4. La teoria
di Lenin del partito politico rivoluzionario
La teoria leniniana del partito politico rivoluzionario è
considerata secondo l’opinione comune come il “pezzo” più importante, duraturo
e pregiato del contributo di Lenin al marxismo. Non è questa la mia personale
opinione. La mia opinione è che il “pezzo” più importante, duraturo e pregiato
del contributo di Lenin sia la sua teoria dell’imperialismo, secondo una
particolare accezione (il salto dall’eurocentrismo implicito marxiano alla vera
mondializzazione) che cercherò di chiarire nel prossimo paragrafo. Ma per ora
cerchiamo di ragionare in modo critico e spregiudicato sulla teoria leniniana
del partito, la cui prima formulazione è nel Che fare? (1903), ma che
poi si presenta in tutte le opere posteriori di Lenin.
In primo luogo, bisogna dire ben chiaro e forte che la
teoria leninista del partito è completamente assente in Marx e Engels. Il
Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels del 1848 è la
dichiarazioni di intenti storica non di uno specifico partito politico (ed infatti
Marx e Engels nel biennio 1848-49 si rifiutarono di aderire ai gruppi politici
comunisti dell’epoca, ma aderirono invece a forze democratiche non comuniste),
ma di una sorta di “partito-tendenza”, la cui natura era quella di coprire
un’intera fase storica, e non quella di agire come gruppo organizzato in un
panorama politico dato. E’ vero che nel corso delle battaglie politiche della
cosiddetta Prima Internazionale (in realtà AIL, associazione internazionale dei
lavoratori) Marx e Engels ebbero spesso accenti “partitistici” contro le
posizioni anarchiche di Bakunin, ma questo non basta per farli diventare
“partitisti” nel senso di Lenin.
E vi è per questo una ragione precisa. Se è
vero, infatti, che per Marx il comunismo non è il prodotto politico dell’agire
di un partito, ma è il prodotto storico della formazione di un lavoratore
collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo
manovale, alleato con le potenze scientifiche evocate dalla produzione
industriale moderna e da Marx connotate con la parola inglese general
intellect, ne consegue allora che in questo modello dialettico di
costituzione di una nuova società non c’è veramente lo spazio teorico per il
ruolo decisivo di un partito politico. Certo, Marx e Engels erano favorevoli
alla cosiddetta “capacità politica della classe operaia”, in polemica con gli
anarchici ed i sindacalisti puri, ma anche questa loro cristallina posizione
non ha nulla a che fare con la teoria della decisività di un partito politico.
Risulta chiaro da un’onesta lettura filologica di Marx che per lui la
“dittatura del proletariato” era concepita come una dittatura democratica delle
maggioranze auto-organizzate in autogoverno politico ed in autogestione
economica, e non come la dittatura di un partito inteso come il “rappresentante
degli interessi storici” del proletariato. Che poi queste maggioranze
auto-organizzate si rivelarono impossibili, impraticabili e del tutto
“utopistiche” nella storia reale successiva alla morte di Marx (1883) è vero,
ma di per sé questo non cambia di un grammo la posizione di Marx. In una
parola, la teoria leniniana del Che Fare? è una revisione di Marx molto più grande di quelle coeve di Bernstein e
di Kautsky.
In secondo luogo (e questo secondo punto è immensamente
più importante del primo) la teoria leniniana del partito presenta a mio
avviso una vera e propria contraddizione strutturale insanabile fra la
sua concezione del marxismo come “scienza”, da un lato, e la concezione del
“centralismo democratico”, dall’altro. Se il marxismo è concepito come scienza,
infatti, non è possibile sostenere contemporaneamente che le decisioni
“scientifiche” possano essere prese a maggioranza, in quanto per definizione
la “scienza”, se è veramente tale, non procede a colpi di maggioranza e di
sottomissioni disciplinate della minoranza. La cosa è intuitiva, ma è di tale
importanza da meritare una analisi più dettagliata e approfondita.
Com’è noto, nel Che Fare? Lenin sostiene che la
classe operaia, salariata e proletaria di per sé, nelle sue lotte economiche
immediate, può soltanto maturare una visione limitata e sindacalistica, mentre
per poter impadronirsi teoricamente dell’insieme dei rapporti sociali
capitalistici di produzione deve poter giungere alla “scienza marxista”, che
solo il partito nella sua collegialità può veramente acquisire. Di tutto
questo, si noti bene, in Marx non c’è neppure l’ombra. Nello stesso tempo, a
mio avviso, Lenin aveva completamente ragione, perché solo un cieco e/o un
illuso può veramente pensare che da uno sciopero economico si possa risalire
alla totalità dei rapporti di produzione. Non intendo certamente contestare
Lenin su questo punto. I cosiddetti “spontaneisti” possono restare tali solo
perché non ragionano e non intendono ragionare e prendere atto dell’evidenza.
Da tempo mi sono reso conto che la confusione non è un argomento razionale.
L’insieme dei rapporti sociali di produzione in una
formazione economico-sociale è dunque un oggetto scientifico che deve
essere analizzato con un metodo scientifico. Trattandosi di una scienza
sociale (più esattamente di una ontologia dell’essere sociale), è a mio avviso
del tutto erroneo e fuorviante cercare di applicarvi l’oggetto ed il metodo di
una scienza naturale. Su questo punto, il mio disaccordo con Lenin è radicale, così
come con tutti coloro che ritengono che le scienze naturali e quelle sociali
abbiano un oggetto omogeneo ed un metodo simile. Ma in questa sede questo
problema, pur così cruciale, è un semplice dettaglio secondario. Eguale o
diverso che sia il metodo ed il suo oggetto, in ogni caso la “scienza” non può
essere decisa con il metodo delle maggioranze e delle minoranze.
