino a Trotzky in Mesico nel 1940), un despota totalitario da studiare addirittura sulla base di una psicologia paranoica, eccetera. A mio avviso questo approccio, di cui peraltro non contesto affatto la legittimità, è solo la coscienza infelice del primo, il suo rovescio inevitabile, il suo pentimento immanente, il suo grido di dolore ineliminabile, dato che l'uomo è un animale simbolico che non può sottrarsi al giudizio etico neppure quando lo proclama cinicamente con un sorrisino nichilistico di disincanto.

Il terzo approccio, che è il mio, mette fra parentesi (attenzione, non elimina, ma mette solo provvisoriamente fra parentesi) i due precedenti approcci di tipo segretamente polare-complementare (l'approccio realistico e l'approccio moralistico), e si chiede invece un'altra cosa. Si chiede quale tipo di formazione economico-sociale (in senso leniniano) e quale configurazione di rapporti sociali di produzione (in senso marxiano) Stalin ed il modello staliniano di socialismo a partire dal 1929 hanno costruito. È questa, ovviamente, la domanda che si sarebbe posto Marx, e che dovrebbe porsi ogni marxista, se non avesse messo Bismarck (e la realpolitik) e Kant (ed il giudizio morale) al posto di Marx, che così diventa solo più un'immaginetta religiosa identitaria di appartenenza di partito o di setta. Sulla base di questa domanda, e sapendo bene che saper porre le domande giuste è ancora più importante delle risposte che poi si danno, destinate inevitabilmente ad essere modificate ad ogni generazione, è possibile a mio avviso impostare correttamente, anche se certo non risolvere definitivamente (avverbio sconosciuto alla ricerca filosofica e scientifica) la questione di Stalin.

A mio avviso (e qui mi ispiro soprattutto a Paul Sweezy e Charles Bettelheim, ma non solo) la formazione economico-sociale specifica ed inedita costruita sulla base del modello staliniano di socialismo non era assolutamente di "transizione" (perchè non "transitava" per nulla verso il comunismo), ma era una formazione economico-sociale inedita ed anomala di classe, in cui la vecchia borghesia privatistica era sostituita da una nuova borghesia burocratica di stato. Come si vede, la mia opinione è simile a quella del maoismo degli anni Sessanta e Settanta, non a quella del trotzkismo, che cercherò di segnalare e criticare fra qualche paragrafo. Il carattere classistico ed inedito, più esattamente socialmente classistico e storicamente inedito, della formazione economico-sociale staliniana, che a mio avviso può essere definita sia con l'attributo di socialismo realmente esistente (SRE) sia di comunismo storico novecentesco (CSN), spiega anche la dinamica essenziale della dissoluzione successiva di Gorbaciov e di Eltsin (1985-1992).

Non mi illudo certamente che questo terzo approccio, l'unico scientifico in senso marxiano, passi presso una tribù ideologica ed identitaria come quella dei marxisti rimasti. Chi scrive è molto meno ingenuo di come sembra, e conosce bene i suoi polli. Ma spero almeno di poter cominciare ad esaminare criticamente il trotzkismo senza che si alzino alte grida di accusa di voler "difendere" lo stalinismo, eccetera. Non è il mio caso. I polemisti frettolosi sono avvertiti.

8. Finito l'antipasto, passiamo finalmente al primo piatto. Ed il primo piatto sta in ciò, che prenderò in esame successivamente tre capisaldi della tradizione trotzkista (la rivoluzione permanente, l'impossibilità di costruzione del socialismo in un solo paese, ed infine la rivoluzione politica contro la burocrazia dello stato operaio degenerato) criticandoli tutti e tre. Criticherò il primo sulla base di una categoria teorica di Hegel, e gli ultimi due sulla base di due categorie teoriche di Marx. Mi auguro di essere chiaro e comprensibile. Cominciamo.

