Il testamento filosofico di Lukács

I parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in sei parti.

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Gyorgy Lukacs

1. Nel 2001 è caduto l'anniversario della morte di Georg Lukács (in ungherese Lukács György, prima il cognome e poi il nome), vissuto fra il 1885 ed il 1971. A trent'anni dalla sua morte, di Lukács non si parla praticamente più, come se la storia avesse definitivamente cancellato il suo pensiero. Ma non è così. La storia non cancella mai niente per sempre, ma solo congiunturalmente. In questa congiuntura storica il dominio del pensiero unico della globalizzazione capitalistica sembra invincibile, anche perché sono state pienamente normalizzate in senso conformistico le due categorie strategiche del nuovo clero deputato alla riproduzione allargata della legittimazione ideologica capitalistica, i giornalisti ed i professori universitari. Ma le congiunture storiche possono cambiare. Solo i coglioni credono veramente alla fine della storia. Lukács merita ampiamente di essere ricordato, ed è esattamente quello che farò in questo intervento. 2. Lukács è stato un politico intelligente e coraggioso, un critico letterario di prima grandezza, ed infine uno storico della filosofia stimolante e provocatorio. Per ragioni di spazio, tuttavia, non mi soffermerò su questi tre aspetti, che pure meriterebbero di essere esaminati. Voglio invece concentrarmi sul Lukács filosofo marxista. A mio avviso, e lo dico subito, Lukács è stato il più grande filosofo marxista del novecento. Mi rendo perfettamente conto che una simile affermazione è indimostrabile, perché la filosofia non è una scienza esatta (per fortuna), e quindi non si possono applicare quei parametri matematici e sperimentali che generalmente giustificano le attribuzioni di primato. La filosofia non distribuisce Oscar Hollywoodiani, e non vi sono in filosofia hit parade come per le canzoni di successo. Ma voglio comunque portare nel prosieguo del mio discorso alcuni argomenti razionali per giustificare questo mio impegnativo giudizio, per cui Lukács è stato il più grande, ed a mio avviso insuperato, filosofo marxista del novecento. Prego il lettore di riflettere su questi argomenti, perché è impossibile aprire una discussione se prima non si è avuto il coraggio di introdurre una tesi chiara, magari un po' "sbilanciata". La discussione è sempre discussione su tesi, ed in caso contrario è solo fatua chiacchiera narcisistica. 3. Naturalmente, so bene che nel novecento ci sono stati molti altri grandi filosofi marxisti. Faccio qui solo quattro esempi fra i molti possibili. Antonio Gramsci ha portato un grande contributo per legittimare teoricamente il senso comune prefilosofico della cultura popolare, e nello stesso tempo per mostrarne l'irresistibile deriva metafisica ed illusoria. Louis Althusser ha portato un grande contributo per ripulire della zavorra metafisica che le aveva incorporate e soffocate le categorie principali del materialismo storico marxiano. Theodor W. Adorno ha portato un grande contributo per mostrare le tendenze totalitarie, postdemocratiche e postliberali, dello stesso capitalismo occidentale maturo, e questo del tutto indipendentemente dalla contrapposizione al socialismo reale e al comunismo storico novecentesco. Ernst Bloch ha portato un grande contributo nell'allargare le fonti filosofiche del materialismo storico al giusnaturalismo rivoluzionario ed al messianesimo religioso, andando ben al di là della solita filosofia classica tedesca e della solita economia politica inglese. A questi nomi potrei ovviamente aggiungere anche Jean-Paul Sartre, che ha mostrato in che modo l'originario progetto rivoluzionario si serializzi e si pietrifichi in strutture anonime di autoriproduzione impersonali, ed un Galvano Della Volpe, che ha perseguito il programma di una trascrizione del marxismo in una scienza empirica di tipo galileiano. E si potrebbe ancora continuare. Tuttavia, resto sempre convinto dell'idea che Lukács appartiene ad una categoria superiore, assolutamente unica. Solo Lukács, infatti, ha veramente messo a fuoco il fatto che la filosofia