Se il fondamento della politica estera degli
Stati Uniti d'America nel periodo della guerra fredda
era stato unico e in definitiva riducibile a tre
semplici enunciati - "contenimento" (containment)
dell'URSS, freno alla diffusione mondiale del
"comunismo", promozione della crescita
economica nel "mondo libero" sotto l'egida
Americana - con la caduta del muro di Berlino si apre
una fase caratterizzata da una pluralità di concezioni
strategiche possibili.
Queste risultano appartenere a tre filoni
principali, che gli strateghi statunitensi
(tradizionalmente affezionati all'uso di
espressioni-chiave) hanno definito come internazionalismo
trionfante, neo-isolazionismo o disimpegno e neo-interventismo
selettivo.
1.
E' nel campo dell'internazionalismo trionfante che
si collocano le opzioni dottrinarie caratterizzate da
un'istanza di continuità con la politica estera degli
anni 1945-1989; una continuità che peraltro, almeno in
alcune posizioni, è corretta dall'urgenza di
"cogliere il momento favorevole", di
avvantaggiarsi al massimo della posizione di unica
superpotenza mondiale.
Un concetto chiave di questa corrente è quello
celebre di nuovo ordine mondiale (New World Order),
coniato dal presidente Bush nel 1990 in occasione della
prima campagna di aggressione contro l'Irak e in seguito
passato a definire il nuovo ruolo e le nuove
"responsabilità" degli USA. Il concetto in sé
non esprime novità sostanziali rispetto alla fase
precedente: preoccupazione per la stabilità,
mantenimento dello statu quo, riconoscimento della
"leadership globale" degli USA. Più
interessante è la riflessione sull'applicazione pratica
del concetto, avvenuta con l'operazione Desert Storm e
il suo proseguimento nel Golfo Persico. Affiora la
giustificazione della guerra preventiva come strumento
di preservazione dell'ordine mondiale, ma allo stesso
tempo - con il divario evidente fra potenza militare
dispiegata e risultati conseguiti in termini di
condizioni per una pace duratura - una scissione fra
potenza militare e responsabilità politica; scissione
che secondo alcuni le successive scelte operate in
Somalia e Bosnia confermerebbero.
Ma se i vertici politici mostrano tutta la loro
carenza nel dare sostanza al concetto di nuovo ordine
mondiale, i vertici militari suppliscono con entusiasmo.
Nel 1992 uno dei tanti "scoop pilotati"
porta alla pubblicazione sulle pagine del New York Times
di un rapporto "segreto" del Pentagono (Defense
Planning Guidance, redatto sotto la direzione del
sottosegretario alla Difesa per gli affari politici,
Paul Wolfowitz) interpreta esplicitamente il nuovo
ordine mondiale come volontà degli USA di mantenere il
proprio status di superpotenza unica facendo leva
soprattutto sulla potenza militare, da impiegarsi - se
del caso - anche unilateralmente. La NATO, in questa
prospettiva, è il veicolo degli interessi americani in
Europa e il massimo garante della sicurezza europea.
E' un giornalista (Charles Krauthammer) a coniare
il significativo concetto di momento unipolare per
descrivere il carattere al tempo stesso assoluto e
temporaneo della supremazia USA; fra due, tre decenni
nuovi rivali potranno essere abbastanza forti per
sfidarla. Ma unipolarità implica anche concentricità
attorno ad un polo: quindi, al centro dell'ordine
mondiale, una confederazione occidentale di cui il
Gruppo dei Sette è una specie di prefigurazione), e al
centro di questa gli USA. Cerchi concentrici dove la
distanza dal centro si misura in perdita di sovranità.
Obiettivo finale, la formazione di quel mercato comune
mondiale preconizzato da Fukuyama nella sua Fine
della storia. Ma l'obiettivo primo, e il primo
compito da realizzare, è l'unificazione dell'Occidente
economicamente avanzato.
