CHI L'HA DETTO?
"Naturalmente la gente comune non vuole la
guerra: né in Russia, né in Inghilterra, né in Germania. Tutto quello che
dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per
mancanza di patriottismo in quanto espongono il Paese al pericolo"
(
CHI L'HA DETTO?
"La guerra all’Iraq non comporta un problema
morale. La terza guerra mondiale è necessaria per occidentalizzare il terzo e
quarto mondo"
Gustavo Selva, parlamentare di An
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Lista di paesi bombardati dagli USA dopo la seconda Guerra Mondiale.
Cina: 1945-46
Corea: 1950-53
Cina: 1950-53
Guatemala: 1954
Indonesia: 1958
Cuba: 1959-60
Guatemala: 1960
Congo: 1964
Perù: 1965
Laos: 1964-73
Vietnam: 1961-73
Cambogia: 1969-70
Guatemala: 1967-69
Granada: 1983
Libia: 1986
El Salvador: 1980
Nicaragua: 1980
Panama: 1989
Irak: 1991-99
Soudan: 1998
Afghanistan: 1998
Yugoslavia: 1999
In quanti di questi stati i bombardamenti hanno fatto sorgere un governo democratico e rispettoso dei Diritti dell'Uomo?
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Da un intervento alla Regione Emilia di un consigliere di Rifondazione Comunista
.....
La domanda a cui dovremmo rispondere è la seguente. La reazione americana all’attacco terroristico dell’11 settembre è la risposta agli attentati terroristici oppure è una accelerazione esponenziale – favorita dall’attentato terroristico – di una linea da tempo in gestazione ?
Assai prima dell’11 settembre, l’amministrazione americana aveva reso evidente il proprio obbiettivo strategico in campo internazionale: vincere la competizione globale economica e politica del 21° secolo, assicurare agli Stati Uniti una egemonia mondiale incontrastata, con una schiacciante superiorità tecnologico-militare, con l’uso spregiudicato e unilaterale di tale primato e, se necessario, con il ricorso alla guerra.
Questa "strategia del primato" è stata elaborata dal Pentagono già nel 1992 in un documento, Defense Policy Guidance 1992-1994, all’indomani della guerra del Golfo. Il documento esortava decisamente a (cito tesualmente) "impedire a qualsiasi potenza ostile il dominio di regioni le cui risorse consentirebbero di accedere allo status di grande potenza", a "dissuadere i paesi industriali avanzati da qualsiasi tentazione che miri a contestare la nostra leadership" e a "impedire l’ascesa di un futuro concorrente globale". Queste tesi furono successivamente riprese ed elaborate in un libro di Brezinski, "La grande scacchiera", tradotto in italiano dalla Longanesi, dove si precisa che il cuore della "partita per la supremazia globale è l’Eurasia, il continente più grande del globo, dove vive il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo, che incide per il 60% sul Pil mondiale e per tre/quarti sulle risorse energetiche conosciute. Il noto quotidiano italiano "Il Foglio", il 26 settembre scorso, citando uno dei maggiori esperti di geopolitica asiatica, Alessandro Grossano, titola: "L’Eurasia è il cuore della Terra, chi la prende possiede il mondo".
Per quale motivo gli Stati Uniti attribuiscono un peso così determinante alla supremazia militare nella competizione globale del 21° secolo ?
Nel 1945, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’economia americana incideva per il 50% sull’intero Pil mondiale. Oggi tale incidenza americana si è dimezzata, giungendo al 25%, quella dei paesi dell’Unione Europea è cresciuta a un livello equivalente, il 25%, mentre il solo Giappone si colloca all’11%. Secondo uno studio recente dell’Ocse, nel 2020 le tre maggiori entità del mondo capitalistico (Usa, Giappone e Unione europea) che oggi esprimono oltre il 60% del Pil mondiale, scenderebbero al 28% (gli Usa all’11%, il Giappone al 5%, l’Ue al 12%, la cosiddetta triade). Contestualmente, quelle che vengono considerate le cinque economie regionali emergenti (Cina, Russia, India, Brasile, Indonesia) – che oggi incidono complessivamente per il 20% sul Pil mondiale – crescerebbero fino al 35% (rispetto al 28 della triade).
Il quadro è dunque di un costante, inesorabile declino economico degli Stati Uniti non solo rispetto ad atri paesi emergenti ma anche rispetto ai tradizionali concorrenti del mondo capitalistico. Si comprende assai bene la ragione strategica che induce la parte più aggressiva dello Stato americano a fronteggiare e bilanciare il ridimensionamento della propria influenza sull’economia mondiale con il perseguimento di una schiacciante superiorità militare. Ha sintetizzato bene Giulietto Chiesa in un articolo del 25 settembre scorso: "Per preservare il potere e la ricchezza di cui dispongono, gli Stati Uniti sono pronti ad andare ad una guerra contro i restanti cinque sesti dell’umanità".
Dunque se vogliamo evitare di fare della propaganda e vogliamo invece elevare il nostro dibattito politico, dobbiamo riconoscere che è in questa politica imperialistica degli Stati Uniti d’America che risiedono le cause vere della guerra in corso e da qui vengono i pericoli non solo di una guerra regionale ma persino di una nuova guerra mondiale.