marxista, se ha un oggetto specifico, ha il compito di evidenziare le categorie teoriche con cui viene prima pensata e poi concettualizzata la rivoluzione comunista contemporanea, o più esattamente la vera e propria transizione modale fra il modo di produzione capitalistico ed il comunismo. Althusser, Gramsci, Adorno, Bloch, Della Volpe e Sartre hanno lavorato su temi particolari, mentre invece Lukács ha proprio mirato al centro della questione. Come è possibile pensare filosoficamente la rivoluzione comunista ed il comunismo? Come è possibile fornire un adeguato spazio di pensabilità teorica ad un processo storico che non si è già compiuto, ma che è ancora in corso, ed il cui bilancio storico è ancora impossibile? Come è possibile, infine, trasformare la prospettiva del comunismo da semplice immagine mitica e da illusorio presupposto teleologico (e quindi solo grande-narrativo, ideologico-religioso, spinozianamente solo immaginario) in qualcosa di convincente, concreto e pertinente? Lukács si è impegnato onestamente in questo compito, ed a trent'anni dalla sua morte non ho nessuna intenzione di dimenticarlo per il semplice fatto che "non è più di moda" presso i superficiali ed i conformisti. 4. Quando Lenin morì nel 1924, Lukács ne diede un'interpretazione filosofica che a mio avviso resta tuttora valida. Secondo Lukács Lenin rappresentava al più alto grado "l'attualità della rivoluzione", il fatto che dopo la prima guerra mondiale ed il macello mondiale imperialistico la rivoluzione comunista è ormai storicamente attuale, e non bisogna continuare a suonare l'organetto dell'interminabile attesa della maturazione delle forze produttive, della tecnologia e della crescita della cultura popolare delle masse subalterne. In questo modo Lukács rompeva in modo irreversibile non solo con alcuni pensatori di tipo "evoluzionistico" (Karl Kautsky prima di tutto), ma con l'intero modo di pensare della sinistra del tempo. Nello stesso tempo e con lo stesso movimento del pensiero, Lukács capiva perfettamente che la riaffermazione dell'attualità della rivoluzione comunista resta un'inutile petizione di principio, se questa attualità è pensata e praticata in modo stabilmente settario e minoritario. E' allora necessario pensare l'attualità della rivoluzione comunista insieme con la prospettiva di una sua natura almeno potenzialmente maggioritaria ed egemonica. Si tratta, come appare chiaro, dello stesso nucleo teorico di Antonio Gramsci, che sostiene anche lui l'opportunità e la legittimità di una Rivoluzione contro il Capitale (di Marx, interpretato come una bibbia evoluzionistica e gradualistica) e la necessità di una egemonia e non di una semplice costrizione. Ma questi temi sono svolti in Lukács con una maggiore capacità sistematica, e la capacità sistematica è a mio avviso la cartina al tornasole per giudicare la qualità di una filosofia. 5. Si abbia dunque ben presente nella lettura di questo mio articolo il punto filosofico essenziale della filosofia di Lukács: attualità storica della rivoluzione comunista, e contestualmente necessità di pensarla in modo non settario e non minoritario. In filosofia, questo si chiama problema dell'universalismo reale, il fatto cioè che l'inizio di un processo storico dialettico può essere geneticamente particolare (il punto di vista della classe operaia e proletaria), ma l'esito di questo processo storico dialettico deve essere dotato di validità universalistica, riguardare dunque l'intera umanità mondializzata (ho detto mondializzata, non certo globalizzata dall'economia capitalistica, dal momento che la globalizzazione per sua stessa natura non è e non può essere un processo storico universalistico, ma è anzi basata sull'approfondimento delle disuguaglianze). Questo è a mio avviso il codice genetico di una vera filosofia marxista, che si può anche sintetizzare in tre termini successivi: affermazione dell'attualità storica di una rivoluzione anticapitalistica, superamento della sua fase iniziale necessariamente settaria e minoritaria, proseguimento progressivo e cosciente della sua universalizzazione reale.

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