La vera posta in gioco della guerra
Il "Grande Gioco" nei
Balcani
Stati disgregati con la forza, corridoi strategici, investimenti massicci
nelle nuove frontiere petrolifere, interventi militari della NATO : abbiamo
davanti uno scenario neocoloniale del tutto simile al "Grande Gioco"
che oppose il Regno Unito e la Russia zarista del secolo scorso. Obiettivo : il
controllo strategico delle risorse dell'Eurasia. Per questo il Caucaso è di
nuovo in fiamme e i Balcani vanno rigidamente controllati Anche a costo della
guerra tra Stati Uniti, Europa e Russia. (1)
di Sergio Cararo
La guerra nei Balcani è indubbiamente un conflitto paradigmatico di una
nuova epoca storica e di una nuova fase delle relazioni internazionali. E'una
aggressione gestita direttamente dalla NATO che delinea così le sue competenze
nel nuovo scenario emerso dalla fine della guerra fredda. Siamo passati dalla
"guerra dei cinquanta anni" (la guerra fredda appunto) all'epoca
"delle cinquanta guerre" ovvero ua fase caratterizzata da conflitti
regionali più o meno intensi destinati a modificare la mappa geopolitica e la
geografia economica di gran parte del mondo.Non a caso gli Stati Uniti si sono
dotati di una nuova dottrina strategica che prevede la possibilità di
"combattere due importanti conflitti regionali simultaneamente" (2).
In quella parte dell'Europa che comincia a Est della "frontiera di
Gorizia", nel 1989 vi erano 10 Stati (di cui la metà era appartenente al
Patto di Varsavia e al Comecon). Dieci anni dopo questi Stati sono diventati 28
ma solo 11 di essi hanno una popolazione superiore ai dieci milioni di
abitanti. Si tratta dunque in gran parte di piccoli Stati che hanno dato vita a
secessioni dai vecchi stati-nazioni (soprattutto socialisti), in alcuni casi la
secessione è stata "consensuale" in altri pesantemente conflittuale.
In questo secondo caso l'ingerenza esterna (soprattutto della Germania nella
fase iniziale) è stata determinante e non solo nel caso della Federazione
Jugoslava. Nella dissoluzione della ex URSS il peso e le responsabilità degli
Stati Uniti sono state notevoli e niente affatto casuali.
La disgregazione di tutti gli Stati non appartenenti ai tre "poli
forti" dell'imperialismo moderno (USA,UE e Giappone) è un processo che sta
marciando con forza dietro la tesi quasi religiosa della inevitabilità della
globalizzazione che renderebbe superflui gli Stati-Nazione. In realtà, come
abbiamo più volte sottolineato, questa tesi è falsa in quanto esistono Stati
"disgreganti" e Stati "disgregati". I Balcani e l'Eurasia
(così come l'Africa e buona parte dell'Asia) appartengono a questa seconda
categoria.
Questi nuovi Stati sono piccoli, deboli, subalterni agli organismi finanziari
internazionali (FMI,BM,BERS), dipendenti dalla quantità di investimenti esteri
che riescono ad attrarre e dalla quantità di export che riescono far arrivare
sul mercato regionale e mondiale.
A tale scopo questi Stati devono essere "leggeri" nelle frontiere e
nelle dogane, assai "indulgenti" nelle tasse e imposte per gli
investitori esteri, obbedienti al FMI nella politica di privatizzazioni e
liquidazione dell'economia statale, puntuali nel pagamento dei debiti
accumulati con le banche e gli istituti internazionali, implacabili nel
mantenere basso e disciplinato il salario dei lavoratori e il costo del lavoro
più complessivamente. Infine, ma non per importanza, devono assicurare con ogni
mezzo la"stabilità interna" per gli investitori esteri. Qualora la
funzione coercitiva dei nuovi Stati non fosse sufficiente diventa automatico
l'intervento della nuova NATO che si è riconvertita proprio con tale funzione.
La fortissima "dipendenza" dai poli forti, dagli investitori esteri e
dagli istituti finanziari internazionai, spiega in buona parte perchè le
popolazioni dei nuovi stati "indipendenti" hanno in realtà visto
peggiorare le loro condizioni di vita dopo le secessioni. Quasi ovunque (con le
sole eccezioni di Slovenia e Rep. Ceca) il reddito pro-capite si è ridotto
significativamente.
In questo contesto il 1999 rischia di chiudersi con altri tre secessioni e
forse altrettanti nuovi stati "indipendenti" : Kossovo, Montenegro e
la lacerazione della Macedonia in due entità distinte : una albanese e l'altra
slava.
Questa frantumazione della parte orientale dell'Eurasia non è affatto
determinata da problemi interni, etnici o atavici : siamo in presenza di un
progetto di controllo, spartizione, concertazione e competizione che vede
protagonisti i due principali poli imperialisti (USA ed Unione Europea). Da qui
occorre partire se vogliamo darci spiegazioni razionali per la guerra contro la
Jugoslavia. Tutto questo è indicato piuttosto chiaramente da Zbizgnew
Brzezinski in un recente libro che ci aiuterà a comprendere molte cose.
Quali sono le "colpe" della Jugoslavia ?
Tra i molti luoghi comuni e le mistificazioni distribuite a piene mani nella
guerra in Jugoslavia, c'è ne sono alcune che meritano di essere smantellate.
Una di queste è quella secondo cui "le guerre iniziano sempre nei
Balcani" quasi a dire che le popolazioni che abitano questa regione periferica
dell'Europa, siano particolarmente rissose, bellicose, violente, inclini alla
guerra e al massacro.
Altri, cercando di spiegare le ragioni della guerra scatenata dalla NATO contro
la Jugoslavia, sembrano omettere proprio i fattori che invece vogliamo
dimostrare con la nostra ipotesi. Emblematico in tal senso è un osservatore -
solitamente acuto - come Ugo Tramballi : " Nei Balcani non c'è alcun
petrolio nè passano vitali oleodotti di altre regioni petrolifere, non ci sono
mercati di consumatori da conquistare per le multinazionali americane; non ci
sono crocevia geostrategici da presidiare. L'Adriatico, ammesso che sia
importante, è già un mare americano; il Medio Oriente, il Caucaso e la penisola
italiana sono di gran lunga più importanti della Serbia, del Montenegro, del
Kossovo" (3).
Uno sguardo alla storia e una riflessione sul presente, ci dicono invece che le
guerre europee scoppiano nei Balcani perchè questa regione paga il prezzo di
essere la "Porta d'Oriente" ovvero una regione obbligatoria per il
passaggio di merci, materie prime ed investimenti tra il "polo
sviluppato" dell'Europa e l'immensa regione asiatica collocata a Est
dell'Europa, ovvero quella regione che i geopolitici definiscono Eurasia. E'
stato così per la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Lo è propabilmente anche
per questa guerra.