Per questo motivo dobbiamo non solo fermare i bombardamenti in corso ma anche impedire lo scatenamento di una nuova guerra mondiale. E questo si può fare, in questa fase storica, costruendo un mondo multipolare e dando i poteri all’ONU per essere l’unico strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
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E' necessaria una soluzione politica, non
militare Tariq Ali Qualche anno fa, durante un viaggio in Pakistan, parlai con un ex-generale a proposito dei guerriglieri islamici presenti in quella regione. Gli domandai perché questa gente, che era stata ben felice di ricevere fondi e armi dagli Stati Uniti all'epoca della guerra fredda, all'improvviso fosse diventata violentemente anti-americana. Mi spiegò che non era la sola. Molti ufficiali pakistani che avevano servito gli USA lealmente fin dal 1951 si sentivano umiliati per l'indifferenza di Washington. |
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Da Il Manifesto, 11 luglio 1999
A Political, Not a Military Solution is requiredNato, dopo la guerra in Kosovo, aggrega i paesi
turcofoni e anti-russi
- FABRIZIO VIELMINI * -
é passata inosservata nella stampa
nazionale degli ultimi giorni una dichiarazione del ministro della Difesa greco
Apostolos-Athanasios Tsokhatzopoulos riguardo un possibile risvolto militare
del vertice trilaterale fra il suo paese l'Iran e l'Armenia, che si terrà ad
Atene domani, 12 luglio. Tale ipotesi - che ha sollevato il panico fra gli
ultrà dell'atlantismo - subito rientrata in seguito alle smentite ufficiali
della diplomazia greca ed armena. La boutade del ministro greco è comunque
servita ad evidenziare una relazione in via di consolidamento - fra i tre paesi
negli ultimi due anni si sono susseguiti numerosi incontri, anche ministeriali,
che hanno approfondito la cooperazione economica e commerciale, costituito
commissioni congiunte nei sui trasporti, servizi postali, industria del turismo
e tecnologia. Solo apparentemente quest'asse trilaterale può apparire
paradossale. Esso costituisce al contrario un portato quasi automatico
dell'assetto delle relazioni internazionali fuoriscite dall'aggressione della
Nato alla Jugoslavija.
Dal punto di vista greco in particolare le ragioni alla base dell'intesa
appaiono perfettamente logiche. In seguito all'aggressione euro-anglo-americana,
Atene si ritrova confinante con una Grande Albania che la Turchia sta
strutturando in modo che diventi il braccio settentrionale di una tenaglia
pronta a chiudersi sui greci - la Turchia partecipa all'ammodernamento della
base navale di Pasaliman, ufficiali turchi insegnano all'Accademia navale di
Valona, incursori dei reparti d'élite di Ankara addestrano la Guardia
Repubblicana albanese, mentre il gen. D. Bak, Alto responsabile della logistica
turca, ha dichiarato il 18 giugno in un incontro con lo Stato maggiore albanese
che che la coperazione militare con Tirana resta fra le priorità di Ankara (per
citare i soli fatti divenuti di dominio pubblico).
Bisogna inoltre considerare come Stati Uniti e grande capitale europeo
favoriscano il potenziamento del narco-stato albanese affinchè divenga uno dei
terminali occidentali del grande corridoio di trasporti ed oleodotti conosciuto
come "via della Seta del XXI secolo". Ora, da tale azzardata
operazione geo-economica l'economia greca non ricaverà alcun vantaggio
rimanendone totalmente bypassata.
Già all'alba della dissoluzione dell'Unione Sovietica, la nuova posizione
geopolitica dell'Armenia aveva attirato l'attenzione della Grecia (un attaché
militare di Atene è presente a Erevan dal 1992, mentre dal 1996 un accordo di
cooperazione militare unisce i due paesi). Ogni intesa fra Iran e Grecia
costituisce musica per le orecchie dell'Armenia: il portato automatico di tali
intese è l'aumento del valore strategico di Erevan che, oltre ad essere un
elemento fondamentale della politica estera russa, diviene lo snodo necessario
dei contatti fra Iran ed Europa. Per gli armeni è poi fondamentale premunirsi
da che il contenzioso con l'Azerbaijan - tappa fondamentale della "via
della seta" e beniamino di Washington ed Ankara - nel Nagorno-Karabakh,
sempre aperto e sanguinoso dall'inizio del decennio, non venga utilizzata da
turchi ed americani per qualche bombardamento "umanitario" nel
Caucaso.
Infine dal punto di vista di Tehran, l'accordo permette al paese di
ammorbidire il proprio isolamento internazionale e di sporgersi in direzione di
Bruxelles nella speranza che anche il resto dell'Europa riveda la posizione nei
suoi confronti.
é poi interessante notare come i tre paesi abbiano cercato di rendere
partecipe della loro intesa anche la Georgia. Tuttavia, l'oligarchia di
Shevarnadze è per il momento fermamente intenzionata a trasformare il paese in
un vassallo di Washington attraverso il cosidetto blocco regionale del
"GUUAM" - acronimo delle iniziali dei suoi partecipanti Ukraina,
Uzbekistan, Azerbaijan e Moldavia.