Precursore in questa direzione era stato Robert
Strausz- Hupé, che sin dal 1957 aveva agitato la
necessità di unificare il mondo sotto la bandiera a
stelle e strisce "nell'arco di una
generazione" (!) e - campione del mondialismo ante
litteram - bollato l'idea di Stato-nazione come
un'odiosa invenzione ideologica francese e come "la
forza più retrograda del XX secolo". Il sogno
federalista mondiale di Strausz-Hupé (nel quale la NATO
era il nucleo fondante) investiva gli USA del ruolo di
"architetti di un impero senza imperialismo",
con la cultura anglosassone a fare da tramite fra le
culture antiche e la nuova cultura mondiale emergente.
La miseria di tale concezione non le impedisce di
continuare a fare adepti, fra cui Strobe Talbott,
attuale numero due del Dipartimento di Stato di Clinton.
Joseph Nye sottolinea invece gli aspetti
"morbidi" del pensiero internazionalista. Dopo
la guerra del Golfo Persico, è chiaro che la potenza
economica non ha mandato in soffitta la potenza
militare. Gli USA sono al primo posto perché egemoni
sul piano del hard power (potere di coercizione) come
del soft power (potere di persuasione). Questo secondo
aspetto rinvia agli istituti transnazionali nei quali
gli USA devono assicurarsi il controllo in ultima
istanza: il World Trade Organization (ex GATT), il FMI,
il Trattato per la non-proliferazione nucleare, e via
dicendo. In questo delirio di onnipotenza, il ruolo
possibile dell’America è stato descritto come quello
di "grande organizzatore" mondiale,
paragonabile a quello svolto dalla Gran Bretagna nei
secoli XVIII e XIX, all’Austria fra il 1812 e il 1818,
al Papato nei secoli XII e XIII, fino all’Atene prima
della guerra del Peloponneso.
Si arriva a rigurgiti "spengleriani"
(con tante scuse a Oswald Spengler) nell’appello di
Ben Wattenberg, direttore di Radio Free Europe, affinché
il popolo Americano riconosca il suo "nuovo destino
manifesto" (new manifest destiny) nel compito di
promuovere nel mondo la "democrazia di tipo
americano". Qui è la cultura ad assumere una
funzione primaria, e gli USA dispongono delle migliori
armi anche su questo terreno: il mondo dello spettacolo,
i media, la lingua inglese, il turismo, l’istruzione
universitaria (sic) e i sistemi informatici – senza
dimenticare il business dell’entertainment. Insomma,
Coca Cola, Bill Gates e Pamela Anderson al servizio del
mondo unipolare a dominanza USA.
Altri non esitano a riciclare con disinvoltura
termini oggigiorno messi al bando dall’ossessione
puritana del politically correct. Il conservatore
d’assalto Irving Kristol dalle pagine del Wall Street
Journal (agosto 1997) celebra "il giorno non
lontano .. in cui il popolo Americano prenderà
coscienza di essere una nazionale imperiale… una
grande potenza può essere insensibilmente condotta ad
assumersi delle responsabilità senza esservisi
esplicitamente impegnata".
2.
Ad una maggiore sobrietà è improntato – almeno in
apparenza – il pensiero neo-isolazionista. I suoi
esponenti riconoscono l’impossibilità per l’America
di gestire efficacemente una politica estera
internazionalista, economicamente e militarmente: lo
vieta, fra l’altro, un bilancio della difesa che negli
anni ’90 è prossimo a 300 miliardi di dollari annui,
a fronte del gonfiarsi del debito interno, di un tasso
di risparmio fra i più bassi del mondo, di un sistema
dell’istruzione fallimentare (evviva la sincerità) e
di una scarsa propensione a reinvestire capitali nella
sfera della produzione invece che nella sfera
finanziaria.
Isolazionismo non significa – né ha mai
significato, nella storia degli USA – volontà di
isolamento. E’ una dottrina politica che non preclude
lo sviluppo crescente di relazioni economiche con
l’esterno, esprimendo tuttavia un desiderio di
disimpegno finalizzato, in ultima analisi, a non legare
in alcun modo le mani all’azione politica Americana.