Dietro i Balcani le ricchezze dell'Asia centrale
Zbignew Brzeziski, spende almeno la metà delle pagine del suo recente libro
("La Grande Scacchiera") per spiegare l'importanza strategica
dell'Eurasia e ribadire la necessità per gli Stati Uniti di conquistare e
mantenere in ogni modo il controllo di quest'area ed impedire il nascere di
altre potenze in grado di estromettere o condizionare questa egemonia
statunitense nella regione." E' ormai tempo che gli Stati Uniti
perseguano un coerente disegno geostrategico d'ampio respiro per l'intera
Eurasia. Questa necessità sorge dall'interazione fra due realtà basilari: gli
USA sono oggi l'unica superpotenza globale e l'Eurasia è il terreno sul quale
si giocherà il futuro del mondo. L'equilibrio di forze che prevarrà su questo
continente deciderà dunque il destino della supremazia americana e della sua
missione storica. La durata e la stabilità di tale supremazia dipenderanno
soprattutto da come gli Stati Uniti muoveranno le principali pedine del gioco
su questa scacchiera, controllandone le zone cardine dal punto di vista
geopolitico".(4)
Da almeno cinque anni, studi, ricerche e investimenti economici, ci hanno
rivelato che l'area compresa tra il Mar Nero e il Mar Caspio è diventata la
"nuova frontiera dell'energia".
In Kazachistan, Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, si concentrano enormi
riserve di petrolio e gas che fino a dieci anni erano monopolio dell'URSS e che
oggi sono invece "disponibili" sul mercato mondiale.
Questa nuova frontiera del petrolio e del gas sta producendo due conseguenze
rilevanti nelle relazioni economiche e politiche internazionali :
1) I massicci investimenti da parte di tutte le maggiori multinazionali
petrolifere occidentali (da quelle USA all'ENI italiana alla Total francese
alla BP inglese etc.) per accaparrarsi giacimenti, concessioni, diritti di
sfruttamento etc.
2) Lo scatenamento di una guerra "coperta" tra i maggiori Stati
dell'area (una guerra che produce però conflitti locali sanguinosi in
Daghestan, Georgia, Cecenia, Kurdistan, Uzbekistan, Tagikistan, Afganistan) che
vede contrasti violenti sulle rotte che dovranno seguire gli oleodotti e i
gasdotti per portare gas e petrolio dall'Asia ai porti ed ai terminali sul
Mediterraneo.
La guerra nei Balcani e le guerre in Eurasia
L'Eurasia è da alcuni teatro di uno scontro feroce tra gli Stati Uniti e la
Russia. Gli USA (e Brzezinski lo conferma quasi in ogni pagina del suo libro)
hanno il chiaro obiettivo di eliminare qualsiasi residuo di legame o
collegamento tra la Russia e le repubbliche dell'ex URSS. Ancora oggi, infatti,
tutte le strade, i collegamenti, gli oleodotti che dall'Europa arrivano in Asia
(e viceversa) passano attraverso la Russia che ne ricava una posizione
preminente di controllo sulle repubbliche ex sovietiche. Ciò consente alla
Russia (nonostante la dissoluzione dell'URSS) di mantenere una certa influenza
economica, politica e militare sull'area.Gli USA puntano quindi a liquidare con
ogni mezzo questa influenza. A tale scopo da tempo attizzano Azerbaijan,
Georgia e Turchia in funzione antirussa.
Particolarmente violento è diventato lo scontro tra Russia e Turchia
(appoggiata dagli USA) sulla direzione delle pipelines.
a) La Turchia e gli Stati Uniti (vincendo le rimostranze delle stesse multinazionali americane) vogliono costruire un oleodotto che da Baku (Azerbaijan) sfoci nel porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo (attraversando il territorio dei kurdi che viene quindi pacificato con la repressione totale). Per rendere più "convincente" questa rotta, la Turchia minaccia sistematicamente di limitare o chiudere il traffico delle petroliere nello stretto dei Dardanelli, anche violando il Trattato di Montreaux che regola internazionalmente il diritto di passaggio negli stretti che portano dal Mar Nero al Mediterraneo;
b) La Russia, al contrario, vuole che la rotta delle pipelines provenienti dalle repubbliche asiatiche della ex URSS sfoci nel porto russo di Novorossik sul Mar Nero. da lì o attraverso navi petroliere e gasiere o attraverso un oleodotto sottomarino, il greggio arriverebbe direttamente nel Mediterraneo o nel porto rumeno di Costanza (sempre sul Mar Nero) e da lì distribuirsi attraverso i Balcani verso i terminali europei.
Ecco quindi che rientra in ballo la natura di "Porta d'Oriente"
della regione balcanica.
I terminali petroliferi che dovranno gestire i flussi che arrivano dall'Asia,
devono necessariamente connettersi ai mercati ricchi dell'Europa.A loro volta,
dal "cuore" sviluppato dell'Eurasia doranno veicolare i flussi di
investimenti destinati ai "nuovi mercati dell'Est" oggi ancora poco
sfruttati.
Da questa esigenza sono nati "I corridoi" veri e propri assi
strategici che dovranno collegare questa immensa area che Brzezisnki (ed anche
l'amministrazione USA) ritengono vitale per mantenere la propria egemonia
mondiale, ma che viene ritenuta tale anche dalle ambizioni del nascente polo
imperialista europeo.Si calcola che l'Unione Europea abbia previsto
investimenti per 90 miliardi di ECU in infrastrutture relative ai corridoi
balcanici. Ciò significa strade, ferrovie, aereporti, 13 porti marittimi e ben
49 porti fluviali (il che conferma il ruolo del Danubio come corridoio naturale
data la sua navigabilità).
Si badi bene infatti, che questi corridoi non sono costituiti solo da pipelines
per i prodotti energetici ma sono un percorso integrato di strade, ferrovie,
oleodotti che richiedono forti investimenti di capitale pubblico e privato,
diritti di concessione (su strade e ferrovie) e diritti di passaggio : solo per
dare un dato emblematico, le royalti previste per gli oleodotti rappresentano
quasi 20 milioni di dollari al giorno. Attualmente la Georgia - che è l'unico
paese in cui esistono pipelines dirette a occidente - incassa solo 22.000
dollari al giorno di diritti di passaggio. La posta in gioco dunque è alta.
Crescono le ambizioni dell'Italia
I Balcani sono decisivi per il passaggio di questi corridoi. Ne vengono
attraversati da Nord a Sud e da Est a Ovest, convergendo guarda caso,
soprattutto in Germania (ovvero nel cuore del polo imperialista europeo) e nei
porti balcanici dell'Adriatico dunque affidando all'Italia un ruolo strategico
non certo secondario.
Questo ruolo dell'Italia si evince dalla attivissima Ost-Politik lanciata dal
governo Prodi. Piero Fassino che in quell'esecutivo era Viceministro degli
Esteri ed oggi è non casualmente Ministro del Commercio Estero dice su questo
cose illuminanti : "Troppi nel nostro paese - soprattutto nella classe
politica - sottovalutano che l'Europa centrale e sud-orientale è per l'Italia
un'area strategica di interesse vitale....Sono queste le ragioni per cui il
governo Prodi ha individuato nell'Europa centrale e orientale e nei Balcani una
priorità fondamentale della politica estera italiana, sviluppando una vera e
propria "Ost-Politik" italiana che non solo corrisponde agli
interessi del nostro paese, ma consente all'Italia di svolgere un'essenziale e
riconosciuta funzione nella costruzione della nuova Europa....Il forte
radicamento della nostra Ostpolitik nell'Europa centrale e sud-orientale si
proietta poi in una dimensione ancora più ampia verso la Russia, l'Ucraina e la
Moldavia, erso l'area caucasica fino a giungere ai paesi dell'Asia
centrale" (5).