Insieme ad etno-nazionalisti, islamisti e narcotrafficanti, tali stati sono
le principali pedine Usa sulla "grande scacchiera" eurasiatica
teorizzata da Zbigniew Brzezinski (già consigliere di Kissinger, ed attuale maitre-à-penser
della geopolitica angloamericana). Nella visione di Brezinski, sempre di gran
voga al dipartimento di Stato, qualsiasi mezzo è giustificato dall'esigenza
vitale del controllo della grande massa continentale fra Europa e Pacifico da
perte dell""ultimo impero universale". A tal scopo Brezinski ha
riunito gli autocrati alla testa dei citati stati a margine del summit Nato di
Washington. Sotto l'elegante paravento della "via della seta", l'oggetto
delle discussioni è stato come spiazzare completamente la Russia dai suoi
interessi vitali in Eurasia.
Oltre che una sfida diretta all'arroganza della Nato, l'intesa fra Armenia,
Iran e Grecia riflette la presa di coscienza dei tre stati, tradizionali
alleati dei russi, delle conseguenze derivanti dal sucesso di tali manovre.
Tali rialinneamenti non hanno per niente l'aria di poter passare in modo
indolore ed è su questo piano che dobbiamo misurare gli effetti della nuova
strategia americana in Eurpaa, altrettanto perniciosi ed interconnessi al vaso
di Pandora delle rivendicazioni etniche susseguite alla secessione de facto del
Kosovo. Completamente sfalsata dal tiro incrociato delle lobbies, la politica
Usa crea una serie di distorsioni che retroagiscono sui propri progetti.
Innanzi a ciò i primi a mobilitarsi sono i grandi stati multietnici quali
l'Iran - senza dimenticare Cina, India e Russia - sempre più minacciati dal
nuovo scenario di proliferazione dei micronazionalismi e degli estremismi religiosi.
Ne risultano queste nuove ed ardite alleanze che, al di là della forte
eterogeneità, cercano disperatamente di stabilizzare il quadro regionale.:
Grecia ed Armenia comprendono perfettamente che la politica estera iraniana ha
da tempo saltato il fosso dell'attivismo islamista per posizionarsi su una
visione pragmatica e razionale, attenta agli interessi nazionali.
A margine della "nuova via della Seta" converrebbe infine
interrogarsi su quali vantaggi l'Europa dei mercanti, sempre più incapace di vedere
ciò che la distrugge, pensi di ricavare dall'affidare l'approvvigionamento
delle prprie risorse ad una nebulosa di stati para-fascisti, mafie etniche e
narcotrafficanti, oltretutto totalmente antieconomico in virtù del percorso
tortuoso inframmezzato. Se tutto ciò può essere considerato normale da parte di
una nazione che ha costruito la propria posizione mondiale sulle aggressioni ed
il gangsterismo, dovrebbe al contrario provocare qualche reazione più
consistente in un'Europa sempre più "discarica" di questo degrado
criminale.
* Esperto di Asia centrale dell'Observatoire Géopolitique des drogues,
Dottorato di ricerca presso l'EHESS (Centro di storia del mondo turco), di
Parigi. Collaboratore di "NarcoMafie" e "LiMes".
La guerra
La "grande scacchiera" e la guerra della Nato
Fausto Sorini
Liberazione
5 giugno 1999
"La grande scacchiera" è il titolo di un recensissimo libro di
Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente
Carter, una delle teste pensanti della politica estera degli Stati Uniti. Esso
espone, con esemplare chiarezza e senza infingimenti "umanitari", il
quadro strategico globale entro cui collocare e comprendere le ragioni
essenziali dell'aggressione della Nato alla Repubblica Federale Jugoslava,
fortissimamente voluta dagli Stati Uniti.
"Il crollo dell'Unione Sovietica - scrive l'autore - ha fatto sì che
gli Stati Uniti diventassero la prima e unica potenza veramente globale, con
una egemonia mondiale senza precedenti e oggi incontrastata. Ma continuerà ad
esserlo anche in futuro? Per gli Stati Uniti, il premio geopolitico più
importante è rappresentato dall'Eurasia, il continente più grande del
globo", che "occupa, geopoliticamente parlando, una posizione
assiale, dove vive circa il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata
gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo.
Questo continente incide per circa il 60% sul PIL mondiale e per 3/4 sulle
risorse energetiche conosciute ... L'Eurasia - sintetizza Brzezinski - è quindi
la scacchiera su cui si continua a giocare la partita per la supremazia
globale".
"Ma se la Russia - prosegue l'autore - dovesse respingere l'Occidente,
diventare una singola entità aggressiva e stringere un'alleanza con il
principale attore orientale (la Cina) ", e con l'India, "allora il
primato americano in Eurasia si ridurrebbe sensibilmente". E così pure se
i partner euro-occidentali, soprattutto Francia e Germania, "dovessero
spodestare gli Stati Uniti dal loro osservatorio nella periferia
occidentale" (così viene definita l'area dell'Unione Europea), "la
partecipazione americana alla partita nello scacchiere eurasiatico si
concluderebbe automaticamente".
