Da Luigi Berlinguer a Letizia Moratti
intellettuali e scuola
sesta parte
 



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Si consiglia anche la lettura dello studio di Roberto Renzetti sul lavoro dei think tank e delle imprese, non solo italiane, che hanno portato alla costruzione delle riforme di Luigi Berlinguer prima e di Letizia Moratti poi.



di Costanzo Preve



Per agevolare la lettura, il testo è stato diviso in otto parti.

All'introduzione

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  • Cominciamo dal fenomeno delle occupazioni, anzi delle Okkupazioni. Si tratta di un rito politico annuale stabile, dalla durata variabile fra una settimana ed un mese, rigorosamente prenatalizio, che cominciò a svilupparsi intorno al 1975 e durò trionfalmente fino a Fine Secolo (prescindo qui dal suo attuale uso strumentale antiberlusconiano manipolato dai berlingueriani sconfitti). Vissuto con fastidio dalla maggior parte degli insegnanti come interruzione della loro attività didattica regolare, e vissuto con ludica gioia dagli adolescenti appena usciti dalla scuola media come momento carnevalesco di casino generale adolescenziale consentito ed annullamento del potere paterno (già ampiamente indebolito da tendenze sociali ben più forti), il fenomeno della Okkupazione non ha a mio avviso mai ricevuto l’attenzione che meritava.
    Gli ottimisti hanno sempre detto che si trattava di qualcosa di positivo, perché così gli studenti potevano mostrare direttamente la loro soggettività e potevano anche trarne i loro primi rudimenti di educazione politica (di sinistra, naturalmente).
    I pessimisti invece vi hanno visto uno dei tanti sintomi, sia pure secondari rispetto al sesso, alla droga ed al rock-and-roll, del Tramonto dell’Occidente, della Caduta dei Valori, e della Mancanza di Rispetto.
    Vorrei pregare qui il lettore di non lasciarsi andare frettolosamente a scegliere uno fra i due estremi interpretativi qui indicati. Le Okkupazioni sono a mio avviso qualcosa di più significativo. Si tratta di un vero e proprio rito preventivo di depotenziamento della serietà della politica e della cultura, e pertanto di una sorta di vaccinazione precoce, per cui politica e cultura vengono di proposito praticate ed incontrate in un quadro di irresponsabilità ludica proclamata ed istituzionalizzata. Al di là del folklore ben descritto da scrittori scolastici di romanzi grotteschi come Domenico Starnone, in cui compaiono le macchiette da Commedia dell’Arte dei bidelli incazzati per lo sporco, di presidi terroristi e/o rassegnati, e della vasta gamma tipologica di insegnanti, l’Okkupazione è stata (ed è, dove sopravvive, ma non è certo che possa sopravvivere al vero aziendalismo sopravvivente) un rito sociale consentito. Consentito, lo ripeto, per essere svuotato e neutralizzato. Si è trattato, a mio avviso, proprio di quella “tolleranza repressiva” di cui parlò a suo tempo Marcuse, e di uno dei fenomeni più feroci e cinici contro la gioventù mai messa in atto da generazioni di adulti mercuriali ed opportunisti.

  • Passando a parlare di insegnanti, l’insegnante è qualcuno che ha la vocazione professionale di insegnare, e non solo qualcuno che deve fare questo lavoro per ripiego e per necessità. Personalmente, sono esattamente 35 anni che insegno (ho cominciato nel 1967), e questa apparente ovvietà mi è molto chiara. Certo, questo non esclude altre vocazioni, come quella dello scrittore, del ricercatore, del politico, dell’artista, eccetera, vocazioni provvidenziali, perché impediscono almeno in parte la deriva bambinistica, adolescenziale, paternalistica e maternalistica insita in questo lavoro.
    Qui voglio soffermarmi un attimo sul fenomeno psicologico e sociologico di “fuga dall’insegnamento” di una parte della generazione sessantottina, perché questa fuga dall’insegnamento sta alla base di alcuni fenomeni del quinquennio Berlinguer-De Mauro. Io non credo affatto che l’insegnante sia una figura sociale particolarmente “frustrata”, come si dice spesso, e credo anzi che questa presunta onnipresente “frustrazione” sia un luogo comune che gli insegnanti si ripetono per autocommiserazione rituale, e che gli altri gli sputano addosso per inchiodarli alla loro subalternità.
    In trentacinque anni di insegnamento, io non mi sono mai sentito frustrato dalla mia professione, ma semmai da altri fattori del tutto diversi, come l’incorreggibile stupidità ed incapacità di trasformarsi del decadente comunismo storico novecentesco, e come l’impermeabilità spocchiosa e pigra dei suoi orrendi ceti intellettuali.
    Ho fatto questa premessa sul “mito della frustrazione” per inquadrare il fenomeno della “fuga dall’insegnamento” di figure culturali molto specifiche. In primo luogo, c’è la fuga verso l’università dei più ambiziosi ma anche spesso dei più dotati culturalmente sul piano della ricerca e della originalità della proposta interpretativa. Questa fuga è normale, e non la condanno certo moralisticamente. Il professore universitario è pagato di più, lavora meno, e gode di un maggiore prestigio sociale, oltre ad essere legittimato come produttore originale di cultura (laddove l’insegnante medio è inchiodato socialmente ad un ruolo subalterno di dilettantismo o al massimo di generoso volontariato). In secondo luogo, c’è la fuga verso il sindacalismo scolastico, paradiso protetto per tutti coloro che sono privi di vocazione professionale all’insegnamento ed hanno invece la vocazione impiegatizia e dirigenziale per la manipolazione amministrativa. In terzo luogo, c’è la fuga verso la galassia di istituti di formazione (CIDI, IRSSAE, eccetera). Un tempo si diceva: chi sa, fa, chi non sa, insegna. Non è sempre così per tutti i cosiddetti “formatori”, ma la mia ricca esperienza più che trentennale mi ha fatto toccare con mano che la percentuale fra i formatori di cattivi insegnanti è anormalmente alta. Si tratta di qualcosa che deve essere spiegato.



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