Etica ed economia
Una critica radicale a Michael Novak e ai teocon

nona e ultima parte
 

di Oscar Nuccio



Alla nota introduttiva




4. Si può mai credere che il capitalismo sia nato indossando il saio francescano?

Per secoli gli ecclesiastici hanno prescritto all'uomo battezzato di non amare il mondo e le cose del mondo, hanno anatemizzato il ricco (iniquo o figlio di iniquo), hanno legittimato la sola agricoltura, hanno ammesso unicamente lo scambio acquisitivo, hanno condannato l'avaro (che poi è - nella loro neutralità - colui il quale desidera più dello stretto necessario per vivere), hanno, in breve, stretto in una ferrea morsa l'agire del cristiano che non ha, né deve avere, fini terrestri, ecc. ecc. Quale sia stato il codice di norme imposto ai fedeli, e come questo codice si sia andato formando, l'ho spiegato ampiamente nei primi tre tomi de Il pensiero economico italiano. L'ho fatto analizzando gli scritti di decine e decine di canonisti e di teologi, tutti concordi nell'indicare al fedele la norma aurea dell'autarchia la cui osservanza è la sola garanzia di salvezza. Il capitalismo, se con questo termine vogliamo intendere genericamente l'attività economica in funzione del profitto, è - secondo loro - prodotto del Maligno.

Ebbene, da qualche decennio, la storiografia cattolica si è impegnata, dapprima cautamente poi scopertamente e sfacciatamente, a fare tabula rasa delle ultramillennarie condanne della ricchezza, del profitto, del mercante, dell'avarizia, ecc. ecc., così da potere coniugare cattolicesimo e capitalismo.

Lo spazio mi costringe alla brevità della esposizione; purtuttavia credo di potere offrire elementi sufficienti per dimostrare quali sono, e di quale natura siano, i principali falsi dei quali si servono i propagandisti (numerosi, ormai) di binomi quali "tempio-mercanti", "denaro-salvezza", "francescanesimo-economia civile" e consimili.

Inizio dall'ultimo dei binomi indicati perché permette di dire cose che hanno carattere generale. Carattere generale ha la distinzione accettata ed adottata dai teologi tra "scambio acquisitivo" e "scambio pecuniativo". Essa ha origine aristotelica: il primo, aveva spiegato lo Stagirita, definito anche "necessario", è permutazione di cosa contro cosa o di beni contro denari al fine di soddisfare esigenze vitali. Solo esso è naturale, non il secondo che è scambio "o di denari contro denaro o di qualsivoglia altri beni contro denari non per le cose necessarie alla vita, ma per la ricerca del profitto" il quale non è, sentenzia Tommaso d'Aquino, "un fine onesto"; e questo tipo di commercio, aggiunge egli, "sembra riguardare propriamente i commercianti secondo il Filosofo".

Soltanto in assenza di animus lucri acquirendi, ed in altri pochi dai teologi definiti, la negotiatio può divenire lecita. Le fattispecie legittimate sono fondate sul principio che il soggetto abbia acquistato "non per rivendere" il bene, bensì lo ha fatto per tenerlo come proprio.

Ignorando la fondamentale distinzione aristotelico-tomistica Stefano Zamagni fa esegesi (si fa per dire) di una celebre omelia di Bernardino da Siena per farne l'atto di nascita della "economia civile"; egli scrive che il frate toscano nelle prediche del 1427 sviluppa un argomento che, in linguaggio moderno [che, aggiungo io, non ha nulla a che fare con quello bernardiano] possiamo rendere così: vi sono due categorie di regole morali, quelle che possono essere concettualizzate nella forma di capitale reputazionale […] e quelle la cui esecutorietà dipende, invece, da vincoli di natura interna, vale a dire dalla costituzione morale degli agenti […]. Tale dicotomia pone un problema formidabile: mentre per produrre e fare rispettare le regole morali della prima categoria è sufficiente, da un lato, un coerente sistema di leggi unitamente ad una ben oliata macchina della giustizia e dall'altro uno schema di incentivi esterni sotto forma di capitale reputazionale - in sostanza, una solida economia privata [corsivo nel testo] -, per rifornire la società dell'altro tipo di infrastruttura morale è necessario intervenire sulla struttura motivazionale interna dei soggetti, vale a dire sulla loro adesione convinta - in sostanza, è necessaria una robusta economia civile [corsivo nel testo]. Ebbene, nella prospettiva della durata, un'economia di mercato risulta sostenibile se entrambe le gambe, quella dell'economia privata e quella della economia civile, sono messe in grado di funzionare. È questo il distillato del ragionamento di Bernardino da Siena […]".