Quindi, conclude Brzezinski, "la capacità degli Stati Uniti di
esercitare un'effettiva supremazia mondiale dipenderà dal modo con cui sapranno
affrontare i complessi equilibri di forza nell'Eurasia: e la priorità deve
essere quella di tenere sotto controllo l'ascesa di altre potenze regionali
(predominanti e antagoniste) in modo che non minaccino la supremazia mondiale
degli Stati Uniti".
"Per usare una terminologia che riecheggia l'epoca più brutale degli
antichi imperi, tre sono i grandi imperativi della geo-strategia imperiale:
impedire collusioni e mantenere tra i vassalli la dipendenza in termini di
sicurezza, garantire la protezione e l'arrendevolezza dei tributari e impedire
ai barbari di stringere alleanze".
Gli Stati Uniti vogliono in primo luogo evitare che in Russia si affermi un
potere politico influenzato dai comunisti, avverso al liberismo selvaggio che
ha precipitato il Paese nella crisi più nera e volto a ristabilire una collocazione
internazionale della Russia non subalterna all'Occidente. Per questo il deposto
premier Primakov era ed è considerato un avversario temibile: è sostenuto da
una Duma dominata dai comunisti, sorretto da un consenso popolare dell'80%,
favorito alle elezioni presidenziali dell'anno prossimo, mentre il consenso
degli uomini di fiducia degli Stati Uniti, come Eltsin e Cernomyrdin è
precipitato al 5-10%. Anche per questo Eltsin lo ha destituito (rendendo ormai
drammatico il fossato tra paese reale e paese "legale", ai limiti di
uno scontro interno che potrebbe precipitare in forme drammatiche), dopo
avergli sottratto il dossier "guerra in Jugoslavia" per affidarlo a
Cernomyrdin. In modo che l'eventuale successo di una mediazione diplomatica russa
avvenga su una linea più docile alle volontà della Nato, e che sia il nucleo
eltsiniano (e non Primakov e la sua squadra) a trarne i maggiori benefici di
immagine, in vista delle prossime scadenze elettorali in Russia.
Gli Usa vogliono inoltre favorire una evoluzione della Cina per cui le forze
espressione di una nuova borghesia interna legata al mercato internazionale
(che auspica un legame preferenziale e docile con gli Stati Uniti) prendano
gradualmente il sopravvento sulle forze sociali e politiche che restano legate
a un progetto originale e inedito di lunga transizione al socialismo, con una
economia mista in cui il pubblico resti comunque prevalente sul privato. Il
bombardamento pianificato dell'ambasciata cinese a Belgrado, era certo un test
per vedere fino a che punto la Cina era in grado di assumere sulla guerra in
Jugoslavia un profilo forte e autonomo dagli Usa e la reazione degli studenti
cinesi (da molti considerati ormai succubi del modello americano) è stato un
segnale più che incoraggiante di tenuta di un orientamento antimperialista, di
dignità nazionale, di autonomia di valori, che parla alle nuove generazioni del
mondo intero. Ma quelle bombe si proponevano, da parte dei fautori della guerra
totale contro la Jugoslavia, anche l'obbiettivo di inasprire le relazioni
internazionali e rendere impossibile in sede Onu una risoluzione ragionevole e
negoziata (non imposta dalla Nato) tra tutte le parti in causa del conflitto
balcanico.
Anche sull'India, potenza nucleare, gli Usa premono per sottrarla alla sua storica
collocazione di non allineamento, che conserva forti radici nel Paese, per
imporle una linea di privatizzazioni selvagge e di smantellamento del ruolo
dello Stato in economia (tuttora consistente) e omologarla al modello
neo-liberale.
In Europa si cerca di impedire che si affermi un modello sociale diverso da
quello neo-liberale ed un sistema di sicurezza alternativo alla Nato e alla
tutela americana sull'Europa. Tanto più se ciò dovesse prefigurare un quadro di
cooperazione economica, politica e militare di tutta l'Europa, dall'Atlantico
agli Urali, passando per i Balcani. Il che configurerebbe una entità economica
geopolitica e di sicurezza di prima grandezza nel panorama mondiale e
scalzerebbe l'influenza predominante degli Usa sul vecchio continente. Proprio
Primakov è stato e rimane uno dei più convinti assertori di questo asse
Russia-Unione Europea ad Ovest, e di un altro asse Russia-Cina-India ad
oriente, che marcherebbero una evoluzione multipolare degli assetti planetari e
degli stessi rapporti in seno alle Nazioni Unite, minando il progetto americano
di egemonia globale unipolare, che comporta invece l'affossamento dell'Onu e la
trasformazione della nuova Nato a guida americana in regolatore supremo di ogni
controversia internazionale.
Sul solo terreno della competizione economica l'imperialismo americano non è
in grado oggi di dominare il mondo e di subordinare i suoi stessi
alleati/concorrenti come Unione Europea e Giappone. Gli Usa incidevano nel
dopoguerra per il 50% del PIL mondiale: oggi la percentuale si è dimezzata, ed
è di poco inferiore a quella dell'Unione Europea. Spostare la competizione sul
terreno militare, dove la potenza Usa è ancora di gran lunga preponderante,
significa usare la guerra come strumento di egemonia economica e politica.
Anche contro l'Europa: costringendola a subire l'iniziativa e
l'interventismo anglo-americano o ad entrare nel gioco della grande spartizione
delle zone di influenza, ma in posizione subalterna. Come appunto è avvenuto
con questa guerra.