Di questa crescente ambizione dell'Italia e al suo manifestarsi come media
potenza integrata nel più ampio polo imperialista europeo, avevamo cercato di
fornire una prima analisi e documentazione già un paio d'anni fa. In uno studio
dedicato proprio alle relazioni tra l'Italia e i Balcani, abbiamo sostenuto che
la "conquista dell'Est" (quella che Fassino definisce
Ostpolitik italiana), sta ormai nel cromosoma della politica estera
dell'Italia degli anni '90 e non sarà affatto un imperialismo diverso dagli
altri negli obiettivi, nei progetti e, se necessario, nelle forme....Cinquanta
anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, la crisi balcanica e il Mediterraneo si
presentano come un terreno di sperimentazione dei nuovi rapporti di forza tra
le varie potenze e dunque sollecita le ambizioni anche di una media potenza
come l'Italia". (6)
"Ricostruzione" o "spartizione" ?
Comprensibilmente, dopo le distruzioni provocati dai bombardamenti dalla NATO e
dai combattimenti tra esercito jugoslavo e UCK, si pone il problema della
ricostruzione della Serbia e del Kossovo.
I parametri di questa "ricostruzione" sembrano essere definiti dalle
baionette dei vari contingenti militari della NATO e della Russia che sono
intervenuti in Kossovo. Chi vuole "ricostruire" deve mostrare la
bandiera tramite i propri soldati, esattamente come accadeva nella Cina dopo le
spedizioni militari occidentali che soffocavano le rivolte popolari contro i
"diavoli bianchi" (dai Taiping ai Boxer). In tal senso, la
ricostruzione impone una "spartizione" delle aree di influenza nella
regione e la questione dei corridoi assume un valore strategico.
I flussi di investimenti che anticiperanno, accompagneranno e seguiranno la
ricostruzione, vengono presentati alle opinioni pubbliche dei paesi della NATO
coinvolti nella guerra, come una "importante occasione per le
imprese" che avrà ricadute positive nelle indebolite economie europee, tra
queste quella italiana.
Ci permettiamo di contestare questo scenario idilliaco posto a metà tra il
neocolonialismo e i richiami alla "grande proletaria che si è mossa".
Tra il 1990 e il 1998, le imprese italiane hanno portato all'estero circa
330.000 posti di lavoro (su un totale di circa 700.000 addetti complessivi di
aziende italiane all'estero calcolati tra il 1985 e il 1998). Di questi circa
120.000 sono andati nell'Europa dell'Est (Europa centro-orientale e balcanica).
Gli effetti di questa delocalizzazione che alcuni definiscono impetuosa sono
facilmente leggibili.
In primo luogo nel "mitico Nordest" ad esempio, i laboratori
contoterzisti che lavoravano in subappalto per Benetton e Stefanel sono stati
sostituiti da aziende situate nell'Europa dell'Est (soprattutto in Romania).
In secondo luogo nel "mitico Sudest", uno dei maggiori calzaturifici
pugliesi, la nota Filanto, ha dichiarato che chiuderà il suo impianto
salentino. Vogliamo qui ricordare, che la Filanto è stata una delle prime
aziende italiane a delocalizzare in Albania ottenendo un notevole aumento di
fatturato, capitale e profitti (ma non di posti di lavoro in Italia) E'
emblematico che di questo boom aziendale non abbia benificiato nessuno se non
la proprietà dell'azienda.
In terzo luogo, questo boom di investimenti delle imprese italiane all'estero,
ha coinciso largamente con il boom della esportazione di capitali italiani in
altri paesi. E' dal 1993 infatti che la bilancia dei pagamenti italiana
denuncia la "fuga di capitali all'estero". Qualche mese fa, l'allora
Ministro dell'Economia Ciampi denunciava che nel solo 1998 questa
"fuga" era pari a 80.000 miliardi di lire.
Ciò significa che le imprese italiane che vanno all'estero non portano via solo
il lavoro ma non fano rientrare nel paese neanche i profitti che ottengono con
l'investimento estero. Questi profitti prendono la via dei paradisi fiscali,
dei fondi pensione, dei fondi di investimento in altri paesi.
Dunque è del tutto illusorio attendersi una "socializzazione" dei
benefici della partecipazione delle imprese italiane alla ricostruzione della
Jugoslavia distrutta dalla guerra. Del resto non può che essere illusorio
attendersi qualcosa di diverso dalla speculazione finanziaria ormai dominante
in una economia imperialista come quella europea in cui l'Italia è ormai
perfettamente integrata. E' per questa ragione che appare più realistico
parlare di "spartizione" piuttosto che di "ricostruzione"
nei Balcani.
I "Corridoi strategici" che attraversano i Balcani
Una chiave di lettura della guerra scatenata dalla NATO in Jugoslavia e del
ruolo vitale della regione balcanica nella nuova spartizione dei mercati e
degli snodi strategici, emerge con sufficiente chiarezza dalla "questione
dei corridoi". (7)
Questi assi strutturali di collegamento attraversano tutta l'area connettendo i
terminali sul Mar Nero all'Europa. Vediamoli nel concreto :
1) Il Corridoio nr. 4 : collega il porto rumeno di Costanza sul Mar
Nero, attraversa Bucarest, Budapest, Austria e Germania. Questo corridoio
ovviamente è sostenuto dalla Germania e dall'Austria;
2) Il Corridoio nr.5 :collega Trieste, Lubiana, Budapest e Kiev e
prevede due diramazioni : una verso Zagabria e l'altra verso Bratislava. Italia
e Russia sono molto interessate allo sviluppo di questo corridoio.Ma anche la
Germania (che dopo la secessione della Slovenia è il primo paese per
investimenti in quel paese) è molto interessata.
3) Il Corridoio nr.8 : è il corridodio trasversale Est/Ovest che collega
il porto bulgaro di Burgas (sul Mar Nero e in competizione con Costanza), con
Skopje (in Macedonia) e il porto albanese di Durazzo.Questo corridoio affida un
ruolo particolare ai porti italiani di Bari e Brindisi.Ovvio che tale progetto
trovi il sostegno dell'Italia ma anche degli Stati Uniti e della Francia.
4) Infine il Corridoio nr.10 : questo corridoio si connette al nr.8 a
Skopje (Macedonia), attraversa il Kossovo, Belgrado, Zagabria, Lubiana e
Germania. Questo corridoio è sostenuto da Grecia, Serbia, Russia ed ancora
Germania (che anche in economia come nella politica estera gioca dunque su più
tavoli).
Bombardamenti "intelligenti" sui nodi strategici dei Corridoi
I bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia, sembrano essere un passaggio
brutale della guerra tra Stati Uniti ed Europa per la spartizione dei mercati
dell'Est.Da un lato l'aperto ostracismo degli USA contro la Serbia ha ottenuto
anche il risultato di interdire i progetti europei, dall'altro l'asse
anglo-americano dentro la NATO non fa mistero delle sue ambizioni al controllo
strategico dei punti vitali della regione balcanica.
Gli USA hanno sabotato il progetto originario del Corridoio nr.10 ponendo il
veto sull'attraversamento della Serbia. A tale scopo hanno pagato 100 milioni
di dollari alla Romania per convincerla a far passare gli oleodotti più a nord
(in Ungheria) invece che sul territorio jugoslavo da dove sarebbero arrivati a
Zagabria, in Slovenia e poi in Germania.L'obiettivo è duplice : tagliare fuori
la Jugoslavia dalle nuove rotte dell'economia e ostacolare qualasiasi interesse
della Russia nei Balcani del Sud.
