Le cronache quotidiane che ci provengono dal Medio Oriente e che riempiono di
orrore le pagine dei media, si sono recentemente arricchite di un nuovo
elemento: la minaccia di alcuni Stati produttori di petrolio di tagliare i
rifornimenti ai paesi occidentali rei, a loro giudizio, di sostenere Israele
nell’occupazione dei territori. Tali minacce, che hanno allarmato
profondamente cancellerie e borse finanziarie di mezzo mondo, sono state accolte
in modi diversi. Si va dalla reazione di
Condoleeza
Rice, National Security Advisor del presidente Bush, per la quale “sarà
dura per i paesi arabi mangiarsi il loro petrolio”, a quelle meno estemporanee
di esperti come
Edward N. Luttwak e Strobe Talbott, i quali hanno fatto notare
che l’utilizzo della cosiddetta “arma del petrolio” - e cioè il taglio
dei rifornimenti petroliferi e di gas ai paesi occidentali - potrebbe derivare
non da una conscia azione delle élites dei governi arabi, troppo deboli,
corrotti, e in genere profondamente legati all’Occidente da una pletora di
interessi economici e politici, ma come conseguenza del loro crollo causato da
problemi interni, quali rivolte e pesanti manifestazioni di piazza e/o
recrudescenza del
terrorismo islamico. L’amministrazione americana si è
fidata troppo dell’opinione del noto esperto di cose mediorientali, lo storico
Bernard
Lewis, il quale sostiene che tale eventualità è scarsa e remota in quanto
la tenuta del potere delle élites arabe è solida come non mai. L'analisi di
Lewis, giusta forse da un punto di vista storico-politico, sembra non tenere
conto della delicatezza del momento economico e della fragilità delle riforme
intraprese da poco più di una decade.
Gli esperti concordano che la regione mediorientale, con l’esclusione di
Israele, si sta progressivamente distaccando dall’economia globale. Per tutti
gli anni Novanta la regione è cresciuta a meno della metà del tasso degli
altri paesi in via di sviluppo. Il commercio estero è cresciuto in proporzione
ancora minore. Inoltre, la sua percentuale degli export mondiali è passata dal
3,1% del 1990 all’1,9% del 1999. A causa della mancanza di fiducia nelle
infrastrutture economiche domestiche la regione mediorientale detiene la più
alta percentuale di ricchezze all’estero del mondo, con circa 350 miliardi di
dollari che percepiscono interessi all’estero invece che nelle istituzioni
bancarie domestiche. Aggiungiamo un basso standard di vita, comparabile a quello
di molti paesi dell’Africa subsahariana, un tasso di crescita della
popolazione pari al 2,4% e una disoccupazione già fortissima e crescente, per
avere un quadro - seppur parziale - della difficoltà economica nella quale si
dibattono la maggior parte dei paesi arabi.
L’
Arabia Saudita,
per esempio, si trova in un momento di transizione a dir poco drammatico. Il
petrolio contribuisce ancora per un terzo alla formazione del Pil e per il 70%
alle entrate di bilancio. Riad pompa oggi circa 8 milioni di barili al giorno
– l’11% di tutta la produzione mondiale, il 30% di quella OPEC - ed è
teoricamente in grado di produrne di più. E’ evidente come l’economia
dipenda ancora in maniera pesante dal petrolio. La casa regnante saudita si è
impegnata a ridurre tale dipendenza attraverso una serie di riforme ed
investimenti per spingere lo sviluppo di settori alternativi e privati. Il nuovo
piano quinquennale cerca di spingere settori quali quello dell’industria
petrolchimica e dei minerali solidi, quello dell’industria manifatturiera e
delle infrastrutture sociali. Il settore privato, in base al piano, dovrebbe
crescere di oltre il 5% l’anno, ma sinora non è riuscito ad andare oltre il
2,5. Forti investimenti sono previsti anche nel settore educazione e formazione
professionale. Tuttavia, gran parte del fabbisogno finanziario per questi
progetti proviene dai proventi del petrolio. In realtà, l’economia Saudita
sta andando a rotoli. Lo Stato si trova a corto di liquidità, ha accumulato
debiti per oltre 200 miliardi di dollari, di cui 170 miliardi di debito interno
e 30 miliardi di debito estero. Solo per il servizio del debito, lo Stato versa
annualmente 10 miliardi di dollari. Inoltre spende tra i 10 e i 12 miliardi di
dollari annui per delle commesse di armi già stipulate e per le spese della
difesa. Tenuto conto delle ingenti spese della famiglia reale e dei vari
principi, di tangenti e altre amenità, gli esperti calcolano che di fatto
rimangono tra gli 8 e i 15 miliardi di dollari per la gestione dello Stato.