Siamo partiti, in apparenza, da lontano, ma la conclusione è sintetica e ci
tocca da vicino. Il controllo dei Balcani è strategico nella competizione per
il controllo dell'Eurasia. I Balcani sono storicamente la porta per l'Oriente;
da lì passano oggi oleodotti e gasdotti che trasportano le vitali risorse
energetiche tra Europa e Asia. Nella contigua regione del Mar Caspio, del Mar
Nero, del Caucaso gli scienziati stimano esservi giacimenti di petrolio e di
gas naturale tra i maggiori del mondo. L'allargamento della Nato ad Est si
propone di inglobare gradualmente tutti i paesi dell'Europa centro-orientale e
dei Balcani, incluse le repubbliche europee dell'ex Unione Sovietica, per farne
un grande protettorato atlantico: per controllarne le risorse e circondare una Russia
non ancora "normalizzata" e dal futuro incerto. Mentre all'altro capo
del continente eurasiatico, proprio in queste settimane, è andata
strutturandosi una "Nato asiatica", che comprende, in un sistema
militare e di "sicurezza" integrato, gli Stati Uniti, il Giappone, la
Corea del Sud e strizza l'occhio a Taiwan, cui si assicura
"protezione".
Che cosa accadrebbe domani se gli Stati Uniti decidessero di dare vita ad
una nuova UCK in Cecenia, in Daghestan; in Tibet o magari a Taiwan?
La Jugoslavia rappresentava, agli inizi degli anni '90, un ostacolo alla
normalizzazione dei Balcani. Facendo leva su processi disgregativi interni e
ataviche tensioni etniche e nazionali, alimentate dalla crisi dell'esperienza
socialista jugoslava (che richiederebbe un discorso a parte), la Germania prima
e gli Usa poi hanno spinto per la disintegrazione del paese (attizzare il
fuoco, disgregare, per poi intervenire, assumere il controllo, colonizzare). Da
qui la secessione della Slovenia, della Croazia, della Macedonia, della Bosnia,
e la trasformazione dell'Albania in una grande base Nato nel Mediterraneo.
Restava ancora da spappolare la Repubblica Federale Jugoslava, e soprattutto
l'indocile Serbia. Così fu aperto il dossier Kossovo, dove certo non mancavano
i presupposti per gettare benzina sul fuoco. E dove la parte più estrema del
nazionalismo serbo, con forti appoggi nel governo di Belgrado, aveva
colpevolmente contribuito ad esasperare i rapporti con la popolazione kossovara
di origine albanese: a sua volta sospinta dall'UCK, armata dagli americani, a
precipitare la regione nella guerra civile, per poi invocare l'intervento
"liberatore" della Nato.. Ma questa è storia dei giorni nostri; anzi,
cronaca.
Un talebano val bene l'URSS
Dal libro più importante di Zbygniew Brzezinsky
consigliere di Jimmy Carter, capo degli strateghi USA, "creatore"
dei Mujaheddin in funzione antisovietica.
La grande scacchiera
Petrolio: la posta in gioco Da mesi ormai l'economia internazionale - e l'area europea soprattutto - sta
facendo i conti con l'escalation dei prezzi petroliferi. 1. Una prima chiave di lettura
offerta in pasto alle opinioni pubbliche in questi mesi, sostiene che la colpa
dei paesi produttori che hanno tagliato la produzione e dunque alzato i prezzi.
I paesi petroliferi sono fortemente indebitati e un aumento dei prezzi gli
consentirebbe di riequilibrare la bilancia commerciale e ridurre il debito
estero accumulato. In questa chiave lettura c'é una parte di verità e una
menzogna: quest'ultima é fondamentale. I
maggiori produttori mondiali di petrolio (1)
1994
1997
2000
Arabia Saudita*
8.96
8.88
8.50
Stati Uniti
8.35
8.29
8.06
Russia
6.38
6.20
7.99**
Iran*
3.60
3.70
3.65
Messico
3.26
3.06
3.61
Cina
2.90
2.99
3.23
Norvegia
2.75
2.99
3.26
Venezuela*
2.67
2.84
2.93
Gran Bretagna
2.67
2.75
2.73
Emirati Arabi Uniti*
1.58
1.57
1.31
Libia*
1.41
1.41
1.43
(fonte: Economist Intelligence
Unit) (fonte: AIE)
(1) Nelle graduatorie internazionali, a causa dell'embargo, continua ad
essere escluso l'Iraq che però ha capacità produttive superiori all'Arabia
Saudita Petrolio
Gas naturale
Carbone
Stati Uniti
Stati Uniti
Cina
Giappone
Russia
Stati Uniti
Cina
Ucraina
India
Russia
Germania
Russia
Germania
Canada
Germania
Corea del Sud
Gran Bretagna
Giappone
Italia
Giappone
Sudafrica
Francia
Italia
Polonia
Canada e Gran Bretagna
Uzbekistan
Gran Bretagna
Messico
Arabia Saudita
Ucraina
(dati del 1998 dell'Economist
Intelligence Unit)
I paesi petroliferi (siano essi membri dell'OPEC o no) hanno indubbiamente
tratto dei vantaggi dall'aumento dei prezzi del petrolio, ma tali vantaggi sono
equivalenti o inferiori a quelli delle grandi compagnie multinazionali che