Il principio del “centralismo democratico”, invece,
sostiene di fatto proprio questo. Questo principio sostiene che ci si può
dividere fra maggioranze e minoranze nel momento preliminare della presa delle
decisioni, ma poi, una volte prese le decisioni, la minoranza dissenziente deve
impegnarsi a portare avanti la “linea” presa dalla maggioranza.
Tutto questo è compatibile con una bocciofila o con una
industria automobilistica, ma non con un’organizzazione che pretende di basarsi
sulla “scienza” marxista. Una bocciofila può dividersi se investire in nuovi
campi da bocce o in corsi di bocce per adolescenti. Un’industria
automobilistica può dividersi sulle
scelte di nuovi modelli. In entrambi i casi (ed in migliaia di casi analoghi
che il lettore potrà facilmente fare) non si ha a che fare con una pretesa di
“scienza”. Ma il partito di Lenin pretende di essere il titolare della
“scienza” marxista. Ora, il solo titolare di qualsiasi scienza
(naturale, sociale o filosofica che dir si voglia) è il libero convincimento
del singolo scienziato. Tutta la teoria della filosofia occidentale, da Socrate
in poi, si basa sul principio per cui la “verità”, ammesso che esista, non si
decide a maggioranza, ma è oggetto di attività razionale autonoma. Se si fosse
dovuto decidere a colpi di maggioranza e minoranza, oggi lo sappiamo bene,
Copernico, Galileo e Darwin avrebbero certamente perso.
Questa contraddizione fra preteso carattere scientifico
del marxismo, da un lato, e principio del centralismo democratico (in cui le
minoranze si sottomettono alle maggioranze anche se non “convinte”) dall’altro,
è assolutamente insanabile. O si abbandona la pretesa che il marxismo
sia una “scienza”, e allora si possono accettare procedure consensuali di
maggioranza e minoranza, oppure si tiene fermo al fatto che è in qualche modo
una “scienza”, ed allora non esiste centralismo democratico che tenga. Per
questa ragione, la concezione leniniana del partito contiene in sé in potenza
il principio della scissione interminabile. Non si tratta di una
patologia, ma di una fisiologia inevitabile. Se il marxismo è “scienza”,
infatti, ci mancherebbe altro che io mi debba sottomettere ad una casuale
maggioranza. Solo la mia coscienza è sovrana indivisibile sulla mia “scienza”.
Tutti i fuochi di sbarramento ideologici approntati in un secolo per nascondere
questo fatto incontrovertibile, e cioè che la “scienza”, se è scienza, non si
sottopone al principio di maggioranza (centralismo democratico), perché se no
non è scienza, ma un’altra cosa, rivelano il loro carattere strumentale e
miserabile (individualismo piccolo-borghese, anarchismo piccolo-borghese, liberalismo
piccolo-borghese, e via farneticando). E’ evidente che qui la “piccola
borghesia” diventa una categoria demonologico-inquisitoria per esorcizzare il
diritto indiviso del soggetto autonomo moderno ad affrontare la filosofia
filosoficamente e la scienza scientificamente.
In terzo luogo, per finire, il partito di Lenin è uno
stato in miniatura, una sorta di “socialdemocrazia emergenziale militarizzata”,
e più esattamente uno “stato ideologico in potenza”. Non uso queste espressioni
per criticarlo o per liquidarlo sommariamente. Al contrario. Uso queste
espressioni per segnalare come già Marx, in polemica con Lassalle, aveva
escluso che lo stato, sia pure riformato o “operaio”, potesse essere lo
strumento politico per il superamento del capitalismo. Lo stato, infatti,
incorpora nella sua struttura differenziali di sapere e di potere che non
possono essere neutralizzati “ideologicamente”. Su questo punto è permesso,
naturalmente, criticare Marx per “utopismo”, riaffermare la validità dello
stato democratizzato e soprattutto considerare insostenibile la teoria
dell’estinzione dello stato. Chi scrive, tra l’altro, pensa proprio questo. Ma
allora bisogna avere il coraggio di essere apertamente “revisionisti”, perché
Karl Marx, il fondatore della ditta, non
pensava questo, ma pensava il contrario.
Concludiamo sul punto del partito. Accusare Lenin non ha
senso, perché egli non ha fatto altro che prendere atto radicalmente di un dato
già allora visibile (ed oggi incontrovertibile), cioè l’assoluta incapacità
della classe operaia, salariata e proletaria, presa nella sua immediatezza
sociologica, di operare “spontaneamente” un superamento del capitalismo. Ci
voleva comunque un rimedio, e Lenin propose un nuovo tipo di partito
rivoluzionario “integrale”, una sorta di ordine religioso anti-capitalistico.
Non ha funzionato. Mai fidarsi di preti e sacerdoti. Tradiranno il messia prima
che il gallo abbia cantato tre volte. Non c’è bisogno per questo di rivolgersi
a Roberto Michels o a Leone Trotzky. Ma di fronte alla miseria intellettuale
dei cosiddetti “spontaneisti” (ultima versione, la più grottesca di tutte, il
lottacontinuismo italiano degli anni 1969-1976), Lenin fa la figura di un
gigante.