Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.
Alla parte precedente
All'introduzione
A metà degli anni Settanta del Novecento cominciano ad esaurirsi
storicamente le ragioni che avevano portato un secolo prima alla dicotomia
sinistra/destra. Di questo sono ormai certissimo, e condivido le motivazioni
di chi lo dice da tempo proveniendo da "sinistra" (Gianfranco La Grassa) e da
"destra" (Marco Tarchi). Tuttavia, mi rendo conto che questa situazione
storica è oscurata da chi si ostina a vedere il ventennio 1970-1990 come un
periodo storico in cui ad un primo momento di attacco della cosiddetta
"sinistra" (1967-1979) è succeduto un vittorioso contrattacco della "destra"
(1979-1990). Dal momento che questa visione storiografica è diffusa, vale la
pena ricordarne le ragioni.
Il 1968 è l’anno internazionale della contestazione studentesca, ed appare
ovviamente come un anno di sinistra. Dipende ovviamente da come lo si
interpreta. Personalmente, in accordo con il francese Lipovetsky, tendo a
vedere globalmente il Sessantotto come un episodio cruciale della storia
dell’individualismo moderno, in cui una contestazione nichilista ed anarcoide
della morale vetero-borghese fu scambiata erroneamente (Marx avrebbe detto
"con falsa coscienza necessaria") per un attacco utopico complessivo
all’intero modo di produzione capitalistico. Balle. Più serie furono le lotte
operaia italiane (ma anche europee) del periodo 1967-1974, che non ebbero però
in nessun momento un carattere rivoluzionario antisistemico se non nelle
affabulazioni oniriche degli operaisti pazzi. Si trattava di oneste lotte
sindacali di tipo socialdemocratico di "integrazione" nella normale società
dei consumi piccolo-borghese europea. Ancora più serie furono le transizioni
di paesi fascisti o semi-fascisti (Grecia 1974, Portogallo 1974, Spagna 1975)
verso la normale democrazia pluralistica, il migliore involucro possibile che
il capitalismo possa augurarsi. Poi ci furono una serie di vittorie comuniste
vere e proprie (Vietnam, Laos e Cambogia 1975, Etiopia 1976, Afganistan 1978,
Nicaragua 1979), che portarono ad una sovraesposizione militare dell’URSS in
incipiente crisi economica.
Infine ci fu il sorgere del fondamentalismo
islamico rivoluzionario (Iran 1979) che mi permette di inserire fra le forze
storiche anti-sistema. E’ del tutto normale che avvenimenti storici di questo
tipo (ed altre che non elenco per ragioni di spazio) possono essere
interpretati come episodi di un ciclo politico di "sinistra" (ma fra di essi
non cito episodi minori ridicoli, come il cosiddetto "compromesso storico"
italiano).
A questo ciclo politico di sinistra (che ora appare comunque l’ultimo
canto del cigno di una fase storica morente, e non l’alba di una nuova ondata
di lotte rivoluzionarie per il comunismo) si sostituì a partire da metà degli
anni Settanta una controffensiva politica di destra. Una data per me
importante, ed anzi decisiva, è il 1976, in cui in Cina ad un mese dalla morte
di Mao Tze-Tung la direzione politica maoista (la cosiddetta "banda dei
quattro") fu abbattuta, e la Cina iniziò un riaggiustamento economico in
direzione privatistica e capitalistica di importanza strategica. Ovviamente,
colgo l’occasione per dire che io non ho assolutamente nulla da eccepire,
anche perché ciò che qualunque persona bennata può chiedere alla grande Cina
non è certo di fare il comunismo per noi che ne siamo pateticamente incapaci
(ed era ciò che a quei tempi le chiedevano i maoisti populisti e salmodianti),
ma semplicemente di opporsi strategicamente all’impero americano. Per questo
tutto mi va bene in questo momento, compreso Attila Re degli Unni.
Dal 1975 in
America Latina comincia la strategia del massacro sistematico degli oppositori
(desaparecidos non solo argentino), ed è questo un capitolo storico che viene
quasi sempre solo affrontato in chiave umanitari e giudiziaria, mentre si
tratta di una scelta storica di guerra totale da parte degli USA e dei suoi
alleati (in primo piano la Chiesa cattolica latinoamericana, connivente e
conservatrice).
Dal 1975 in Africa gli USA alleati strategici del Sudafrica
dell’apartheid e con il capillare aiuto dei boia israeliani esperti in
controguerriglia, inizia una guerra strategica contro i movimenti di
liberazione africani (Angola e Mozambico in primo luogo, con l'a’poggio armato
degli assassini dell'UNITA e della RENAMO).
Poi arrivano ovviamente Reagan e
la Thatcher insieme con la rivoluzione neo-liberista, che è però soltanto
l’aspetto sovrastrutturale di una più profonda modificazione della produzione
capitalistica complessiva, che il termine di post-fordismo connota in modo
economicistico e del tutto insufficiente. Si tratta infatti di qualcosa di più
radicale e profondo di semplici mutamenti tecnologico di processo e di
prodotto.