In secondo luogo, l'ENI aveva previsto una pipeline da Pitesti (Romania) alla
raffineria di Pancevo (Jugoslavia) per la raffinazione del greggio per farlo
poi arrivare con un oleodotto di 250 chilometri al terminale di Trieste.
L'accanimento con cui la NATO (e gli aerei inglesi e americani) hanno distrutto
la raffineria di Pancevo, confermano l'obiettivo statunitense di sabotare in
ogni modo la funzione strategica di questo corridoio.
A chiarire gli obiettivi della NATO nell'area balcanica, è l'illuminante
intervista rilasciata da Sir Mike Jackson, il generale inglese che comanda la
Forza di Reazione Rapida della NATO installata prima in Macedonia ed ora nel
Kossovo.
Intervistato dopo tre settimane di guerra dal Sole 24 Ore, il gen. Jackson ha
affermato testualmente : "Sono cambiate le circostanze che ci hanno
portato qui. Oggi è pressante la necessità di garantire la stabilità della
Macedonia e il suo ingresso nella NATO. Ma resteremo sicuramente a lungo anche
per tutelare la sicurezza dei corridoi energetici che passeranno attraverso
questo paese". Il quotidiano economico italiano precisa ulteriormente :
"E' chiaro il riferimento di Sir Jackson all'Ottavo Corridoio, cioè all'asse
Est-Ovest che dovrà convogliarecon le pipeline le risorse energetiche dell'Asia
centrale dai terminali del Mar Nero all'Adriatico, saldando l'Europa all'Asia.
Questo spiega perchè grandi e medie potenze, in primo luogo la Russia, non
vogliono essere escluse dal regolamento dei conti nei prossimi mesi nei
Balcani. E' evidente anche l'interesse della Turchia" (8).
L'analisi di Brzezinski e le esplicitazioni del gen. Jackson offrono dunque una
solida conferma ad una chiave di lettura estremamente "concreta" ed
assai poco ideologica o "umanitaria" della guerra della NATO contro
la Federazione Jugoslava.
NOTE :
(1) Una analisi più ampia dei temi trattati in questo articolo (soprattutto
sulle nuove guerre del petrolio nel Caucaso e nell'area del Mar Caspio) è stata
pubblicato a luglio '99 sul terzo numero dei "Quaderni Cestes" curati
dall'omonimo centro studi Cestes-Proteo.
(2) Sulla nuova dottrina strategica degli Stati Uniti, è molto
interessante l'articolo di M.Klare su "Le Monde Diplomatique" del
novembre 1997.
(3) Ugo Tramballi su Sole 24 Ore del 6 aprile 1999
(4) Zbignew Brzezinski : "La Grande Scacchiera", Longanesi 1998
(5) Prefazione di Piero Fassino su "Annuario 1998 dell'Europa centrale, orientale e balcanica". A cura di Stefano Bianchini e Marta Dassù, edizioni Cespi e Cespeco)
(6) Sulla questione dell'imperialismo italiano vedi il rapporto "Alla conquista dell'Est. L'imperialismo italiano nei Balcani" a cura di Contropiano, pubblicato su"L'Italia s'è desta", testo collettivo di Cararo, Gattei, Pala, Donato edito da Laboratorio Politico, Napoli 1997
(7) Sulla guerra dei Corridoi e delle pipelines, la documentazione più
interessante finora nota sono una serie di articoli di Alberto Negri usciti sul
Sole 24 Ore tra il dicembre 1998 e l'aprile 1999.
(8) vedi articolo sul Sole 24 Ore del 13 aprile 1999.
Gas, petrolio e controllo delle aree strategiche : la vera posta in gioco
Se gli effetti dei bombardamenti sulla Jugoslavia sembrano per ora congelati, a
molti è sfuggito che un'altra guerra era già in corso da tempo. E' la guerra -
per ora economica anche se le armi si sono fatte sentire in Daghestan, Cecenia,
Iraq, Afganistan, Georgia, Kurdistan etc. - per l'accaparramento e la
spartizione dei giacimenti di gas e petrolio nell'area del Mar Caspio e il
mantenimento del controllo sul Golfo Persico. Ma conflitti sempre più violenti
dilaniano anche l'Africa ridotta ormai a mero serbatoio di materie prime.
Se i primi mesi del 1999 hanno riportato la guerra nella vicina periferia
dell'Europa, occorre rammentare come il 1998 non sia stato solo l'anno delle
tre crisi tra USA e Iraq conclusosi con i bombardamenti su Bagdad. E' stato
anche l'anno del prezzo del petrolio ai minimi storici dagli anni '70 a oggi e
del boom delle concentrazioni monopoliste tra le grandi multinazionali
petrolifere.
Come mai questa escalation globale in un settore che - nonostante il ribasso
dei prezzi e le nuove tecnologie - mantiene una funzione strategica per lo
sviluppo economico ? Il mercato petrolifero ristagna, l'offerta di petrolio è
diventata superiore alla domanda e il cartello dell'OPEC (protagonista dello
shock petrolifero del '73) rappresenta oggi solo meno della metà dei paesi
produttori di petrolio. I paesi produttori sono ormai un'ottantina e il
cartello dell'OPEC ne riunisce solo 13 che rappresentano meno della metà
dell'offerta mondiale.
" La realtà è semplice : le scorte sono troppo alte e la domanda
globale è debole" sintetizza il Center for Global Energy Study di
Londra (6). Manuchear Takin analista del CGES aggiunge"L'OPEC diventerà
irrilevante se non riuscirà ad impostare politiche di tagli e farle rispettare.
La Nigeria, per esempio, esporta 2,4 milioni di barili, il 70% in più di quanto
dovrebbe" (7).
Epppure, secondo gli esperti delle principali multinazionali, i consumi
energetici si manterranno stabili fino al 2005, ma poi ricominceranno a
crescere vertiginosamente alimentando la domanda mondiale di petrolio e gas.
Domanda e offerta mondiale di petrolio (in milioni di barili al giorno)
|
1997 |
1998 |
|
DOMANDA |
|
Paesi dell'OCSE |
46,6 |
46,5 |
Paesi non OCSE |
27,1 |
27,1 |
TOTALE |
73,7 |
73,6 |
|
OFFERTA |
|
Paesi dell'OPEC |
30,0 |
30,2 |
Paesi non OPEC |
44,4 |
44,1 |
TOTALE |
74,4 |
74,3 |
(Fonte : Agenzia Internazionale dell'Energia)
La banca d'affari Merryl Linch, calcola che i profitti nel '97 delle prime
dieci multinazionali del mondo, abbiano raggiunto i 35 miliardi di dollari
(circa 60.000 miliardi di lire). Ciò significa che le multinazionali
petrolifere hanno saputo ricavare profitti anche con il petrolio a 10 dollari
il barile. Se il prezzo raggiungesse i 20 dollari i margini di profitto
sarebbero dunque ancora più ampi, ragione per cui avvenimenti come il rientro
dell'Iraq nel mercato petrolifero o una guerra in Medio Oriente vanno dosati e
calcolati con estrema precisione.