9. In estrema sintesi, e per mettere subito giù le carte davanti al lettore, ritengo che da un punto di vista teorico il pensiero di Trotzky sia un pensiero estremamente tradizionale e "classico", un pensiero completamente interno al modello del marxismo della Seconda Internazionale, di cui rappresenta, insieme con altri due importanti modelli (Rosa Luxemburg e Georges Sorel), una variante di sinistra. Variante di sinistra, certo, ma sempre variante interna. Questo appare chiaro se si esaminano in modo spregiudicato ed onesto le sue colonne portanti (centralità sociale e politica pressochè esclusiva della classe operaia e proletaria, sottovalutazione sistematica della classe contadina come classe "piccolo-borghese" e residuale, centralità della teoria dello sviluppo delle forze produttive, teoria dell'impossibilità di costruzione del socialismo in condizioni di basso sviluppo delle forze produttive stesse, limitazione delle classi a due soltanto con esclusione della possibile natura di classe sociale autonoma, nuova ed inedita della burocrazia, eccetera). In proposito, sulla base di questo giudizio di fondo, voglio però fare subito due rilievi aggiuntivi secondari.

In primo luogo, il fatto che il marxismo teorico di Trotzky sia al 100% interno al paradigma unico della Seconda Internazionale (e parlo di paradigma unico anche se diviso in tre ali, a destra Bernstein, al centro Kautsky ed a sinistra Rosa Luxemburg) non vuol dire che dal 1917 al 1940 Trotzky non abbia preso spesso posizioni corrette ed egregie. A parte la sua autobiografia, ho letto alcune biografie politiche di Trotzky, in particolare il vecchio Deutscher ed il più recente Brouè, e sono del tutto convinto della grandezza politica e morale di Trotzky. Egli fece bene ad aderire alla rivoluzione d'ottobre del 1917. Seppe condurre con grande capacità ed intelligenza la guerra civile fra Rossi e Bianchi fra il 1918 ed il 1921. Previde con grande intelligenza gli avvenimenti cinesi del 1927 ed il massacro dei comunisti nelle città. Aveva perfettamente ragione nell'auspicare un fronte unito anti-hitleriano in Germania fra il 1931 ed il 1933. Seppe dare prova di grande moralità rivoluzionaria fra il 1938 ed il 1940 quando contro i suoi stessi seguaci sostenne la linea della difesa dell'URSS nonostante i grandi processi sterminatori di Stalin. Insomma, da qualunque parte lo consideriamo, e nonostante i suoi errori (ma chi non si impegna non rischia e non sbaglia mai, solo chi si sporca le mani lo fa), Trotzky appare una tragica ma lucida figura di rivoluzionario marxista classico.

In secondo luogo, credo che l'odierna sopravvivenza (unita ad una parziale rivitalizzazione) del trotzkismo sia proprio dovuta alla lunga durata delle sue radici teoriche. Risalendo in modo pressochè integrale alla Seconda Internazionale e quindi ad un momento storico anteriore al 1917, il trotzkismo viene così di fatto simbolicamente "innocentizzato" di tutta la catastrofe dissolutoria del comunismo storico novecentesco a dominante staliniana e post-staliniana (1917-1991). Così come Benedetto Croce poteva dire nel 1943 la frase "ieri dicevamo", aprendo una parentesi storica e simbolica fra il 1922 ed il 1943, nello stesso modo il trotzkista può dire "avevamo sempre detto e siamo stati confermati", aprendo una parentesi storica e simbolica fra il 1917 ed il 1991. Ed è infatti vero che il trotzkismo, non avendo mai avuto il minimo potere politico dopo il 1924 ed essendo anzi stato sempre perseguitato, massacrato e piccozzato, non porta alcuna responsabilità per la dinamica della vergognosa implosione del comunismo storico novecentesco. Esso può così rappresentarsi come la coscienza critica della rivoluzione, il grillo parlante del movimento operaio. Come il bordighismo, esso presenta aspetti del tutto astorici. Ma a differenza del bordighismo esso si è sempre sporcato le mani con la tattica. Questo lo fa diventare meno rigoroso teoricamente del bordighismo, ma anche più interessante e più fecondo storicamente. Teoricamente, gran parte del trotzkismo europeo è una forma di bordighismo indebolito, eclettico e poco rigoroso. Ma politicamente il trotzkismo fa parte integrante della storia del marxismo politico degli ultimi settant'anni.



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