gestiscono la parte del ciclo petrolifero che produce maggior valore aggiunto
cioé quella successiva alla fase della mera estrazione della materia prima. 2. Una seconda chiave di
lettura addossa la responsabilità della crisi ad un "eccesso di
domanda" dei prodotti petroliferi dovuta alla ripresa economica dei paesi
asiatici dopo il crack del '97 e a quella dei paesi europei dopo la stagnazione
degli anni di Maastricht. La domanda mondiale di petrolio Significative in questo senso sono le previsioni dell'Outlook dell'Agenzia
Internazionale per l'Energia avanzate a metà degli anni '80 e cioè all'indomani
delle due maggiori crisi petrolifere ('73 e '79) ed in piena guerra del Golfo
tra Iran e Iraq (3). 3. La terza chiave di lettura
assegna alla speculazione finanziaria il boom dei prezzi petroliferi che
verrebbero fissati non più sulla base dei costi di produzione, raffinazione,
distribuzione, ma sulle "scommesse" (i famosi futures) che ormai
sembrano dominare i mercati finanziari mondiali, sempre più simili ad un casinò
e sempre più lontani dall'economia reale. Le chiavi di lettura presentate antecedentemente, contengono buona parte
della verità sulla recente escalation petrolifera, ma in queste occorre portare
alla luce un manovratore soggettivo: gli Stati Uniti. Chi controlla il mercato del petrolio
La situazione Paese di "riferimento"
I grandi gruppi prima delle fusioni del 1999
Paese di "riferimento"
Exxon
Stati Uniti
Exxon
Stati Uniti
Royal
Dutch Shell Olanda-Gran Bretagna Mobil
Stati Uniti
Mobil Corp
Stati Uniti
Gulf Oil
Stati Uniti
Amoco
Stati Uniti
Socal
Stati Uniti
Total
Francia
British Petroleum
Gran Bretagna
Chevron
Stati Uniti
ENI
Italia
ELF
Francia
Schlumberger
Stati Uniti
Atlantic Richfield
Stati Uniti
Repsol
Spagna
Haliburton
Stati Uniti
Petrofina
Belgio
Boc Group
Gran Bretagna
Imperial Oil
Stati Uniti
(Fonte : Morgan Stanley capital
international)
Multinazionale
Quota del
mercato
Capitalizzazione Paese di
"riferimento"
Exxon-Mobil
26,2%
244
Stati Uniti
Il narco-stato Albania
La scacchiera eurasiatica
autout
- Geopolitica 09.11.2001
Zbygniew Brzezinsky (consigliere di H.Kissinger), da
"L'Eurasia occupa la scacchiera sulla quale si svolge la lotta per il
dominio sul mondo. La maniera in cui gli Usa 'gestiscono' l'Eurasia è di
importanza cruciale. Il più grande 'continente' sulla faccia del pianeta ne
costituisce anche l'asse geopolitico. Qualunque potenza che la controlli,
controlla anche due delle tre aree più sviluppate e maggiormente produttive. Il
compito più urgente per gli Usa è sorvegliare affinché nessuno stato o gruppo
di stati abbia la possibilità di cacciarli dall'Eurasia o anche solo di
indebolirne il ruolo di arbitro."
-----------------------------------------------------------
Zbigniew Brzezinsky:
Come io e Jimmy Carter abbiamo creato i Mujaheddin
Intervista a Zbigniew Brzezinsky da Le Nouvel Observateur (Francia) 15
Gennaio 1998 pag. 76.
Domanda: Il precedente direttore della CIA, Robert
Gates, ha dichiarato nel suo libro di memorie (?Dalle ombre?), che i
servizi segreti americani hanno cominciato ad aiutare i Mujaheddin Afghani
sei mesi prima dell'intervento sovietico in Afghanistan. In questo periodo
lei era il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter.
Lei ha quindi giocato una parte in tutto questo, vero?
Brzezinsky: Si'. Secondo la versione ufficiale della faccenda, gli aiuti ai
Mujaheddin da parte della CIA sono cominciati durante il 1980, ovvero, dopo
che l'armata rossa aveva cominciato l'invasione dell'Afghanistan il 24
Dicembre 1979. La realta', rimasta fino ad oggi strettamente celata, e?
completamente diversa: e' stato il 3 luglio 1979 che il presidente Carter
ha firmato la prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del
regime filo sovietico di Kabul.
Quello stesso giorno ho scritto una nota al presidente nella quale si
spiegava che a mio parere quell'aiuto avrebbe determinato un intervento
armato dell'unione sovietica in Afghanistan.
D: nonostante questo rischio lei ha sostenuto questa azione segreta. Ma lei
stesso desiderava questo intervento sovietico ed ha cercato di provocarlo?
Brzezinsky: non e' proprio cosi?. Non abbiamo spinto i russi ad
intervenire, ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilita' di un
loro intervento.
D: quando i sovietici hanno giustificato il loro intervento con la
necessita' di contrastare un coinvolgimento segreto degli Stati uniti in
Afghanistan, nessuno li ha creduti. Invece c'era un fondamento di verita'.