Tradizionale cavallo di battaglia del pensiero
repubblicano, accentuato dalla sconfitta nel Vietnam, il
neo-isolazionismo ha la sua tendenza "nazional-populista"
in Patrick Buchanan. L’ex collaboratore di Nixon e
Reagan auspica il totale ritiro delle forze USA
dall’Europa e dall’Asia, ma senza disarmare. Il
primato Americano deve essere mantenuto in mare,
nell’aria e nello spazio; l’interventismo non viene
escluso, a patto che non sia di terra (evidente la
natura del compromesso raggiunto con Clinton in
occasione dell’aggressione contro la Jugoslavia).
Questa specie di riedizione della "dottrina
Monroe" è condivisa e radicalizzata da Ted
Carpenter, direttore del Cato Institute. Carpenter si
batte per una strategia indipendente, libera da impegni
onerosi ed obsoleti; gli "interessi vitali"
degli USA vanno rigorosamente definiti,
l’interventismo a tutto campo va rigettato; i
conflitti locali (Europa inclusa) non devono essere
considerati una minaccia ai suddetti "interessi
vitali". "Quali sono gli interessi
vitali dell’America?" si domanda Edwin Feulner,
presidente della Heritage Foundation, ed elenca cinque
punti: salvaguardare la sicurezza nazionale (territorio,
confini, spazio aereo americani); prevenire la minaccia
da parte di una potenza antagonista in Europa,
nell’Estremo Oriente e nel Golfo Persico (il
riferimento è rispettivamente a Russia, Corea del Nord,
Iran e Irak); mantenere la capacità di accesso degli
USA ai mercati esteri; proteggere gli Americani da
"terrorismo e criminalità internazionale";
preservare la possibilità di accesso alle risorse
strategiche.
Corollario della tesi di Carpenter è il giudizio
netto sulle alleanze attuali e sulla NATO –
un’eredità del passato di cui disfarsi. Il tutto in
un contesto di "pessimismo della ragione":
l’istante unipolare non durerà.
E’ ancora il Cato Institute, per voce di Barbara
Conray, a negare che nel perseguimento della leadership
politica e militare possa consistere il fondamento della
politica estera Americana. Essere il "Gendarme del
Mondo" presenta costi superiori ai benefici.
Attorno a questo assunto, un ampio ventaglio di
posizioni non crede nella possibilità che l’egemonia
USA sopravviva alla guerra fredda. Non nasceranno nuove
superpotenze, anzi le crisi regionali condurranno ad una
crescente frammentazione del potere. Gli USA devono
quindi adoprarsi per "compartimentare" questa
instabilità regionale, senza intervenirvi attivamente.
I 40 anni della guerra fredda hanno conferito eccessiva
preminenza alla politica estera, lamenta l’ex
ambasciatore all’ONU Jeane Kirkpatrick: è ora che
l’America affronti questioni di ordine inferiore.
Perché il potere oggi è essenzialmente
economico, ed è su questo terreno che si svilupperà la
vera competizione. L’opzione mondialista non avrà
come premio un mondo costituito attorno ai valori
americani. E la difficile situazione socioculturale
dell’America rende urgente un profondo rinnovamento
all’interno.
3.
Agli "opposti estremismi"
dell’internazionalismo e dell’isolazionismo si
contrappone la corrente di pensiero favorevole ad un
neo-internazionalismo pratico (practical
internationalism, secondo l’espressione di Richard
Gardner, attuale consigliere di Clinton).
Il concetto chiave che ispira buona parte
dell’azione di politica estera dell’amministrazione
Clinton è quello di sicurezza multilaterale
(identificato con la figura del segretario di stato
aggiunto per gli affari esteri Tarnoff).
