Cominciamo dal fenomeno delle occupazioni, anzi delle Okkupazioni. Si tratta di un rito
politico annuale
stabile, dalla durata variabile fra una settimana ed un mese, rigorosamente
prenatalizio, che cominciò a svilupparsi intorno al 1975 e durò trionfalmente
fino a Fine Secolo (prescindo qui dal suo attuale uso strumentale
antiberlusconiano manipolato dai berlingueriani sconfitti). Vissuto con fastidio
dalla maggior parte degli insegnanti come interruzione della loro attività
didattica regolare, e vissuto con ludica gioia dagli adolescenti appena usciti
dalla scuola media come momento carnevalesco di casino generale adolescenziale
consentito ed annullamento del potere paterno (già ampiamente indebolito da
tendenze sociali ben più forti), il fenomeno della Okkupazione non ha a mio
avviso mai ricevuto l’attenzione che meritava.
Gli ottimisti hanno sempre detto
che si trattava di qualcosa di positivo, perché così gli studenti potevano
mostrare direttamente la loro soggettività e potevano anche trarne i loro primi
rudimenti di educazione politica (di sinistra, naturalmente).
I pessimisti
invece vi hanno visto uno dei tanti sintomi, sia pure secondari rispetto al
sesso, alla droga ed al rock-and-roll, del Tramonto dell’Occidente, della Caduta
dei Valori, e della Mancanza di Rispetto.
Vorrei pregare qui il lettore di non
lasciarsi andare frettolosamente a scegliere uno fra i due estremi
interpretativi qui indicati. Le Okkupazioni sono a mio avviso qualcosa di più
significativo. Si tratta di un vero e proprio rito preventivo di depotenziamento
della serietà della politica e della cultura, e pertanto di una sorta di
vaccinazione precoce, per cui politica e cultura vengono di proposito praticate
ed incontrate in un quadro di irresponsabilità ludica proclamata ed
istituzionalizzata. Al di là del folklore ben descritto da scrittori scolastici
di romanzi grotteschi come Domenico Starnone, in cui compaiono le macchiette da
Commedia dell’Arte dei bidelli incazzati per lo sporco, di presidi terroristi
e/o rassegnati, e della vasta gamma tipologica di insegnanti, l’Okkupazione è
stata (ed è, dove sopravvive, ma non è certo che possa sopravvivere al vero
aziendalismo sopravvivente) un rito sociale consentito. Consentito, lo ripeto,
per essere svuotato e neutralizzato. Si è trattato, a mio avviso, proprio di
quella “tolleranza repressiva” di cui parlò a suo tempo Marcuse, e di uno dei
fenomeni più feroci e cinici contro la gioventù mai messa in atto da generazioni
di adulti mercuriali ed opportunisti.
Passando a parlare di insegnanti, l’insegnante è qualcuno che ha la vocazione professionale
di insegnare, e non solo qualcuno che deve fare questo lavoro per ripiego e per
necessità. Personalmente, sono esattamente 35 anni che insegno (ho cominciato
nel 1967), e questa apparente ovvietà mi è molto chiara. Certo, questo non
esclude altre vocazioni, come quella dello scrittore, del ricercatore, del
politico, dell’artista, eccetera, vocazioni provvidenziali, perché impediscono
almeno in parte la deriva bambinistica, adolescenziale, paternalistica e
maternalistica insita in questo lavoro.
Qui voglio soffermarmi un attimo sul
fenomeno psicologico e sociologico di “fuga dall’insegnamento” di una parte
della generazione sessantottina, perché questa fuga dall’insegnamento sta alla
base di alcuni fenomeni del quinquennio Berlinguer-De Mauro. Io non credo
affatto che l’insegnante sia una figura sociale particolarmente “frustrata”,
come si dice spesso, e credo anzi che questa presunta onnipresente
“frustrazione” sia un luogo comune che gli insegnanti si ripetono per
autocommiserazione rituale, e che gli altri gli sputano addosso per inchiodarli
alla loro subalternità.
In trentacinque anni di insegnamento, io non mi sono mai
sentito frustrato dalla mia professione, ma semmai da altri fattori del tutto
diversi, come l’incorreggibile stupidità ed incapacità di trasformarsi del
decadente comunismo storico novecentesco, e come l’impermeabilità spocchiosa e
pigra dei suoi orrendi ceti intellettuali.
Ho fatto questa premessa sul “mito
della frustrazione” per inquadrare il fenomeno della “fuga dall’insegnamento” di
figure culturali molto specifiche. In primo luogo, c’è la fuga verso
l’università dei più ambiziosi ma anche spesso dei più dotati culturalmente sul
piano della ricerca e della originalità della proposta interpretativa. Questa
fuga è normale, e non la condanno certo moralisticamente. Il professore
universitario è pagato di più, lavora meno, e gode di un maggiore prestigio
sociale, oltre ad essere legittimato come produttore originale di cultura
(laddove l’insegnante medio è inchiodato socialmente ad un ruolo subalterno di
dilettantismo o al massimo di generoso volontariato). In secondo luogo, c’è la
fuga verso il sindacalismo scolastico, paradiso protetto per tutti coloro che
sono privi di vocazione professionale all’insegnamento ed hanno invece la
vocazione impiegatizia e dirigenziale per la manipolazione amministrativa. In
terzo luogo, c’è la fuga verso la galassia di istituti di formazione (CIDI,
IRSSAE, eccetera). Un tempo si diceva: chi sa, fa, chi non sa, insegna. Non è
sempre così per tutti i cosiddetti “formatori”, ma la mia ricca esperienza più
che trentennale mi ha fatto toccare con mano che la percentuale fra i formatori
di cattivi insegnanti è anormalmente alta. Si tratta di qualcosa che deve essere
spiegato.
alla parte successiva
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