Le previsioni sul mercato del petrolio sono però discordanti. Secondo alcuni
analisti, fino alla prima metà degli anni '90, i consumi di petrolio crescevano
stabilmente intorno all'1% annuo. Da tre anni a questa parte la domanda sta aumentando
al ritmo del 2%. Dopo il Duemila, molte compagnie prevedono una crescita anche
superiore al 3%. . Altri invece sono più prudenti e sottolineano come il calo
della domanda - dovuto soprattutto alla crisi asiatica - stia riducendo il
consumo mondiale di petrolio.(8)
A novembre del 1998, a Londra, l'International Herald Tribune , ha
organizzato il suo consueto incontro annuale di esperti petroliferi. Una
settimana dopo si sarebbe riunito il vertice dell'OPEC. Il direttore
dell'International Energy Agency (l'affiliata all'OCSE per i problemi
energetici) ha sostenuto che "il 1999 sarà un altro anno duro per il
petrolio". Ma ciò non significa che sarà un anno duro per le
multinazionali petrolifere. Franco Bernabè che in quell'incontro era ancora
amministratore delegato dell'ENI (oggi è passato alla Telecom), analizzando le
ricadute della debolezza dei prezzi petroliferi, tracciava una scenario
abbastanza veritiero : " Le compagnie che sono entrate nell'attuale
crisi con una forte posizione finanziaria e di riserve, unita ad una solida
base tecnologica, possono sfruttare questo periodo per nuove opportunità di
sviluppo e creazione di valore. Altre invece scompariranno, saranno acquisite,
si fonderanno o cambieranno la natura della propria attività". Il
terremoto di fusioni, acquisizioni, scambi azionari tra le multinazionali
petrolifere - e dunque di concentrazione monopolista - conferma questa
valutazione. (9).
La nuova mappa delle multinazionali del
petrolio
Le sette
sorelle nel 1973 |
Le principali
società nel 1998 |
Società |
Fatturato |
Società |
Fatturato |
Exxon |
25,7 |
Exxon-Mobil |
178,7 |
Royal Dutch Shell |
13,7 |
Royal Dutch Shell |
128,7 |
Texaco |
11,4 |
B.P. - Amoco |
103,7 |
Mobil |
11,4 |
Total-Fina |
52,96 |
Gulf |
8,4 |
Texaco |
45,2 |
Socal |
7,7 |
ELF Aquitaine |
42,2 |
B.P. |
7,2 |
ENI |
35,1 |
|
|
Chevron |
34,7 |
|
|
Petroles venezuela |
33,2 |
|
|
Conoco |
25,3 |
Questo processo di concentrazione monopolistica nel mercato petrolifero, sta
già provocando due problemi, uno sul mercato statunitense, l'altro all'ENI
ovvero ad una delle maggiore multinazionali italiane :
a) Sul mercato statunitense la fusione tra Exxon e Mobil ha di fatto
ricostituito quella che fu la Standard Oil di Rockfeller e che fu costretta a
dividersi nel 1911 in base alle leggi antitrust introdotte negli Stati Uniti.
Il problema della concentrazione monopolistica si ripropone, dunque, come quasi
novanta anni fa.
b) Per l'ENI si pone il serissimo problema di crescere per reggere la
competizione. Secondo alcune fonti, l'ENI vorrebbe allearsi con una compagnia
più piccola per mantere il pacchetto di controllo della nuova società. Si fanno
i nomi della russa Gazprom, delle inglesi Enterpreise Oil (già socia dell'Eni
nei giacimenti della Val d'Agri) e Lasmo, delle americane Conoco, Unocal e
Marathon Oil, della norvegese Saga, della malese Petronas (presente in Iran
dove l'Eni è già ben piazzata) ed infine della spagnola Repsol (10).
Ma la situazione critica nel mercato petrolifero sta innescando anche altre
preoccupazioni, in questo caso più preoccupanti per noi che per i profitti
aziendali.
Non c'era il sexigate dietro i raid USA su
Bagdad
Paul Wolfowitz (autore nel marzo del 1992 di un famoso rapporto del Pentagono
che minacciava esplicitamente gli alleati e li "dissuadeva" dal
tentare di mettere in discussione la supremazia americana) nelle settimane
precedenti ai bombardamenti contro l'Iraq, aveva presentato un rapporto in cui
si indicava chiaramente la necessità di "intervenire" nel Golfo
Persico per quattro motivi :
a) il prezzo del petrolio era troppo basso;
b) questo fattore comporta il rischio di una destabilizzazione di un paese
strategico come l'Arabia Saudita;
c) bisogna costringere i paesi arabi a vendere i loro pozzi e le loro compagnie
alle multinazionali petrolifere statunitensi;
d) occorre rilanciare il dialogo con l'Iran.
Nel controllo del mercato petrolifero dunque le multinazionali vogliono tornare
ad una situazione pre-shock del '73. In questi ultimi venticinque anni le
compagnie hanno di fatto comprato il greggio dai paesi arabi e lo hanno
lavorato - spiega ancora Takin - "ma adesso si tornerà all'antico, quando
le compagnie controllavano l'intero ciclo del petrolio, dal giacimeto alla
pompa di benzina" sottolinea Pasquale De Vita, presidente dell'Unione Petrolifera.
Se poi confrontiamo le "indicazioni" di Wolfowitz con tre
"fattori sul campo" ovvero : a) il boom di concentrazioni monopoliste
tra le multinazionali petrolifere (Mobil-Exxon; B.P.-Amoco; Total-Fina); b)
l'aggressione all'Iraq e il progetto di smembramento del paese attraverso i
protettorati kurdo nel nord e sciita nel sud con l'istaurazione di un
governo-fantoccio alleato di USA, Israele, Turchia; c) la minaccia di alcune
compagnie petrolifere russe, arabe, francesi, italiane di utilizzare l'Euro e
non più il dollaro come valuta di quotazione dei barili di petrolio - possiamo
verificare quanto la decisione di bombardare Bagdad sia dipesa poco o nulla dai
guai di Clinton sull'impeachment. (11)
Dal petrolio al gas : il business
del Duemila ?
Ma la frenesia delle multinazionali europee e statunitensi, non si gioca solo
intorno al petrolio del Golfo. Colossali investimenti per miliardi di dollari
si vanno concentrando anche nelle repubbliche asiatiche dell'ex URSS e non solo
intorno ai pozzi petroliferi.
L'oscuro oggetto del desiderio delle grandi multinazionali dell'energia, sta
diventando il gas. Alcuni si sentono legittimati in questa corsa allo
sfruttamento dei giacimenti dall'immagine di "energia pulita" del gas
come risorsa alternativa al petrolio. Ma è soprattutto la maggiore redditività
e la domanda crescente a muovere concretamente le cose. Alcuni dati sono
emblematici.
Secondo il centro di consulenze d'affari DRI McGraw/Hill, si prevede che i
consumi mondiali di metano raggiungeranno i 3.700 miliardi di metri cubi entro
il 2015, con un aumento dell'80% rispetto al 1990. Le regioni che cresceranno
di più saranno l'America Latina e quella asiatico-pacifica. Una delle
principali ragioni della domanda di gas è la crescente competitività dei suoi
prezzi rispetto ad altre fonti energetiche. In secondo luogo i "vincoli
ecologici" vedono il gas offrire dei vantaggi ambientali superiori agli
altri combustibili fossili, esso emette infatti minore CO2 e SO2 per unità di
energia. Il 70% delle riserve mondiali di gas metano sono concentrate nella ex
URSS e in Medio Oriente (12) .