Lei ha qualche rimorso, oggi?
Brzezinsky: rimorso di che tipo? Quell?operazione segreta e' stata
un'ottima idea. Ha avuto l'effetto di attirare i Russi nella trappola
Afghana ed io dovrei pentirmene? Il giorno che i sovietici hanno varcato il
confine afghano ho scritto al presidente Carter che finalmente avevamo
l'opportunita? di dare all'Unione Sovietica la sua guerra del Vietnam.
Infatti per circa dieci anni Mosca ha dovuto portare avanti una guerra
insostenibile da parte del governo, un conflitto che ha demoralizzato ed
infine sgretolato l'impero sovietico.
D: e nessuno di voi e' pentito di avere supportato l'integralismo ed il
terrorismo islamico con armi ed addestramento?
Brzezinsky: cosa e' piu' importante per la storia del mondo? I talebani od
il collasso dell?impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la
liberazione dell'europa centrale e la fine della guerra fredda?
D: qualche esaltato musulmano? Ma e' stato detto e ripetuto che il
fondamentalismo islamico rappresenta oggi una minaccia mondiale.
Brzezinsky: balle. Si dice che l'occidente abbia una politica globale
riguardo all'islam. Cio' e' stupido. Non esiste un Islam globale. Prova a
guardare all'Islam in modo razionale e senza demagogia o emozione. E' la
religione principale al mondo ed ha un miliardo e mezzo di seguaci. Ma cosa
lega il fondamentalismo Saudita, la moderazione di stati quali il Marocco,
il militarismo Pakistano, il filo occidentalismo Egiziano e gli stati laici
dell?Asia centrale? Nulla piu' di cio' che unisce le nazioni cristiane.
Tra speculazione finanziaria e
competizione tra Europa e Stati Uniti il petrolio torna ad infiammare le
relazioni internazionali. Una crisi pilotata? E' all'orizzonte una nuova guerra
contro l'Iraq? Come evolveranno i conflitti nella regione del Caucaso?
Inquietanti scenari per il futuro.
Sulle cause di questa nuova crisi, si confrontano tesi diverse e si delineano
scenari differenti tra loro. Cercare di mettere a fuoco le dinamiche in corso,
le cause e le conseguenze, potrebbe non risultare appassionante per chi é
impegnato nella lotta politica quotidiana, eppure questa "quarta crisi
petrolifera" negli ultimi trenta anni va compresa a fondo (1).
Occorre partire da una domanda di fondo e dalla sua risposta. Questa crisi é
connaturata agli andamenti del mercato mondiale o é una crisi
"pilotata"? E se in essa convivono le due cause, quale delle due ha
assunto un peso decisivo nelle conseguenze sue geopolitiche ed economiche?
Innanzitutto occorre avere chiaro chi sono i paesi produttori, qual'è la loro
struttura economica e quali sono le loro possibilità reali sul mercato in base
alle loro ragioni di scambio.
Per quindici paesi sui ventuno paesi produttori, il petrolio rappresenta più
del 60% della loro economia. (raggiunge il 92% per la Nigeria, il 91% per la
Libia e il 90% per l'Oman).
Per tutti i paesi petroliferi le ragioni di scambio nell'epoca dei prezzi bassi
erano fortemente negative (nel 1998 si andava dal -28% di Nigeria, Libia e Oman
al -8 della Norvegia. Nel 1999 l'indice negativo si è fortemente abbassato dal
-14 del piccolo sultanato del Brunei al -1 del Barhein. Nel 2000 sono tornati
tutti in attivo dal + 38 della Nigeria al +11 della Russia.
(in decine di migliaia di barili al giorno)
* Paesi membri dell'OPEC
** Il dato del 2000 è conteggiato come ex URSS e non disaggregato per le
singole repubbliche
come Russia, Azerbajian, Kazachistan etc.
I maggiori consumatori mondiali di energia
Inoltre, il vantaggio é indubbiamente inferiore a quello fiscale dei governi
dei paesi consumatori che tassano pesantemente i derivati del petrolio,
determinandone così un "prezzo elevato" al consumo.
I governi europei lamentano l'appesantimento della bolletta petrolifera, ma ne
approfittano per incamerare un assai congruo prelievo fiscale su tutti gli
idrocarburi e i suoi derivati (luce, gas etc.) (2)
A questo eccesso di domanda (che tra l'altro era stata ampiamente prevista già
negli anni di prezzi bassi), i paesi produttori non riescono a rispondere sul
piano dell'offerta.
1997: 73,7 mln di barili;
1998: 73,6 mln;
1999: 75,3 mln;
2000: 77,1 mln
Queste previsioni parlavano di una domanda tra i 58 e i 74 milioni di barili di
petrolio al giorno
Questa tesi, esposta piuttosto chiaramente dall'economista e premio Nobel,
Samuelson, o dal capo economista della Deutsche Bank, Norbert Walter, viene
contestata da altri economisti (4).
Se questa tesi corrisponde al vero, la crisi sarebbe stata innescata -
paradossalmente - dalla ripresa dell'economia mondiale in due aree: quella
europea e quella asiatica.