L'interpretazione stretta di questa dottrina vede gli
USA limitare l'uso della forza ad un contesto
multilaterale, salvo il caso in cui certi loro interessi
vitali siano messi in gioco. A seguito delle critiche
che hanno bersagliato l'amministrazione per il modo con
il quale sono state trattate le crisi in Bosnia e in
Somalia, Si è riscontrato uno spostamento a favore di
un concetto allargato di sicurezza multilaterale,
secondo il quale la multilateralità è un mezzo, non un
fine, e l'azione unilaterale non va esclusa in assoluto.
Legato al concetto di sicurezza multilaterale è
quello di indipendenza strategica. Se la dottrina del
contenimento esprimeva la volontà di impedire in
Eurasia il dominio di una potenza egemone, ora -
restando fermo questo obiettivo strategico - l'America
rinuncerebbe ad agire in prima persona e punterebbe a
mantenere una situazione di equilibrio fra potenze a
livello globale e a livello regionale; l'indipendenza
strategica degli USA consisterebbe nel poter sfruttare
la rivalità fra le altre potenze potendo beneficiare
dei vantaggi geopolitici derivanti dall'insularità,
dalla lontananza dal teatro dei conflitti, dalla
superiorità militare e nucleare.
In questa riedizione della teoria dell'equilibrio
delle forze, Henry Kissinger precisa che gli USA non
potranno più fare fronte contemporaneamente a tutte le
situazioni di crisi potenziale: si impone una selezione.
Nell'interventismo selettivo di Kissinger, alcune crisi
potranno esigere un intervento unilaterale dell'America,
altre richiedere un'azione soltanto multilaterale, altre
ancora non meritare alcun tipo di intervento militare.
In questa prospettiva viene meno, in quanto
irrealizzabile nel nuovo contesto mondiale, l'intento di
costituire un ordine globale fondato sugli interessi
Americani (la cosiddetta "Pax Americana"); il
ruolo dell'America viene così a rassomigliare a quello
dell'Inghilterra nel XIX secolo
Questa concezione viene ripresa e rafforzata dalla
riflessione di Zbigniew Brzeszinski. Il concetto di
impegno globale selettivo (global selective commitment)
riassume per gli USA
• il possibile scollamento fra i propri
interessi in politica estera e quelli dei tradizionali
alleati
• il mantenimento del ruolo di principale polo
di dissuasione nucleare
• il mantenimento di vantaggi militari
(aviazione, marina) su alleati e non
• l'impegno selettivo e proporzionato in forme
variabili di cooperazione su scala regionale (la NATO
essendo l'esempio classico)
A questo indirizzo - che l'amministrazione Clinton
ha fatto proprio - si coniuga quello di allargamento
della "comunità liberale".
Alcuni autori di questa corrente di pensiero hanno
apertamente candidato la supremazia economica al ruolo
primario, ricacciando in secondo piano sicurezza e
diffusione di valori (si pensi in proposito alla rapida
riconversione della CIA - o per lo meno delle sue
strutture "evidenti" - allo spionaggio
economico). Alla bipolarità del mondo della guerra
fredda si sostituirebbe una tripolarità - USA, Europa e
Giappone - di superpotenze economiche. Una concezione
funzionale all'urgenza di mantenere i mercati esteri
aperti alla concorrenza e agli investimenti Americani.
In questo contesto, la promozione di sistemi di
leadership collettiva - collettiva, beninteso, ma
rigidamente controllata dagli USA - diventa un obiettivo
primario da promuovere; pena l'emergenza di blocchi
regionali sempre più "chiusi" all'influenza
del capitale a stelle e strisce.
Il segretario di stato Warren Christopher nel 1992
ha affermato che la "sicurezza economica"
rappresenta l'obiettivo primario di politica estera
dell'amministrazione Clinton. Il segretario di stato
aggiunto Strobe Talbott nel 1994 ha parlato di
"diplomazia per una competitività globale" -
che cosa intenda con questa definizione, lo ha chiarito
perfettamente lo stesso Strobe Talbott: stare in guardia
affinché i nuovi raggruppamenti economici regionali non
si pongano obiettivi contrastanti con i famosi interessi
superiori degli Stati Uniti. L'Unione Europea - fra gli
altri - è avvertita.