Il crollo, o meglio la dissoluzione implosiva del comunismo storico
novecentesco non può essere a mio avviso interpretata come una semplice
vittoria della destra contro la sinistra. In Occidente tutto il ceto
intellettuale corrotto e stravolto vede con vero giubilo il crollo dell’URSS,
senza rendersi conto che il vero problema tragico non è la perdita del potere
da parte di burocratici cinici e corrotti (e comunque velocemente riciclati in
intermediari economici della finanza mafiosa interna ed esterna), ma lo
sprofondamento nella miseria di massa di milioni di sudditi privati di
rappresentanza politica e soprattutto il venir meno di un contraltare
strategico all’impero americano armato. Ho fatto notare in un paragrafo
precedente che personalmente non considero il comunismo storico novecentesco
(nel senso di socialismo reale statualmente garantito) come un fenomeno di
sinistra, ma come un dato storico che nasce a sinistra geneticamente, ma
appena preso il potere deve allargare la sua base ideologica oltre i confini
della sinistra stessa (nazionalismo in URSS, confucianesimo in Cina,
bolivarismo a Cuba, eccetera).
Ritengo che oggi l’avversario principale dei popoli del mondo sia l’impero
americano potentemente armato, che non trova purtroppo alcun contrappeso
economico, politico, culturale, militare e geopolitico sufficiente. In questo
non c’è da parte mia nessun antiamericanismo, anzi. Amo la cultura americana e
la lingua inglese, ed in generale non penso che esistano popoli cattivi. Mi
ripugna il sionismo, ma mi ripugna anche l’antisemitismo di ogni tipo. Essere
contro Hitler non significa essere contro i tedeschi, così come essere contro
Pol Pot non significa essere contro il popolo cambogiano.
Non credo
assolutamente che la categoria scientifica da cui partire per interpretare lo
stato attuale del mondo sia quella di globalizzazione neoliberista, come
ritiene Vittorio Agnoletto, ma resti quella di imperialismo, nel significato
datole soprattutto nei più recenti scritti di Gianfranco La Grassa. Ma
l’attuale sinistra non è più in grado di capire cosa sta accadendo, ed è
allora necessario ristrutturare radicalmente il nostro modo di vedere le cose.
Mi avvio alla conclusione. Tuttavia, il lettore ha diritto ad una
conclusione chiara ed univoca da parte mia, in cui dica chiaramente perché la
dicotomia è obsoleta, e perché siamo giunti all’esaurimento ed al superamento
di una tradizione che fissava la contrapposizione di identità e appartenenze
rigide. In estrema sintesi, si tratta di due punti essenziali intorno a cui il
resto gira intorno: il problema del comunitarismo moderno come filosofia
politica migliore dell’individualismo liberale, e la difesa di uno
stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non
nazionalista, razzista ed imperialista.
Esaminiamo brevemente questi punti programmatici, che sono appunto al di
là della dicotomia tra sinistra e destra. In primo luogo, il comunitarismo
moderno è oggi in grado, a mio avviso, di correggere radicalmente l’errore
mortale del vecchio comunitarismo ottocentesco e primonovecentesco, e cioè
l’organicismo (in altre parole, la "Gemeinschaft" contro la "Gesellschaft").
Oggi il comunitarismo, correttamente inteso ed elaborato, è in grado di
accogliere le buone ragioni del migliore individualismo, e cioè la tolleranza
degli stili di vita minoritari, il diritto alla libera espressione artistica,
filosofica e religiosa, eccetera. Io penso sinceramente che il migliore
comunitarismo può accogliere le lezioni filosofiche di Spinoza e di Marx. Il
terreno dell’individualismo, invece, è oggi il terreno filosofico comune
dell’incontro del nuovo capitalismo globalizzato dei consumi mirati (ed
appunto "individualizzati" e non più fordisti e serializzati) con la sinistra
snob e politicamente corretta. Potrei fare mille esempi tratti dalla
quotidianità, ma credo che il concetto sia già chiaro abbastanza.
In secondo
luogo, lo stato nazionale fondato su di una democrazia nazionalitaria (e
rimando qui alle analisi svolte da parecchi anni dalla rivista "Indipendenza",
cui onoro di collaborare) non ha più nulla a che vedere con i vecchi
stati-nazione imperialisti, che Toni Negri continua a scambiare in pittoresca
e irritante confusione. Oggi questo Stato-nazione è soprattutto un fattore di
resistenza all’impero americano. Per questo Chávez è buono in Venezuela.
Chevènement è buono in Francia. La giunta militare della Birmania,
sputacchiata da tutti i giornalisti di sinistra è ottima, e forse risparmierà
al suo popolo buddista di diventare un bordello per pedofili europei e
giapponesi come la vicina Tailandia.
La Cina è buona, finché resta forte ed
indipendente. E potremo continuare, ma il lettore avrà già perfettamente
capito. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale di 180°, ed essa
purtroppo non verrà presto.
So perfettamente che agli occhi di un sinistro
politicamente corretto quanto ho scritto non è inglese o tedesco, cioè in
parte comprensibile, ma armeno e turco cioè completamente incomprensibile. Non
importa. Chi ha buone ragioni deve andare avanti. E noi sappiamo che le nostre
ragioni sono ottime.
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