7. La teoria
di Lenin sul materialismo dialettico, sulla filosofia e sull’ideologia
Ho cercato fino ad ora nei tre precedenti paragrafi di
dare una lettura “aporetica” di Lenin, di mostrare cioè le contraddizioni
interne di teorie che i nemici e gli amici presentano in generale come semplicemente “tetiche”, cioè
organicamente compiute, per i nemici completamente cattive e per gli amici
completamente buone. A mio avviso, però, i “veri amici” sono quelli che
segnalano i difetti, ed in questo caso non ho certamente paura a definirmi un
vero amico di Lenin.
A proposito della teoria dell’imperialismo, ho detto che
essa è buonissima e pienamente valida anche oggi (sia pure con ovvie correzioni
di bilancio storico), ma bisogna pure aggiungere che essa non risolve e non può
risolvere il problema cruciale dell’individuazione delle forze sociali e
storiche strategiche capaci di un superamento della produzione capitalistica,
che invece la teoria marxiana originaria in qualche modo segnalava, sia pure in
base ad ipotesi scientifiche errate (classe operaia e proletaria, lavoratore
collettivo cooperativo associato, general intellect, eccetera).
A
proposito della teoria del partito politico, ho affermato che a mio avviso la
sua contraddizione principale sta in ciò, che da un lato afferma che il partito
è titolare della scienza sociale marxista della rivoluzione, e dall’altro lato
questa presunta “scienza” è affidata al gioco delle maggioranze e delle minoranze
di un comitato centrale, il cosiddetto “centralismo democratico”, laddove
ovviamente la scienza, se è veramente scienza, non procede mediante il gioco
casuale delle maggioranze e delle minoranze che vi si sottomettono.
Io posso
proceduralmente sottomettermi come cittadino italiano a Berlusconi, Prodi o
D’Alema, per me tutti “alieni” e nemici, ma questa sottomissione è
integralmente “procedurale” e dovuta alla mia accettazione del principio
democratico delle maggioranze elettorali, ma non posso certo “sottomettermi”
alle opinioni di Armando Cossutta o Fausto Bertinotti, se le ritengo scientificamente errate e
talvolta (come nel caso di Bertinotti) addirittura demenziali. A proposito
infine della teoria delle alleanze di classe, ho sostenuto che esse sono molto
sagge, e che lo stesso Marx lo aveva a suo tempo capito quando aveva sostenuto
che “gli a solo della classe operaia si trasformano in cerimonie funebri”
(verità autoevidente per tutti, al di là delle scolastiche settarie di vario
tipo), ma che questo riconoscimento poteva entrare in rotta di collisione con
quel monismo sociologico largamente mitico
definito “proletarizzazione” universale e globale.
Toccando ora il quarto tema della cultura e della
filosofia mi soffermo in quello che è di fatto il mio “specialismo”, il che non
significa ovviamente che io abbia ragione, ma semplicemente che si tratta di
questioni cui ho dedicato maggiore studio ed attenzione da almeno quaranta
anni. Anche qui siamo di fronte a mio avviso ad una contraddizione. Da un lato,
apprezzo molto il fatto che Lenin, mostrando qui un saldo orientamento
culturale, abbia sempre esplicitamente rifiutato le teorie dicotomiche sulla
contrapposizione di una scienza borghese ad una scienza proletaria, di un’arte
borghese e di un’arte proletaria, ed infine di una letteratura borghese e di
una letteratura proletaria.
Con sicura e sostanzialmente corretta intuizione,
pur non avendo mai studiato sistematicamente il problema, Lenin capisce
l’essenziale, e cioè che la scienza, l’arte e la letteratura non sono né
borghesi né proletarie, ma semplicemente sono o non sono. O meglio, è
ovvio che la loro genesi psicologica e sociale ed anche il loro consumo
sono fortemente influenzati dal classismo antagonistico, ma la loro validità
scientifica, artistica e letteraria produce alla fine un risultato universale.
E’ vero che Lenin non ha incertezze solo sulla scienza, mentre per quel che
riguarda l’arte e la letteratura a volte ha oscillazioni. Ma in generale egli
tiene fermo su questa corretta impostazione.