Ma siamo sicuri che l'economista bolognese abbia ottenuto il distillato o invece piuttosto una mistura di sua personale produzione? Intanto vi è da dire che l'accademico bolognese non ha lavorato su tutte le prediche del frate, ma soltanto su una, o meglio, per essere precisi, sui alcuni brani della predica XXXVIII. È il metodo, questo, di "fare ricerca seria"? È stata corretta la procedura da lui seguita? Io dico che la procedura è stata scorretta.

Lo accertiamo se insieme alla citata predica in volgare leggiamo il sermo XXXIII (in latino) - quello sulla "canità mercantile" - il quale si ricollega direttamente alla quaestio 77 della Summa di Tommaso d'Aquino ove è posta la distinzione tra scambio acquistivo (lecito) e scambio pecuniativo (illecito).

La predica - utilizzata (strumentalmente) dallo Zamagni - si apre con la citazione (adulterata) dei versetti del salmo davidico [71 (70), 16] tradotti dal Francescano (senza conformità al testo biblico): "Perché non ho conosciuto la negoziazione, cioè la mercanzia, entrerò ne la potenza del Signore". Glossando i versetti il frate senese enuclea i criteri direttivi della condotta del mercante. Ma di quale mercante? Questo è il punto.

Non dobbiamo parlare per sentito dire, specie quando si ha l'onere di fare la "ricerca seria" che è propria, dice Luciano Canfora, degli accademici: la "ricerca seria" impone di non ripetere i travisamenti di Amintore Fanfani e di Giacomo Todeschini che si è inventato il binomio "tempio-mercanti". I due "mandarini" hanno travisato perché non hanno saputo dar conto dell'animus, dell'intenzione, del mercante, che pure Bernardino ha chiaramente descritto. Ma per capirlo bisogna conoscere la distinzione aristotelico-tomistica tra scambio acquisitivo e scambio pecuniativo.

Nel sermone XXXIII egli aveva scritto che il mercante opera bene quando lo fa "propter necessitatem ut videlicet satisfacere possit sibi et familiae suae […]". Nella predica destinata al pubblico degli "idioti" (ignoranti) spiega: "Dico che se egli fa [lo scambio] per regiare la sua famiglia, o per uscire di dévito, o per maritare fanciulle: dico, che gli è lecito". E presto aggiunge, perché non sorgano equivoci e fraintendimenti: "che dire di colui il quale "non n'ha bisogno, che s'afanna cotanto […] egli pecca mortalmente, però che questo ragunare [cioè operare in funzione del profitto] si chiama peccato […]". Nel citato sermone latino il concetto è così meglio espresso: "[…] mercari ut ex lucro cumularentur […] illicitissimum est".

Non aveva forse ragione Enrico Barone quando scriveva che nel momento in cui la religione entra dalla porta l'economia politica scappa dalla finestra?

Ma non scappa per l'economista e storico bolognese che fa di Bernardino da Siena - sulla base di passi estrapolati e mal capiti di una sola predica - il fondatore della "economia civile" o per il dottore in teologia Oreste Bazzichi il quale predica, udite udite!, che i "veri padri dello spirito capitalistico" sono i francescani (da segnalare che la solenne dichiarazione è contenuta nel libro la cui recente seconda edizione ha avuto una celebrativa, ed avallante, recensione a firma del "filosofo" Dario Antiseri dal titolo, che è tutto un programma, Il capitalismo comincia con il saio, in Avvenire, 7 agosto, 2003).

