30. L'empiriocriticismo russo (ed alludo qui soprattutto a Bogdanov ed a Vanentinov) è una corrente che cercò anch'essa una fondazione filosofica minimamente decente del marxismo. Per quanto ne posso capire (ma non ne sono uno specialista), gli empiriocriticisti avevano sostanzialmente ragione. È infatti vero che la conoscenza umana, presa nel suo complesso dinamico e processuale, è una sintesi sociale di "incontro" fra un soggetto conoscente ed un oggetto conosciuto. Certo, è sempre possibile postulare un oggetto sostanziale primario chiamato Materia, che rende possibile la costruzione umana successiva (cioè il "rispecchiamento") di questa sintesi sociale, ma questa postulazione è di tipo religioso, più esattamente di ateismo religioso. Si postula, insomma, ciò che sarebbe la base di un susseguirsi di verità relative tendenti asintoticamente all'inesauribile verità assoluta (è questa la versione kantiana del materialismo dialettico elaborata da Ludovico Geymonat). Ma i postulati sono sempre postulati, dalla filosofia alle geometrie non euclidee. Anche i postulati, infatti, sono elementi di una sintesi sociale. La stessa unità hegeliana di Soggetto ed Oggetto è una sintesi sociale. L'empiriocentrismo, infatti, è altrettanto hegeliano che kantiano, in quanto preferisce la teoria della costruzione sociale della conoscenza processuale alla teoria dell'avvicinamento asintotico ad un rispecchiamento materiale assunto come dato. Con parole diverse, Bachelard e Kuhn hanno poi detto le stesse cose. Cose che personalmente condivido nell'essenziale, rifiutando l'idea staliniana per cui i proletari rispecchiano il mondo così com'è, mentre i piccolo-borghesi lo costruiscono secondo le loro tentazioni traditrici. A mio avviso, questa è soltanto una forma di "gnoseologia paranoica", se mi si passa l'espressione blasfema.
31. Perché Lenin se la prese tanto con l'empiriocentrismo, al punto di chiudersi in biblioteca per confutarlo con un libro di insulti politico-filosofici, il noto Materialismo e Empiriocentrismo? In questo breve paragrafo, cercherò di rispondere a questa domanda.
Prima di tutto, una premessa. Oggi l'idea che un politico, seguito da portaborse sudati e frettolosi e perennemente impegnato al telefonino con chiacchiere irrilevanti di pettegolezzo parlamentare, possa stare per un anno in biblioteca a scrivere una confutazione filosofica appare degna non di Karl Marx, ma dei fratelli Marx, nel senso di Harpo e di Groucho. Eppure in questo impiego del tempo c'era una dignità che i moderni percettori di pensioni stratosferiche ed i moderni timonieri di panfili "proletari" hanno completamente perduto. Per questo, pur disapprovandone il contenuto filosofico propriamente detto, voglio premettere la mia ammirazione per il comportamento serio di Lenin.
Detto questo, perché tanto astio verso l'empiriocentrismo? A me sembra relativamente semplice. Lenin riteneva che il pensiero umano, così come "rispecchia" le leggi della fisica, della chimica e della biologia, "rispecchiasse" anche il passaggio dal capitalismo al socialismo. Questo passaggio, insomma, è come la deriva dei continenti. C'è, e basta. Se invece dovessimo ammettere che questo passaggio non "rispecchia" nulla di oggettivamente esterno, ma è una sintesi sociale, allora potrebbe anche non avvenire, perché le sintesi sociali si possono sempre fare o non fare. È curioso che nel 1917 Lenin si comportò poi praticamente da empiriocentrista, e non da rispecchiatore, in quanto fu parte attiva nel produrre una sintesi sociale. Ma questo meccanismo di falsa coscienza è tipico anche di molti credenti, come i musulmani ed i calvinisti (cioè Bin Laden e Bush), che prendono continuamente iniziative estremamente soggettive, e poi pensano di essere solo strumenti della volontà di Dio.
Alla svolta del Duemila, non c'è più dubbio oggi che il superamento del capitalismo, se mai avverrà, cosa niente affatto sicura, ontologicamente possibile ma anche ontologicamente non necessaria, sarà una sintesi sociale e non un processo di storia naturale. Ricordiamo che era esattamente ciò che stava dietro l'ipotesi filosofica degli empiriocentristi russi. Onore dunque a Bogdanov ed a Valentinov, non traditori ma invece veri e propri precursori.
32. Il secondo periodo della storia della filosofia del marxismo va dal 1914 al 1931, anno in cui Stalin impone per decreto di partito il materialismo dialettico. È evidente che il bagno di sangue della guerra 1914-1918 ha indirettamente anche conseguenze filosofiche. Tanto per cominciare, manda in pezzi la sintesi evoluzionistica di Kautsky, ed anche il movimentismo riformistico di Bernstein. I quali, morti poi entrambi negli anni Trenta, continuarono imperterriti anche dopo il 1918 a dire sempre le stesse cose di prima. Non si tratta solo di un legittimo e simpatico rincoglionimento senile. Si tratta del fatto che è non solo fisiologicamente, ma anche storicamente quasi impossibile staccarsi dalle sintesi filosofiche maturate nella propria giovinezza. Cosa, ovviamente, che vale anche per chi scrive queste righe, che a differenza di Silvio Berlusconi non ritiene di essere l'Unto del Signore, né dispone dell'investitura elettorale per esserlo.
33. Questo secondo periodo vede finalmente lo scontro fra proposte filosofiche diverse. Chi ragiona in termini merceologico-universitari si può stupire che abbia vinto proprio la proposta teoricamente peggiore, quella del materialismo dialettico di Stalin. Ma la realtà era del tutto invertita. Da un punto di vista universitario, la proposta di Stalin era la peggiore. Ma da un punto di vista ideologico, essa era incondizionatamente la migliore. Ed allora gli sconfitti hanno avuto solo quello che si sono meritati, visto che anche gli sconfitti accettavano nell'essenziale il terreno di Stalin, per cui lo spazio filosofico coincide in ultima istanza con lo spazio ideologico proletario. Se comprendiamo questo punto, la storia del marxismo teorico fra il 1914 ed il 1931 appare chiara e comprensibile. Se invece non lo comprendiamo, essa apparirà come una successione insensata di settarismi tragicomici.
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