Il tasso di consumi del gas è ormai pari al doppio di quelli petroliferi ossia
il 5% all'anno. Ragione per cui le multinazionali si sono adeguate. (13)
Le riserve della Total, ad esempio, hanno invertito il rapporto tra petrolio e
gas. Oggi il gas rappresenta già il 60% delle riserve Total che in questo ha
battuto sul tempo le altre multinazionali.
Ma anche l'Agip (gruppo ENI) sta seguendo la stessa strada. Le riserve della
multinazionale italiana sono ormai per il 47% in gas e per il 53% in petrolio
ma la tendenza è quella ad invertire la proporzione.
E' per questo che l'ENI (condizionando ad hoc le politica estera del governo
italiano) sta curando particolarmente i rapporti con due repubbliche asiatiche
come Uzbekistan e Turkmenistan che sono rispettivamente il quarto e il quinto
produttore mondiale di gas.
Le pipelines della discordia
" L'area compresa tra Oceano Artico, Mar Caspio e Lago d'Aral è
diventato il nuovo teatro di scontro e di cooperazione tra gli Stati. Sull'asse
tra Occidente e Oriente si combatte una battaglia a colpi di pipeline,
gasdotti, autostrade e ferrovie" così un quotidiano economico italiano
descrive lo scenario di quell'area del mondo che i geopolitici definiscono come
"Eurasia" (14).
Il problema di come e dove far arrivare le risorse energetiche sui mercati, sta
provocando una frenetica attività di alleanze, contratti e progetti nell'area
del Mar Caspio. Le riserve petrolifere di quattro repubbliche (Kazachistan,
Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan) sono state valutate in 15 miliardi di
barili a fronte dei 13,5 del Mare del Nord; quelle di gas sono di 9.000
miliardi di metri cubi a fronte dei 2.900 del Mare del Nord. Queste stime sono
state riviste al ribasso nel giugno del '98 dall'Istituto Internazionale per
gli Studi Strategici di Londra, ma il centro ricerche della British Petroleum è
andato più vicino alla verità affermando che ad essere cambiate non sono le
stime sulle riserve di gas e petrolio dell'area quanto le previsioni di spesa
per le perforzazioni rese oggi "meno convenienti" dal ribasso del
prezzo del petrolio. Infatti estrarre un barile di petrolio nell'area del
Caspio costa oggi tra i 4 e i 5 dollari contro il costo di 1 dollaro a barile
in Kuwait. "Se l'oro nero del Caspio diventasse troppo costoso e
rischioso, i contratti di investimento già firmati rischierebbero di subire
alcuni ritardi e di finire in un cassetto" sostiene Vicken Cheterian
su Le Monde Diplomatique (15). .
In questa area - che corrisponde alle repubbliche asiatiche dell'ex URSS - si
vanno concentrando grandi investimenti e crescenti fattori di competizione . Le
enormi risorse energetiche (petrolio e gas) di questa regione stanno
alimentando una gigantesca corsa all'accaparramento delle concessioni da parte
delle principali società petrolifere transnazionali (Chevron, Exxon, British
Petroleum, Amoco ma è in corsa anche l'ENI). (16) .
Lo scenario sembra quello della conquista coloniale del secolo scorso."Con
il sostegno della Gran Bretagna, Washington spinge centroasiatici e Azerbaigian
a considerarsi importanti potenze petrolifere concorrenti della Russia e
dell'Iran" sottolinea un quotidiano economico. Alcuni osservatori
riesumano il concetto di "Grande Gioco" coniato nell'epoca del
colonialismo da Rudyard Kypling per indicare lo scontro tra Russia e Gran
Bretagna per il controllo dell'Asia Centrale.
Tra le società petrolifere e le varie potenze si fanno e disfanno accordi e
alleanze cercando di corrompere le borghesie compradore delle varie
repubbliche.
Le multinazionali petrolifere e i governi occidentali (ma soprattutto gli USA)
stanno cercando in ogni modo di spezzare ogni legame tra la Russia e le
repubbliche asiatiche dell'ex URSS. Il punto nevralgico di questo legame sono i
corridoi delle comunicazioni e i tracciati degli oleodotti/gasdotti che ancora
oggi transitano sul territorio russo." Il 5 gennaio scorso (1998 NdR),
i dirigenti di cinque repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, Uzbekistan,
Kazachistan, Turkmenistan, Kirghisistan e Tagikistan, si sono riuniti a
Askhabad, la capitale turkmena" racconta Julie Kerleroux "alla
fine del summit è emersa una dichiarazione comune che esprime l'intenzione di
riunire le loro forze per far marciare dal Mar Caspio verso l'Europa e il
Mediterraneo le risorse energetiche del Kazachistan e del Turkmenistan. Ciò
sottintende che le rotte del petrolio e del gas non sono più condannate a
passare attraverso la Russia" (17). L'obiettivo delle ingerenze
statunitensi non è dunque solo quello di tracciare nuove rotte per il petrolio
ma è anche di frantumare ogni residuo legame tra le repubbliche che avevano
dato alla vita alla Confederazione degli Stati Indipendenti dopo la
dissoluzione dell'URSS, una confederazione che obiettivamente affidava alla
Russia un ruolo tuttora centrale.
"Il governo USA marcia alla testa delle compagnie americane perchè il
Caspio offre l'occasione di ridurre la dipendenza energetica dal Medio Oriente
e di sottrarre al controllo russo gli Stati dell'ex URSS" ha scritto
un quotidiano economico italiano inquadrando bene la strategia statunitense.
(18) . " Eltsin negli ultimi mesi non ha perso occasione per ricordare
che Mosca non accetterà mai di mettersi da parte. Ma gli americani invece sono
ansiosi di togliere il petrolio del Caspio da sotto le zampe dell'orso
russo" conferma un'altro osservatore. (19) .
Gli Stati Uniti puntano a mantenere
l'egemonia su tutta l'area
Per realizzare questa strategia, gli Stati Uniti hanno puntato soprattutto ad
uno stretto coordinamento con la Turchia e alla "cooptazione"
dell'Azerbajian - importante paese petrolifero - nella strategia anti-russa. A
ottobre del '98 è stato siglato l'accordo che porterà il petrolio da Baku
(Azerbaijan) a Ceyhan (Turchia) sotto la supervisione degli Stati Uniti. "Un
Azerbaijan indipendente e di lingua turca con gasdotti che arrivano fino in
Turchia - etnicamente affine e politicamente amica - impedirebbe alla Russia di
esercitare un controllo esclusivo sull'accesso alla regione privandola di uno
strumento politico decisivo per condizionare la strategia dei nuovi stati
dell'Asia centrale" sottolinea un esperto come Zbignew Brzezinski in
una sua analisi dei problemi strategici della regione del Caspio (20).
L'altro fattore di scontro nell'area sono le direttrici geografiche (e dunque
economiche) su cui dovranno passare i nuovi oleodotti e gasdotti che porteranno
petrolio e gas sui "mercati". La tensione tra Stati Uniti, Russia,
Turchia, Iran cresce di giorno in giorno nel tentativo di imporre il "Tracciato
del Caspio settentrionale" che sfocerebbe nel porto russo di Novorossik
sul Mar Nero (investimenti per 1,5 miliardi di dollari) o il "Tracciato
del Caspio meridionale" che sfocerebbe a Cehyan in Turchia e direttamente
sul Mediterraneo, senza transitare nel Bosforo a bordo delle petroliere e delle
navi gasiere (investimenti per 1,7 miliardi di dollari). La Turchia infatti ha
minacciato di "contingentare per motivi ecologici" il traffico navale
nello stretto del Bosforo limitando così pesantemente l'opzione della Russia.