Postasi la apologetica cattolica su questa via, ha potuto dire di tutto e di più. Che dice per esempio Marie Dominique Chenu? Dopo avere detto che "intorno al 1100" la "funzione di mercator era sospetta alla Cristianità", poi tale "sospetto" si attenua e scompare quando lo status di mercante si "iscriverà esplicitamente nella teologia, in cui la nozione di vocazione [chiaro termine weberiano qui strumentalizzato] sarà estesa, secondo la provvidenza di Dio, agli stati della vita profana, senza esclusivismi".

Altro che "cane" di cui parlava il domenicano Giordano da Pisa, altro che vituperi contro di lui lanciati da Bernardino da Siena. Fermarsi alle invettive dei frati domenicani è fare una lettura "fondamentalista" che deve essere ormai bandita. E la bandisce Giacomo Todeschini, artefice della "econonia minoritica" e capofila della serrata schiera di "innovatori" i quali, pubblicizza la professoressa Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, portano avanti "ricerche nuove che da più punti di vista stanno immettendo aria fresca negli studi di storia del pensiero medievale". Quest'aria frizzantina e corroborante ha iniziato a spirare pagina dal momento in cui - ci fa sapere l'accademica milanese - si è cominciato a "leggere, per esempio, nelle regole dei monaci [sic!!] la crescita di un preciso lessico economico [sic!!] che preludeva a quello dei mercanti (Todeschini), a individuare nuovi profili intellettuali già "moderni" (Le Goff)". I monaci preludono ai mercanti!! Corbelleria storica che ormai ha acquistato il valore di "verità", come accade delle bugie che passano di libro in libro. Altra bugia diventata verità nel circolo degli storici "conciliaristi" è che la scienza economica è invezione dei monaci avvenuta nel XIII secolo; questo raccontano don Amleto Spicciani e P. Vian nel libro intitolato Pietro di Giovanni Olivi. La scienza economica del XIII secolo. Insomma, il frate francescano è l'Adam Smith del '200!!!.

Giacomo Todeschini, nel suo libro - che sin dal titolo è tutto un programma - racconta che da una "identificazione del medioevo occidentale come cristiano trae origine [sic!!!] la prima storiografia del pensiero economico medievale: essa stabilisce le proprie premesse estraendo dal sistema delle fonti patristiche e scolastiche medievali i fondamenti dell'analisi economica [corsivo mio] che sin d'ora rinvia a una equazione [??] fra Occidente cristiano e Occidente medievale. Il pensiero economico medievale nasce [!] perciò in storiografia come sezione del pensiero cristiano [sic!!!], ed è come tale che esso viene identificato quale logica premessa della scienza economica moderna [corsivi miei]". A questa diede fondamentale contributo Tommaso d'Aquino, il primo teorico - ci insegna don Robert Sirico dell'americano Acton Institute - del "mercato" e del liberalismo economico!!. Adam Smith non è il "padre dell'economia" (e perciò sono da correggere tutti i libri di storia e di economia politica), essendo ormai la paternità assegnata ai monaci, ai frati, ai teologi medievali.

Con mistificazioni del genere, passate del tutto inosservate nel caravanserraglio accademico, si è giunti a costruire una storiografia che vuole, costi quel che costi, proporre il capitalismo come creatura del cattolicesimo.

Capitolo centrale di tale mistificante storiografia è dedicato al "prezzo della salvezza". La genesi e la formazione di questo capitolo devono essere narrate nelle grandi linee, non permettendolo lo spazio a disposizione (e perciò rinvio al mio saggio pubblicato negli Atti del XIII Convegno dei professori di storia della Chiesa).