L’America come Big Corporation che deve
sfruttare una temporanea posizione di forza sul mercato
per plasmarlo e trasformarlo ai propri fini. E’ quanto
suggerisce in The Reluctant Sheriff (1997)
Richard Haas, maître à penser della Brookings
Institution, ed ex consigliere di Bush: "Obiettivo
della politica estera americana deve essere operare, con
gli altri attori che condividono le stesse idee, a
migliorare il funzionamento del mercato e a rafforzare
il rispetto dele sue regole fondamentali. Con il
consenso, se possibile, con la forza, se
necessario". Non il Gendarme del Mondo, impegnato
24 ore su 24 a combattere i cento Imperi del Male, ma lo
Sceriffo, che – quando la situazione rischia di
divenire incontrollabile – raccoglie in fretta
volontari e mercenari e parte alla volta di una
spedizione punitiva.
Ci ricorda qualcosa?
4.
Abbiamo voluto dedicare un paragrafo a parte a Samuel
Huntington. Il saggio dal titolo The Clash of
Civilizations? - con tanto di punto interrogativo -
apparve nel bimestrale Foreign Affairs nell'estate del
1993. L'approfondimento della questione - e la scomparsa
del punto interrogativo - viene tre anni dopo con il
volume The Clash of Civilizations and the New World
Order. Il nucleo dell'argomentazione, rispetto al
tema che qui ci interessa, è esposto all'inizio del
settimo capitolo:
"L'ordine instaurato all'epoca della guerra
fredda fu il prodotto del dominio delle due superpotenze
sui rispettivi blocchi e dell'influenza da essi
esercitata sul Terzo Mondo. Nel mondo emergente, il
concetto di potenza globale è ormai obsoleto, il
villaggio globale un sogno. Nessun Paese, neanche gli
Stati Uniti, vanta significativi interessi di sicurezza
su scala globale. Gli elementi costitutivi dell'ordine
internazionale in un mondo più complesso ed eterogeneo
quale quello odierno, vanno individuati all'interno
delle singole civiltà e nelle interazioni fra queste.
Il mondo sarà ordinato in base alle civiltà o non lo
sarà affatto. Al suo interno, gli stati guida delle
diverse civiltà prendono il posto delle superpotenze,
si ergono a tutori dell'ordine all'interno delle
rispettive civiltà e, tramite il negoziato con gli
altri stati guida, nei rapporti fra esse. ... Uno stato
guida può svolgere la sua funzione di tutore
dell'ordine perché gli stati membri lo considerano
culturalmente affine. ... Laddove sono presenti, gli
stati guida rappresentano l'elemento cardine del nuovo
ordine internazionale fondato sulle civiltà".
E qui il discorso ci riguarda da vicino. Qual è
infatti la "nostra" civiltà secondo
Huntington?
"Durante la guerra fredda gli Stati Uniti
erano al centro di un ampio e variegato gruppo di Paesi
accomunato dall'obiettivo di impedire l'ulteriore
espansione dell'URSS. Questo gruppo, variamente
denominato Mondo libero, Occidente o Alleati,
comprendeva molte ma non tutte le società occidentali,
Turchia, Grecia, Giappone, Corea, Filippine, Israele ...
Con la fine della guerra fredda ... l'Occidente
multiculturale della guerra fredda si riconfigura in un
nuovo raggruppamento più o meno coincidente con la
civiltà occidentale".
La violenza alla geopolitica operata da Huntington
è strumentale all'azzeramento di ogni differenza fra il
mondo anglosassone e la civiltà europea in un concetto
di civiltà occidentale che assorbe la seconda nel
primo.
Fin qui, l'esito dell'analisi è sconcertante, ma
efficace sul piano della teorizzazione del ruolo egemone
degli USA e dell'alleato britannico sull'Europa.