In occasione dell'attentato contro il presidente della Georgia (ed ex ministro
degli esteri di Gorbaciov) Eduard Shevardnadze, le accuse alla Russia sono
state esplicite. Shevardnadze ha puntato l'indice "contro quelle potenze
che sono interessate ad una soluzione diversa per quanto riguarda
l'oleodotto".
Ma non c'è solo l'ambizione di tagliare fuori la Russia dietro la politica
statunitense nell'area. Il Dipartimento di Stato USA - a meno che non si riapra
il dialogo con Teheran auspicato da Wolfowitz e Brezinski - vuole impedire ogni
vantaggio anche all'altro "nemico" cioè l'Iran."Lo
spauracchio iraniano ha contribuito al voltafaccia di Washington a favore del
progetto Baku-Ceyhan notificato al governo turco dall'ambasciatore americano ad
Ankara il 31 gennaio 1995" segnala Nur Dolay (21).
Secondo Pierre Terzian, direttore della rivista francese
"Petrostràtègie", i progetti di "vie del petrolio"
dall'area del Caspio agli snodi portuali attrezzati per esportarlo in tutto il
mondo, sono cinque e tutti altamente "conflittuali".
- Il primo passa per la Russia (e per la Cecenia), ma gli Stati Uniti sono
contrari per evitare qualsiasi dipendenza da Mosca ;
- Il secondo attraversa la Georgia e sbocca sul Mar Nero, ma è una soluzione
condizionata dalla Turchia che controlla il flusso delle petroliere negli
stretti del Bosforo e dei Dardanelli;
- Il terzo passa attraverso l'Armenia per poi giungere in Turchia e poi nel
Mediterraneo ma è condizionato dal conflitto tra Armenia e l'Azerbajian (forte
paese petrolifero) sulla questione del Nagorno-Karabah;
- Il quarto dovrebbe attraversare l'Iran ma su questo - fino ad ora - esiste il
veto assoluto degli Stati Uniti;
- Infine il quinto - il più aleatorio - è quello che dovrebbe attraversare
l'Afganistan e sfociare nei porti del Pakistan. E' un progetto sostenuto dalla
compagia USA Unocal e da una compagnia saudita.
"Allo stato attuale esistono solo due oleodotti - con capacità ridotta
- quello che lega Baku (in Azerbaijan) al porto russo di Novorossik sul Mar
Nero e quello che da Baku passa per la Georgia e sfocia nel porto di Supsa,
anch'esso sul Mar Nero.
Ma su questa realtà sta pesando sempre di più lo strumentale veto della Turchia
che, con le parole del suo ministro degli Esteri Ismail Cem "non
permetterà che gli stretti si trasformino in un oleodotto" sottolinea
Pierre Terzian (22).
Dopo anni di tensione tra Russia e Turchia sembra che sia stata raggiunta una
prima fragile mediazione. I tracciati che seguiranno le pipelines per arrivare
nei porti del Mediterraneo saranno infine due. (23)
Una, gestita dal "Caspian Pipeline Consortium" formato da tre governi
- russo, kazacho e omanita - e da otto compagnie petrolifere - tra cui Agip,
Chevron e Lukoil - giungerà nel porto russo di Novorossik nel Mar Nero e da lì
partirà con le petroliere.
L'altra partirà dal Baku (Azerbajian) e finirà al terminal turco di Ceyhan sul
Mediterraneo. Ma proprio le compagnie del consorzio AIOC (BP, Statoil, Amoco,
Exxon, Lukoil) che gestisce le estrazioni petrolifere in Azerbaijan non sono
affatto entusiaste di questa soluzione perchè più costosa rispetto alla prima.
E infatti sulle compagnie stanno crescendo sia le pressioni
"politiche" del Dipartimento di Stato USA che gli incentivi fiscali
promessi a piene mani sia dal governo americano che dalla Turchia. (24) .
Esiste poi una terza opzione, quella sostenuta dalla compagnia Unocal con un
gasdotto che dal Turkmenistan attraversi Afganistan, Pakistan al quale
affiancare anche - per un tratto - un oleodotto da far sfociare sul Golfo
Persico. (25). Oltre all'americana Unocal, nel progetto sono coinvolte anche la
compagnia saudita Delta Oil e quella argentina Bridas Energy. Esso prevedeva un
gasdotto di 1.400 chilometri e un oledotto di 1.600 chilometri.
Il conflitto scatenato dai Talebani con l'aperto sostegno del Pakistan, doveva
servire proprio a "stabilizzare" il territorio previsto per il
passaggio di questo oleodotto-gasdotto (26).
Esisteva poi un'altra opzione anch'essa bloccata dal veto americano (questa
volta sulla Serbia). Infatti il tracciato settentrionale avrebbe dovuto potuto
evitare il blocco della Turchia sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli
facendo arrivare il petrolio del Kazachistan nel porto di Costanza (Romania)
sul Mar Nero. Da lì attraverso un sistema di oleodotti sarebbe stato
distribuito in Europa. "Su questa pipeline scatta però il divieto
americano sull'attraversamento della Serbia, vista da Washington come
l'avamposto slavo della Russia" segnala il Sole 24 Ore.
Gli USA hanno così erogato un finanziamento di 100 milioni di dollari alla
Romania per studiare una rotta alternativa che evitando Belgrado passi
dall'Ungheria (27).
Le "guerre" del petrolio
Questi investimenti significano materialmente profitti per le multinazionali e
soldi per le royalties per i paesi attraversati dalle pipeline. Gli
investimenti previsti per i prossimi anni nella regione del Mar Caspio sono
pari a quasi 90.000 miliardi di lire. Se tutti i progetti venissero realizzati,
i profitti dovuti alle royalties per i paesi attraversati sarebbero più o meno
pari a 20 milioni di dollari al giorno. Oggi, un paese come la Georgia ne
incassa quotidianamente solo 22mila e si comprende perchè vorrebbe estendere la
rete di pipelines sul proprio territorio. Ma la stessa ambizione investe
Russia, Iran, Armenia, Turchia, Pakistan, Afganistan e all'interno di queste le
varie nazionalità (vedi Cecenia, Kurdistan, Ossezia, Inguscezia,
Nagorno-Karabah etc.). Questi paesi corrispondono pienamente a quell'Eurasia di
cui gli USA - secondo Brzezisnki - non possono assolutamente perdere il
controllo, ma corrispondono anche a quei conflitti locali che il Peace Index ci
ripropone ormai come costante da anni.
Ma la questione della corsa all'accaparramento del petrolio da parte delle
multinazionali (e di quella alle royalties da parte dei governi locali) sta
trasformando anche l'area occidentale dell'Africa in un campo di battaglia.