Punto di partenza è la apologetica narrazione della nascita dei Monti di Pietà e snodo centrale la errata (o cervellotica) lettura di un fondamentale documento pontificio. E tutto questo viene fatto, da accademici il cui compito dovrebbe essere la "ricerca seria" (lo sostiene, beato lui!, Luciano Canfora). Ma a leggere le loro pagine emerge che di ricerca seria ve ne è poca, o nulla.

Salvezza, denaro e salvezza, sono gli slogan che storici e storiche (soprattutto le seconde) ripetono (mi pare che fu Lenin a dire che una bugia ripetuta diventa verità) e ripetono sin dai titoli dei loro libri e pamphlet.

Prezzo della salvezza si intitola il corposo libro di Giacomo Todeschini, Il denaro e la salvezza. L'invenzione del Monte di Pietà quello della Giuseppina Maria Muzzarelli - storica "ammirata" da Franco Cardini "per i suoi bei lavori sui Monti di Pietà" (Avvenire, 13 settembre 2003) - esperta quant'altri mai che avalla con la sua accademica auctoritas l'esistenza di "rivoluzioni" mai avvenute.

La "rivoluzione" è operata dal Monte di Pietà, racconta Paolo Prodi e ripetono pedissequamente gli allievi della "prestigiosa Scuola di Bologna", della quale Maestro è Ovidio Capitani (informazione fornita da don Amleto Spicciani), perché esso nasce sin dalla sua origine come istituto di credito - una sorta di Mediobanca del '400 - per fornire prestiti a chi - ci insegna la Muzzarelli - "non riusciva a reggere il mercato"!!

Con un tratto (fantasioso) di penna, con un semplice tratto, la "mandarina" felsinea cancella secoli di storia dell'"usura". E forse anche per questo motivo è ammirata dai suoi colleghi, Franco Cardini in testa. Cancellato il divieto di prestito oneroso, legittimato l'interesse, il capitalismo può marciare sicuro sulla strada tracciata dalla "Scuola di Bologna".

Avendo cancellato le migliaia di pagine di teologi, di canonisti, di decreti pontifici, la docente bolognese (insieme a molti altri che giurano in verbo magistrae) può tranquillamente elaborare la sua accademica lezione con la quale insegna che nel 1515 il pontefice Leone X legittimò l'interesse. Non che ella sia la prima e la sola - sta in compagnia di Paolo Prodi, di Giovanni Zalin, di Giacomo Todeschini, di Riccardo Faucci, di Giancarlo Andenna, di Francesco Piro, e di tanti altri i quali hanno legittimato l'interesse sulla base di un documento papale da loro o interpretato erroneamente o, più verosimilmente, non letto.

Grazie alla legittimazione dell'interesse, i Monti di Pietà prestavano a "condizioni solidaristiche"!! (intervista della Muzzarelli al paludatissimo "domenicale" de Il Sole- 24 Ore, del 28 settembre 2003); concetto che ha l'avallo di PaoloProdi e di Paola Vismara.

Ma è tutto vero quello che ci raccontano gli storici cattolici "conciliaristi" o sono falsità con le quali vogliono "cattolicizzare" il capitalismo?

Possiamo dire che non è nulla vero se andiamo a leggere con onestà mentale e senza intenti ideologici il documento ecclesiale del 1515 con il quale il pontefice Leone X volle porre fine al conflitto dottrinale tra francescani - principali artefici dei Monti di Pietà - ed i domenicani: gli uni sostenevano che i Monti potessero riscuotere un indenizzo per la loro opera, gli altri replicavano che il prestito da quelli praticato dovesse essere - conformemente ai princìpi teologico-giuridici - completamente gratuito.

Nella "Inter multiplices" i Padri del Concilio Laterano (1515) ed il pontefice risolsero la questione statuendo che i Monti potevano ricevere il "compenso" per le spese di gestione (il che è completamente diverso dall'interesse), ma che sarebbe stata soluzione migliore, più perfetta e santa se avessero "prestato gratuitamente". Chiara e lineare la decisione conciliare. Ma risulta tale se si va a leggere il testo.