Il segretario dell'OPEC, il nigeriano Lukman, nel recente vertice di Caracas,
ha denunciato questa situazione molto chiaramente."L'OPEC è ormai il capro
espiatorio per gli aumenti dovuti a speculazioni di mercato, costi di
trasporto,tasse. Il mercato del petrolio è tenuto in scacco dai derivati, le
vecchie regoole della domanda e dell'offerta sono state distorte" .
Ancora più esplicito é stato il presidente dell'OPEC, il venezuelano Rodriguez,
il quale ha denunciato che almeno 8 dollari sulle quotazioni sono da imputare
alla speculazione (5).
I fatti sembrano dare ragione a questa tesi. Infatti anche quando l'OPEC ha
deciso di tagliare la produzione, le quotazioni del petrolio sono salite invece
che scendere, ciò significa che il prezzo è stato condizionato dai futures} più
che dalla legge dell'offerta e della domanda.
Una conferma di questa dominanza della speculazione finanziaria sui prezzi
petroliferi, viene dai suggerimenti e dai servizi agli investitori forniti da
gruppi come l'Unicredito a partire dal febbraio di quest'anno. "Grazie ad
un nuovo strumento, i covered warrant , ora anche i piccoli investitori possono
speculare sull'andamento dei prezzi del greggio, un pò come fanno gli
investitori professionali" annuncia la pagina dedicata a"patrimoni e
finanza" del CorrierEconomia. Il quale precisa che i covered (esattamente
come i futures) }hanno la caratteristica di amplificare al rialzo o al ribasso
le variazioni di prezzo dello strumento a cui sono collegate (6).
Ma è proprio questa invadenza della speculazione finanziaria, rivela una quarta
possibile chiave di lettura o meglio l'interconnessione con la precedente: la
competizione tra euro e dollaro come valute nelle transazioni internazionali.
L'andamento dei tassi di cambio tra euro e dollaro, entrata già prepotentemente
nelle variabili determinanti delle scommesse alla base dei futures e
dell'alveare di derivati finanziari
messi in campo dalla speculazione. Ad esempio i covered warrant sono quotati in
euro ma il sottostante è in dollari. Per portare a casa i profitti occorre
dunque scommettere non solo sul prezzo del greggio ma anche sul rischio di
cambio tra le due valute.
Il "grande manovratore"
Storicamente gli USA hanno utilizzato l'arma del petrolio - di cui dispongono
in grandi riserve e di cui controllano la gran parte del ciclo tramite le
grandi multinazionali - contro le ambizioni dell'Europa e del Giappone.
La perfetta sintonia tra la politica internazionale degli USA e i progetti
delle multinazionali petroliferi, ha determinato buona parte della storia
recente dell'umanità. Golpes, guerre, conflitti di bassa intensità, corruzione,
sono stati gli strumenti con cui il "grande manovratore" si è sempre
assicurato il pieno controllo del mercato mondiale del petrolio. Ma non c'è
solo il ricorso alla guerra (che tutto sommato resta l'estrema risorsa) c'è
anche il tentativo di mantenere il controllo dei flussi economici mondiali.
Se confrontiamo il processo di fusione e concentrazione avvenuto tra il 1998 e
il 2000 tra i grandi gruppi petroliferi con la situazione esistente solo tre
anni fa, emerge piuttosto chiaramente il processo di concentrazione monopolista
in corso a livello mondiale su risorse strategiche come il petrolio e il gas.
In questo mercato, le multinazionali che hanno come "riferimento" il
polo anglosassone (USA e Gran Bretagna) controllano quasi il 70% del mercato
mondiale e l'86% della capitalizzazione delle società petrolifere.
Con il petrolio a dieci dollari il barile, le prime dieci compagnie
multinazionali nel 1998 hanno incassato profitti netti per 30 miliardi di
dollari. Con un prezzo triplicato è facile prevedere quanto stanno incassando
tenendo conto che - a differenza dei paesi produttori- non hanno alcun bisogno
di "redistribuire" tali profitti all'interno del paese. Non solo,
l'ambizione delle multinazionali è quella di elevare la quota di profitto dal
ciclo petrolifero operando in due direzioni: aumentando la concentrazione
monopolistica (come dimostra la tabella) e arrivando a controllare anche il
processo di estrazione (i pozzi) che fino ad oggi sono rimasti di proprietà
degli stati produttori di petrolio.
Tra la fine del 1998 e il 1999, abbiamo assistito ad un impressionante processo
di fusioni e concentrazioni tra le grandi multinazionali del petrolio.
Ad aprire i giochi sono state la fusione tra Exxon e Mobil e quella tra British
Petroleum (BP) e Amoco. Contemporaneamente la Total acquistava la Petrofina. Ad
aprile del 1999 la BP-Amoco acquisivano la Atlantic Richfield (ARCO), a maggio
la Repsol acquisiva la compagnia argentina YPF le norvegiesi Norsk Hydro e Saga
Petroleum si fondevano tra loro. A luglio la Totalfina si fondeva con la ELF
lasciando a becco asciutto l'italiana ENI.
nel 1973
(le Sette Sorelle)
British Petroleum
Gran Bretagna
La nuova mappa del potere
economico nel mercato del petrolio
(in mld di dollari
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