Dalla crisi interna del gigante nigeriano alla guerra in corso nella regione
dei Grandi Laghi, è leggibile lo zampino delle compagnie petrolifere in molti
dei conflitti scatenatisi in questi anni e che hanno messo fine all'illusione
della "Rinascita africana". (28)
In Africa la competizione tra Stati Uniti e Francia si è trasformata in più di
qualche occasione in scontro aperto per l'egemonia nelle aree strategiche di
questo continente ridotto a serbatoio di materie prime e collocato - secondo
una definizione definitiva ma realistica dell'africanista Claudio Moffa -
"alla periferia della storia". Se per "rinascita africana"
si intendeva solo l'obbedienza e la subalternità ai diktat del FMI, questa
rinascita è avvenuta e si è esaurita nel giro di pochissimi anni. Le esigenze
del neo-colonialismo e i fattori di competizione interimperialista hanno
imposto un ritmo di marcia più veloce che ha costretto le nuove classi
dominanti africane ad un ritorno al passato.
La spartizione delle fonti di energia e delle materie prime è tornata con
violenza ad imporsi nelle relazioni internazionali ed anche fra gli ex partner.
In Africa, le prospezioni e le previsioni delle multinazionali petrolifere,
lasciano trapelare le immense possibilità di sfruttamento delle materie prime
del continente "Le riserve di petrolio ( definite favolose ) non sono
stimate con sufficente precisione. La fascia più ricca va dalla Nigeria alla
Namibia, ma non mancano rilevamenti importanti in Sudan e al largo delle coste
eritree e somale." segnala l'inserto economico del Corriere della Sera
" Nella sola Angola le ultime prospezioni hanno portato alla scoperta di
depositi per 5 miliardi di barili". (29)
Così mentre la Nigeria è costretta ad importare benzina, l'Angola è diventata
in questi anni meta di businessmen di tutte le principali compagnie
petrolifere. Ogni mese vengono concesse nuove concessioni per la prospezione,
la perforazione e l'estrazione di nuovi giacimenti. L'Angola non nasconde che
la sua ambizione è di superare entro il 2010 la produzione della Nigeria. (30)
La ripresa degli attacchi dell'Unita nell'enclave di Cabinda vuole
propabilmente compromettere e condizionare questa possibilità.
Nella Repubblica Democratica del Congo (quella di Laurent Kabila) esisteva solo
una raffineria a Moanda (sulla costa atlantica) di proprietà dell'AGIP ed ora
affidata al gruppo sudafricano Jovane. L'ENI e l'AGIP si stanno inserendo nella
regione in concertazione con la Tamoil, la compagnia petrolifera libica e
puntano a sfruttare le potenzialità dell'area. La RD del Congo al centro di un
potenziale conflitto regionale che investe Congo, Uganda, Ruanda, Zimbabwe,
Angola, dopo avere spodestato Mobutu, ha rotto con gli americani, guarda con
meno ostilità alla Francia ma cerca anche - e giustamente - di allargare i suoi
interlocutori economici.
Il problema dell'Africa resta infatti quello della "sicurezza degli
investimenti", per cui gran parte dei pozzi sono off-shore cioè collocati
nelle acque territoriali della fascia atlantica intorno alle coste dell'Angola,
Congo, Gabon, Camerun.
La Nigeria, il colosso petrolifero dell'Africa subsahariana, oltre che con la
crisi interna deve fare i conti con il conflitto che la oppone al Camerun per
il controllo della penisola di Bakassi ricca di petrolio.
Contemporaneamente Elf, Shell, Exxon stanno aprendo 300 nuovi pozzi per una
produzione prevista di 225.000 barili al giorno in Ciad e intendono costruire
(con i soldi della Banca Mondiale) un oleodotto che attraversi il Camerun e
porti il petrolio nel porto di Kribi sull'Atlantico . Per questo progetto, le
tre multinazionali, riceveranno ad interessi zero prestiti per 370 milioni di
dollari dalla Banca Mondiale e dall'International Financial Inistitution in
quanto "progetti di lotta contro la povertà". (31).
Ovviamente le royalties che verrano pagate al Ciad e al Camerun per il
passaggio dell'oleodotto verranno vincolate al pagamento del debito estero di
questi due paesi. La caccia al tesoro che insanguina l'Africa, dunque, può
proseguire.
Questo scenario apertamente neocoloniale spiega, in buona parte, cosa è accaduto ed accade quotidianamente in Kurdistan, Cecenia, Afganistan, nell'Africa Occidentale, ma spiega anche le cause concrete della crescente conflittualità tra i vari poli imperialisti che si vanno spartendo materialmente le regioni strategiche del mondo. Il XXI Secolo si aprirà con un ritorno al passato più prossimo ?
Sergio Cararo
(6) ("L'OPEC al capezzale del greggio". Sole 24 Ore del 25
novembre 1998)
(7) (" La guerra e il barile pieno". Affari e Finanza del 21 dicembre
1998)
(8) ("Oil : a new scenario". In Business Week, settembre 1997)
(9) (Petrolio ai minimi. Crisi in vista". Sole 24 Ore del 18 novembre
1998)
(10) ("Per l'ENI è urgente trovare alleati". CorrierEconomia del 7
dicembre '98).
(11) ("Gli ultimi fuochi del Golfo". CorrierEconomia del 14 dicembre
'98).
(12) (" Verso il Duemila a tutto metano". Il rapporto della DRI
è su comparso
Mondo Economico del 24.4.1995)
(13) (" Gas e petrolio : guerra mondiale" Dossier del
"Mondo"del 18 ottobre 1997).
(14) (" La guerra di strade e pipeline". Sole 24 Ore del 23 dicembre
1998)
(15) "Il Grande Gioco del Petrolio "Le Monde Diplomatique, ottobre
1997)
(16) ("Caspian black gold". Reportage del Time, 29 giugno 1998)
(17) "La CEI dans tous ses ètats". Alternatives Economiques,
luglio-agosto'98)
(18) (" Il Grande Gioco dell'oro nero di Baku". Sole 24 Ore del
3.6.98)
(19) ("La battaglia dell'oleodotto". CorrierEconomia del 16.2.1998)
(20) Z. Brzezisnki in "La Grande Scacchiera", è interssante
notare che. Brzezinski come
altri ex consiglieri della sicurezza del Dipartimento di Stato USA, è oggi
consulente della multinazionale petrolifera Conoco con interessi nel Caspio.
(21) ("Grandi manovre intorno al petrolio del
Caucaso". Nur Dolay in Le Monde
Diplomatique luglio1995)
(22) (" Le pètrol au coer de la stratègie americaine".
Croissance,Francia, del marzo 1998).
(23) ("Mar Caspio : il nuovo Medio Oriente". Affari e Finanza",
15 settembre 1997)
(24) ("Il Caspio si allea a USA e Turchia". Sole 24 Ore del
30.10.1998)
(25) ("L'Asia tesse la rete dei gasdotti". Mondo Economico" , 2
giugno 1997)
(26) (" Petrolio : maledizione di Kabul".Corriere della Sera del 22
novembre 1998)
(27) ("Sull'asse del Danubio la battaglia dei Corridoi". Sole 24 Ore
del 12.12.1998)
(28) (La Nigeria è l'unico paese africano tra i primi 15 produttori mondiali di
petrolio ed è membro dell'OPEC).
(29) ("La ricchezza è il vero guaio dell'Africa". CorrierEconomia del
1 febbraio '98)
(30) ("La caccia al tesoro insanguina l'Africa". CorrierEconomia del
15 giugno '98)
(31) ("Petrolio in Ciad e Camerun. Ai poveri le
briciole".Altrafinanza gennaio '98)
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