Il maoismo

VII parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in nove parti.

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19. Gli anni Sessanta in Europa furono anni di grande conflitto per l'egemonia fra il trotzkismo ed il maoismo, e Parigi ne fu la vera capitale culturale. Se il lettore me lo permette, so perfettamente che cosa sto dicendo, perché ho vissuto in prima persona questo conflitto. Certo, esso non coinvolse le grandi masse, e per molti aspetti si trattò di una tempesta in un bicchier d'acqua. Ma io ero in quel bicchier d'acqua, e ricordo ancora perfettamente gli attacchi al trotzkismo del maoista Kostas Mavrakis e le difese appassionate del trotzkismo di Daniel Bensaid e di Alain Brossat. Il livello della polemica non era assolutamente basso, ed era comunque più alto delle polemiche ideologiche di oggi. Certo, oggi quel linguaggio settario appare insopportabile, ma nel contesto culturale del tempo rifletteva la rispettiva convinzione sincera di "incarnare il senso della storia", e di non poter fare sconti agli avversari.

Si trattava ovviamente di falsa coscienza necessaria. Nessuno di noi incarnava il senso della storia. Stavamo mettendo in scena una rappresentazione di un ciclo politico e storico che si stava chiudendo, non certo di un ciclo politico e storico che si stava aprendo. Presto sarebbero venuti il post-moderno, i nouveaux philosophes sponsorizzati come i deodoranti dalle grandi catene dei giornali imperialisti e sionisti, il "pensiero debole" che sosteneva la tesi "fortissima" dell'insuperabilità storica del capitalismo, la retorica sulla "perdita dei fondamenti" che lasciava come unico fondamento il valore di scambio delle merci, eccetera, eccetera.

Il conflitto teorico fra trotzkismo e maoismo non poteva che avere come proprio asse costitutivo fondamentale la questione della natura sociale dell'URSS e del socialismo reale. Il maggiore teorico trotzkista della seconda metà del Novecento, il belga Ernest Mandel, spese tesori di sapienza per confutare le tesi di Paul Sweezy e di Charles Bettelheim sulla natura degli stati socialisti. Ma qui secondo me il maoismo mostrò la sua sostanziale superiorità. Se esaminiamo ad esempio la prima produzione "filologica" di La Grassa nei primi anni Settanta vediamo che solo il maoismo occidentale permise un vero "ritorno critico" ai concetti basilari di Marx e della sua visione del modo di produzione capitalistico.

In questo contesto ovviamente l'importanza di Louis Althusser e della sua scuola non può essere sottovalutata. Althusser non era certo formalmente "maoista", ed era anzi un iscritto al PCF filosovietico, di cui sperò invano di diventare il teorico di riferimento. Se questo ruolo di principale teorico di riferimento toccò a Lucien Sève, e non ad Althusser, ciò fu dovuto al fatto che Sève era disposto a fornire una sintesi eclettica e non dirompente, mentre Althusser, grande pensatore radicale, era potenzialmente ingestibile ed incontrollabile. In ogni caso, il maoismo occidentale comprese ben presto che Althusser era il suo principale teorico di riferimento, mentre il trotzkismo nel suo complesso ignorò sempre Althusser, non riuscendo neppure a capire che cosa diceva e perché era importante. Dal momento che la grammatica teorica del trotzkismo era intessuta di economicismo e di storicismo, non poteva certo accorgersi che la critica all'economicismo ed allo storicismo era il presupposto per affrontare la devastante crisi teorica complessiva del marxismo stesso.

In Italia l'egemonia culturale del maoismo sul trotzkismo, evidente negli anni fra il 1968 ed il 1976, portò ad un passaggio diretto al maoismo da parte di noti intellettuali trotzkisti (e ricordo qui solo Luigi Vinci ed Augusto Illuminati). Se questo avvenne, non era certo per ragioni personali o opportunistiche, o perché c'era la seduzione esotica della rivoluzione culturale cinese. Non a caso (e scrivo questo senza nessuna malizia e senza nessuna illusione, ma per solo completezza storica) gli stessi teorici della lotta armata delle Brigate Rosse, quando dovettero sistematizzare teoricamente la loro concezione del marxismo, furono costretti a ricorrere alle categorie elaborate dal maoismo occidentale (e si veda il significativo documento L'Ape e il Comunista pubblicato dalla rivista "Corrispondenza Internazionale").

Con questo, lo dico e lo ripeterei mille volte, non affermo assolutamente che l'ideologia dominante nel movimento della lotta armata in Italia degli anni Settanta è stata il maoismo occidentale. Sarebbe un falso storico. Non è così. A mio avviso l'ideologia dominante della lotta armata è stata una forma di operaismo, nella doppia variante partitica (Brigate Rosse) e spontaneistica (Prima Linea). Con la mia nozione di maoismo occidentale tutto questo non c'entra niente. Ho solo voluto segnalare un particolare interessante.