Decisamente troppo poco per sopperire ai fabbisogni di una popolazione di circa
20 milioni di abitanti. Infatti il Regno ha visto la sua economia crescere di
poco più dell’1% negli ultimi 10 anni a fronte di un incremento demografico
del 4% annuo, ed un relativo tasso di disoccupazione, tra la popolazione
maschile, che ha oggi raggiunto la ragguardevole cifra del 25-30%. Il
malcontento interno è alle stelle, così come la popolarità dei predicatori
islamisti. Ecco che il paese si trova stretto in una tenaglia: da un lato
l’impossibilità del governo di agire contro l’Occidente, sua prima fonte di
sostentamento; dall’altro, data la fragilità dell’economia e della
politica, sarebbe un errore non tenere conto delle spinte interne verso il
confronto anti-Occidente, come affermano Luttwak e Talbot tra gli altri.
Molto simile a quella Saudita è la
situazione
algerina, paese devastato da una terribile guerra civile e alle prese con un
tentativo di ricostruzione economica. L’Algeria è infatti interamente
dipendente dall’export di petrolio e gas. Più del 50% degli introiti del
governo derivano dalla vendita dei prodotti petroliferi. L’importanza del
petrolio per la sopravvivenza dell’economia algerina è pertanto assoluta. Ma
anche qui, come per l’Arabia Saudita, gli introiti del petrolio sembrano non
essere più sufficienti a mantenere il controllo di una situazione interna
esplosiva, non solo per l’effetto della guerriglia islamica, oggi perlopiù
sotto controllo, ma proprio per il deteriorarsi della situazione economica,
crescita economica del 3%, incremento demografico del 4%, disoccupazione al 30%
, inflazione al 10% e così via. Il governo algerino si trova sempre più in una
condizione di dipendenza economica che ne limita di molto il movimento.
Pertanto, anche nel caso dell’Algeria, la minaccia di usare l’arma del
petrolio a sostegno della lotta dei fratelli palestinesi, resta tale e non ha
alcuna chance di diventare realtà operativa, a meno che, come affermato sopra,
a causa delle fragilità economiche del momento, si venga a creare nel paese una
situazione insostenibile che potrebbe portare ad un rovesciamento del regime
militare e all’ascesa, come da tempo sostiene l’analista della Rand Graham
Fuller, di un regime fondamentalista. Inoltre, anche se in molti paesi arabi nel
corso degli anni Ottanta e Novanta si è venuta creando una borghesia a tratti
anche intraprendente e dinamica, la realtà è che anche questo sviluppo è
legato alla compiacenza e collaborazione di un apparato statale sempre comunque
gigantesco, malgrado ogni tentativo di riforma.
Insomma, il vero rischio di scompaginare gli equilibri che attualmente
garantiscono l’Occidente da una crisi petrolifera è legato a un rovesciamento
dei regimi arabi. Evento che, dopo l’attacco terroristico dello scorso
settembre, non è però da sottovalutare. La
crisi
israelo-palestinese è venuta a frapporsi ad altre crisi, politiche ed
economiche, rendendo la congiuntura temporale incandescente. L’amministrazione
americana scherza con il fuoco pensando di poter continuare ad appoggiare la
politica israeliana e al tempo stesso preparare i piani per
attaccare l’Irak,
tutto ciò nella convinzione che la situazione politica negli altri Stati
dell’area rimanga stabile. E’ una scommessa pericolosa che potrebbe
compromettere non solo gli equilibri sempre precari del Medio Oriente, ma anche
destabilizzare la ripresa economica dei paesi occidentali.
24
aprile 2002
questo articolo è tratto da un elenco di documenti riguardanti i "neoconservatori" o "neocon" americani presenti sul sito di Fisica/Mente. Non rispecchia quindi necessariamente l'opinione del curatore del sito Kelebek. Fare clic qui per la pagina principale di questa parte del sito, dedicata ai neoconservatori.
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