Dall’altro lato, e non posso nasconderlo, e desidero anzi
“denunciarlo” con particolare veemenza, il giusto atteggiamento
“universalistico” che Lenin riconosce alla letteratura, all’arte e alla
scienza non viene
sciaguratamente riconosciuto alla filosofia, che Lenin considera una forma di
“ideologia”, ed a cui non è pertanto disposto a riconoscere uno statuto
“universalistico” concesso giustamente alla letteratura, all’arte ed alla
scienza. Su questo punto cruciale il mio dissenso con Lenin è massimo ed
incomponibile. Non si tratta però solo di una questione di “gusto personale”.
Penso invece che, l’identificazione di fatto dello spazio filosofico con lo
spazio ideologico, con la successiva nefasta definizione del “materialismo
dialettico” come filosofia identitaria del partito comunista, eccetera, sia
stata una delle malattie inguaribili ed incurabili del movimento comunista
novecentesco nel frattempo defunto (1917-1991).
Occorre partire dall’inizio, anche a costo di ripetermi e
di essere noioso, perché qui si gioca una partita culturale decisiva. Lo
statuto filosofico originario di Karl Marx era una variante dell’idealismo
classico tedesco, e più esattamente una libera reinterpretazione di temi tratti
da Fichte e da Hegel, mentre invece non era per nulla un “materialismo” nel
senso di Feuerbach o un “criticismo” nel senso di Kant. Il fatto che fosse
indubbiamente una filosofia dell’attività, della prassi e della trasformazione
non ne fa affatto un “materialismo”, perchè tipico del materialismo è semmai il
sopportare la situazione presente (Epicuro, Leopardi, eccetera).
E’ semmai
tipico dell’idealismo, che cerca di conciliare il “reale” con “l’ideale”, spingere ad una filosofia della
prassi. L’unico sensato significato di “materialismo” che può essere dato alla
filosofia di Marx è quello di ateismo o se vogliamo di critica della
“alienazione religiosa”, ma il dire che al mondo c’è solo la “materia” come
oggetto di conoscenza è una tesi scientifica, non filosofica, e meno si
confondono i due piani e meglio è.
L’appartenenza integrale di Marx (o almeno
del Marx filosofo) alla tradizione idealistica (Platone, Proclo, Fichte, Hegel,
con tutte le differenze che qui devo ovviamente trascurare) è stato
riconosciuto in Italia da almeno due notevoli filosofi, Giovanni Gentile e
mezzo secolo dopo Lucio Colletti. Il fatto che uno sia diventato fascista e
l’altro berlusconiano non cambia di un grammo l’esattezza della diagnosi, e non
cambia nulla il fatto che ciò che per Colletti è un male e la prova provata
della non-scientificità di Marx, per me invece è un bene e la prova provata
della discendenza di Marx dalla grande tradizione filosofica greca (Platone e
Aristotele) e tedesca (Fichte e Hegel). Inoltre chi scrive non è né fascista né
berlusconiano ma si considera un comunista critico indipendente, e sarebbe
lieto che questo gli fosse anche riconosciuto.
Ritorniamo a noi. Marx dopo un certo periodo non si occupa
più di filosofia.
Sarebbero bastate due settimane nel 1875 per scrivere
cento pagine per chiarire le sue posizioni, ma non lo ha fatto. Non è
certamente perché “gli mancava il tempo” (ho dovuto leggere anche questa
idiozia), ma probabilmente perché non lo riteneva più necessario. Egli credeva,
ritengo, che la sua filosofia fosse stata ormai interamente “metabolizzata” nella
sua ipotesi scientifica anticapitalistica, e non ci fosse allora bisogno di
“raddoppiare” l’oggetto già studiato e scandagliato. Ma questa posizione, per
cui la filosofia è inutile perché ormai “assorbita” nella scienza, in filosofia
ha un nome, e si chiama positivismo. L’ultimo Marx, al di là di fatue frasi sul
“rovesciare Hegel dalla testa sui piedi”, frasi che non significano
assolutamente niente e vengono ripetute da tutti i dilettanti del mondo che le
ripetono solo perché non sanno neppure cosa significano, è un filosofo
positivista implicito.