E' quando l'autore cerca di forzare la realtà nei
suoi schemi che emergono le incongruenze più evidenti
ma anche più interessanti.
Definiti i conflitti di faglia (fault-line
conflicts) come "conflitti fra stati limitrofi
appartenenti a gruppi di civiltà diverse che vivono in
seno ad una stessa nazione" - in opposizione ai
conflitti fra stati guida che coinvolgono gli stati
principali delle diverse civiltà - Huntington passa ad
esaminare in questa chiave i principali scontri degli
anni '80 e '90.
Vediamo il caso di maggiore interesse. Qui -
ricordiamolo, siamo nel 1996 - Huntington si riferisce
alla guerra di Bosnia, ma l'argomentazione è
perfettamente applicabile al conflitto del Kosovo.
In una guerra di faglia agirebbero attori di primo
livello (nel caso bosniaco, i contendenti serbi e
croati, oltre ai bosniaci stessi), di secondo livello (i
governi delle tre popolazioni coinvolte), e di terzo
livello, per lo più i rappresentanti delle rispettive
civiltà- - in questo caso Germania, Austria, Vaticano,
stati e gruppi cattolici europei al fianco della
Croazia, Russia, Grecia e altri Paesi e gruppi ortodossi
al fianco della Serbia, e - al fianco dei bosniaci -
diversi stati Islamici e... gli Stati Uniti d'America!
Si tratta di una "parziale eccezione",
ammette Huntington, di "un'anomalia", che
potrebbe essere spiegata come un errore
dell'amministrazione Clinton, troppo condiscendente
verso le "forti pressioni dei suoi amici nel mondo
musulmano".
Un'anomalia tanto poco anomala da ripetersi, come
un perfetto copione, nel caso dell'aggressione
angloamericana alla Jugoslavia che ha avuto come
pretesto la questione del Kosovo.
Curiosamente, questa raffinata concezione teorica
finisce per demolire gli stessi presupposti sui cui
vorrebbe fondarsi... oppure?
Oppure, ancora una volta, c'è qualcosa che non si
voleva ancora dichiarare apertamente - forse quella
concezione di "Third American empire" avente i
Balcani come territorio conteso, pubblicizzata da
Michael Lind e Jacob Heilbrunn nel gennaio 1996
(Washington Post). Allora sì, diviene comprensibile
come gli USA possano presentarsi come "attori di
terzo livello" - o come padrini mafiosi, fuor di
metafora - di uno "pseudo Islam" cui è
affidato il ruolo di cuneo, a vietare la ricomposizione
di un grande spazio europeo.
5.
Due parole a mo' di conclusione. E' tempo di
rimettere la realtà sui piedi. Come l'isolazionismo
degli USA in politica estera non è mai esistito,
riducendosi alla preferenza - nel periodo fra le due
guerre - per i metodi indiretti basati sulla coercizione
economica e sulla manipolazione diplomatica - e quindi
è una finzione l'appello ad un supposto
neo-isolazionismo - allo stesso modo l'urgenza di
contrastare un declino che si annuncia irreversibile,
sul piano politico, diplomatico, economico, militare,
svuota di ogni contenuto di "disimpegno"
l'interventismo pratico e selettivo: dietro la maschera
dell'America garante della "sicurezza
multilaterale" e degli equilibri regionali, sta
l'organizzazione sistematica della destabilizzazione
diplomatica, politica, finanziaria e militare a livello
mondiale - a partire dal "cuore del mondo",
dal continente eurasiatico.
Qui sta il significato storico della guerra di
Jugoslavia.
Ma, se in ogni menzogna si nasconde un briciolo di
verità, allora siamo debitori a Huntington di una
lezione preziosa. In un mondo nel quale saranno sempre
più le civiltà, nel loro reciproco rispettarsi,
comprendersi e coesistere, a produrre senso, di fronte
all'assenza di senso della globalizzazione, gli USA e i
loro omologhi in terra d'Albione sono davvero
un'anomalia che deve scomparire.