20. Nel paragrafo precedente ho sostenuto che in Italia, a cavallo fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, il maoismo teorico è riuscito ad avere l'egemonia sul trotzkismo. A parte l'evidenza documentabile dei "flussi di uscita" di dirigenti e di militanti dal precedente trotzkismo verso forme di maoismo, più eclettiche come nel caso di Luigi Vinci e più rigorose come nel caso di Augusto Illuminati (e penso rispettivamente alle organizzazioni Avanguardia Operaia ed Avanguardia Comunista), c'è l'evidenza inconfutabile del matrimonio fra l'althusserismo italiano (di cui ovviamente La Grassa resta la figura centrale) ed il maoismo.

E tuttavia in Italia, per ragioni storiche che richiedono ovviamente un'analisi particolare (che personalmente ho ripetutamente svolto in altre sedi fino dal 1982), è stato l'operaismo l'ideologia dominante nella sinistra fuori dal PCI, e lo è stato in misura incomparabilmente più grande di quanto non lo siano stati il trotzkismo ed il maoismo. Non c'è qui lo spazio per fare delle ipotesi fondate. Certo, il ruolo di Raniero Panzieri nei suoi ultimi otto anni di vita (1956-1964) è stato molto importante (e si veda l'importante numero monografico a lui dedicato in "Aut Aut", n. 149-50, 1975). Ma Panzieri è ancora un teorico e militante classico, non il "fondatore" dell'operaismo. Personalmente, tendo ad attribuire questo discutibile merito a Mario Tronti, la cui bibbia teorica è quell'Operai e Capitale pubblicato da Einaudi negli anni Sessanta. Le ragioni dell'egemonia operaistica in Italia sono certamente molte, dalla presenza dell'operaio-massa di origine contadina nelle grandi fabbriche fordiste del Nord ed a Torino in particolare fino alla sotterranea continuità del soggettivismo del pensiero di Giovanni Gentile. Ed infatti così come in Gentile la soggettività filosofica costituisce il mondo con un suo atto originario fondativo, così nell'operaismo la soggettività operaia costituisce il rapporto di capitale con il comportamento della sua composizione di classe. Vorrei che il lettore avesse ben chiaro questo retroterra filosofico, perché anche nell'ultimo libro di Toni Negri Impero lo schema teorico è rimasto lo stesso, e la soggettività delle moltitudini biopolitiche disobbedienti e desideranti continua a costituire il mondo in modo "teurgico" ed "ontologico".

Detto in modo telegrafico, l'egemonia dell'operaismo nelle sue varie versioni si spiega con il fatto che Togliatti aveva creato una vera e propria Metafisica del Partito, ed il solo modo di contrapporsi simbolicamente in modo integrale a questa Metafisica del partito era quello di costruire una speculare Metafisica della Classe. Al marxismo come storicismo (Togliatti) era così contrapposto il marxismo come sociologia (Rieser, Panzieri, Tronti, Asor Rosa, eccetera). In questo contesto "totalitario" le due ideologie del trotzkismo e del maoismo potevano trovare solo uno spazio molto ridotto, ed infatti così avvenne. Si aggiunga a questo un fatto di lunga durata, e cioè la tradizionale indifferenza italiana per il dibattito ideologico serio, che non a caso si sviluppò molto di più in Francia ed in Germania.

L'operaismo fece poca teoria politica, ma fece molta cultura politica. È interessante notare che formalmente il gruppo di Potere Operaio si sciolse già nel 1973, ma quando a partire dal 1977 risorse la cosiddetta Autonomia il modello teorico operaistico rinacque tale e quale senza sostanziali cambiamenti. Il passaggio dall'operaio-massa al cosiddetto operaio-sociale è infatti un puro travestimento, così come lo sono del resto le odierne "moltitudini". Un proverbio russo dice: non ha imparato niente, non ha dimenticato niente. L'operaismo non impara mai niente e soprattutto non dimentica mai niente.

Agli occhi dell'operaismo, che pretendeva sempre di aderire (in buona compagnia di Kautsky) ai "punti alti dello sviluppo capitalistico", il maoismo era una forma di terzomondismo buono per i contadini straccioni senza terra. Anche in questo caso il passaggio dall'eurocentrismo all'americanocentrismo è molto breve, visto che per chi ignora il resto del mondo l'America è solo l'ultimo stadio di realizzazione dell'Europa. Ed infatti se vogliamo proprio essere "occidentalisti" tanto vale esserlo fino in fondo, ed abbandonare Parigi e la lingua francese per New York e la lingua inglese. I grattacieli sono più alti, il melting pot etnico è ancora più pittoresco, il cinema è ormai completamente virtuale.

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