Eppure su "ciò che non esiste" si sono costruite (inventate) nel testo teorie economiche, si sono date versioni storico-economiche che non hanno fondamento alcuno; per esempio, scrive Giacomo Todeschini che i francescani i quali "cristianizzarono [!!!]" "istituzionalmente il prestito [!!!]" si "sintonizzarono sui nuovi modi di organizzare la circolazione della ricchezza [!!!]". E perciò si ragionò di "uso cristiano del denaro" - fa eco al docente triestino la Muzzarelli dal foglio Avvenire - e di "sviluppo compatibile".

Non sto a rimarcare la spudorata equivocità, la ambiguità dolosa, la capziosità intenzionale, dei moderni termini economici (che hanno precisi significati tecnici) impiegati dai nostri "ecumenici" storici e passo a citare, come esemplare campionario di falli in libertà, il seguente pezzo di prosa della storica, nel quale agglomerando luoghi comuni (e falsi) scrive che "la nuova istituzione […] intrisa di elementi di razionalità bancaria [sic!!!]" fu una "risposta civica solidaristica [???] ai problemi del credito […]". In un crescendo rossiniano la docente felsinea fa sapere a tout le monde che il "Monte di Pietà con la sua articolata vicenda può essere assunto come icona della potenza di una risposta collettiva forte come l'insieme di tanti fili sottili capaci, se uniti tra loro, di atterrare una montagna o di trattenere un cavallo furioso […]". No comment!

Se i nostri storici e le nostre storiche hanno scoperto, dopo il Concilio Vaticano Secondo, che cristianesimo e capitalismo sono intimamente (ed ecumenicamente) relazionati, che cosa allora, mi domando, hanno scritto e detto studiosi come il cardinale Giambattista de Luca, Ludovico Antonio Muratori, Scipione Maffei, Giambattista Vasco, tutti uomini pii e non eretici, i quali chiedevano all'autorità ecclesiastica di allentare di poco la corda che stringeva il collo della vita economica laica? Da che parte stare? Con i nostri "mandarini" che fabulano di "denaro e salvezza", di mercanti e tempio, di francescani che generano, nonostante che abbiano fatto voto di castità, il capitalismo? O con quei pii uomini del passato? Pio uomo fu Giammaria Ortes che scrisse volumi e volumi di economia politica per spiegare che la vera e sola economia politica è quella che si trova nel Vangelo ed è insegnata nel catechismo dei parroci (ora ad insegnarlo sono sempre più spesso, "segno dei tempi", fanciulle talvolta anche carine, il che non guasta). E il catechismo, che io sappia, non parla di capitalismo!

Ed al catechismo tridentino riduceva tutta l'economia anche l'abate Maurizio Antonio Tocci autore, nella seconda metà del '700, di una monumentale opera intitolata L'Esatta pratica del Cristianesimo, al quale è toccata sorte simile a quella dell'Ortes, quella cioè di essere egli - piissimo sacerdote che auspicava, al pari di Tommaso Campanella, il "ritorno alle origini" del Cristianesimo - trasformato da Cantimori, Candeoloro ed altri in "illuminista", "utopista", "mercantilista". Di simili "caricature" che portano la firma di rinomati "mandarini" è piena la pinacoteca della storia.

Qui metto il punto. Chi mi ha seguito avrà certamente notato che il binomio "cristianesimo-capitalismo" è una invenzione storiografica, pure se è ormai accreditata come cosa seria e scientifica. Mi sono limitato ad esporre alcune delle più vistose falsità contrabbandate da certi noti storici cattolici di casa nostra. Il mio discorso avrebbe bisogno di molto, molto, più spazio, per mostrare gli errori di cui sono pieni i libri di scrittori di altre nazionalità, quelli, ad esempio, del citato Michael Novak dei cui errori ha esposto significativo campionario don Ennio Innocenti. E questo è un altro merito, ripeto, che mi piace riconoscere all'infaticabile e dotto studioso della cui amicizia mi onoro sommamente.

Canneto Sabino, 23 aprile 2004


Fine
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