Proseguiamo. L’amico Engels, in questo sostanzialmente
fedele a Marx, decise di occuparsi sistematicamente di filosofia con un
volenteroso dilettantismo degno di miglior causa. Egli fu il “traghettatore”
dal positivismo implicito al positivismo esplicito. Come tutti i dilettanti,
iniziò con una confusione fra ontologia e gnoseologia, cioè fra teoria
dell’essere e teoria della conoscenza, e definì allora il materialismo e
l’idealismo (che sono posizioni ontologiche) in termini gnoseologici, cioè nei
termini della teoria gnoseologica del “riflesso” (Wiederspiegelung), per cui il
materialista era colui che “rifletteva”, o meglio rispecchiava, la realtà,
mentre l’idealista era quello che la costruiva arbitrariamente. Il generoso
dilettante metteva così le basi di una confusione destinata a durare almeno un
secolo.
E siamo allora giunti finalmente al nostro Lenin. Lenin
era convinto che il “materialista” è colui che rispecchia scientificamente la
realtà che esiste indipendentemente da noi, e che per esempio non può
rispecchiare Dio, perché Dio non esiste, e solo la “materia” (metafora per
indicare sia la natura che la società) esiste. Egli si imbestialiva in modo
indecente, ed assai poco filosofico, nei confronti degli oppositori (in
proposito, tristi ed esilaranti sono soprattutto le memorie di Valentinov, un
intelligente empiriocriticista con cui Lenin ruppe una vecchia amicizia per
esclusive ragioni “filosofiche”), per un fatto non difficile da segnalare. La
parola chiave è “realtà indipendente dalla nostra coscienza”. Lenin pensava
infatti che la tesi fondamentale del marxismo fosse appunto che il passaggio
dal capitalismo al socialismo fosse qualcosa di indipendente dalla nostra
coscienza, e cioè necessaria, oggettiva, scientifica, simile alle leggi delle
scienze naturali (naturmässig). Questa è la ragione per cui si
imbestialiva tanto con gli “idealisti”, e vedeva il diavolo “idealista” in
tutto, perfino nella fisica di Mach e Poincarè.
Si tratta di una sciocchezza. Anche le aquile a volte
volano più in basso delle galline. Lenin era un’aquila, ma in filosofia volava
più in basso delle galline. Il passaggio dal capitalismo al socialismo, ammesso
che in futuro possa compiersi (e lasciando comunque in sospeso per ragioni di
spazio il problema di che cosa significhi), non è assolutamente qualcosa
di oggettivo, necessario, scientifico e conforme alle leggi naturali (naturmässig).
Il carattere omogeneo delle leggi della natura e delle leggi sociali è una
stupidaggine condivisa dai positivisti e dall’idealista meno intelligente, e
cioè da Schelling, e poi dai suoi seguaci utopico-messianici-confusionari, come
il pur simpatico Ernst Bloch. Il pensiero non può allora “rispecchiare” questo
processo, dal momento che questo processo senza intervento umano cosciente
semplicemente non esiste.
Parlare di cose che non esistono ha un nome, e si chiama
religione. La concezione del passaggio necessario e “rispecchiato” dal pensiero
dal capitalismo al socialismo è una religione pura. Più esattamente, è una
pseudo-scienza ed una quasi-religione. Le religioni normali sono tuttavia molto
migliori (e prego il lettore di interpretare letteralmente), perché sono
immensamente più comprensive della totalità dell’esperienza umana, prendono in
considerazione anche l’amore coniugale, la malattia, la morte, eccetera. Qui
Lenin prende un abbaglio grande come la catena degli Urali.
Questo errore se ne porta dietro anche un altro, quello
imperdonabile della riduzione della filosofia a ideologia. Ora, è chiaro che
qualcosa chiamato “ideologia” esiste, e non solo esiste ma non è neppure
eliminabile, a meno di prospettarsi una impossibile “trasparenza” della
capacità umana di conoscenza. Solo Dio, infatti, se esistesse, sarebbe del
tutto non-ideologico (cosa per altro già genialmente anticipata da Aristotele
con la sua teoria dell’Atto Puro e del Pensiero del Pensiero). Nello stesso
tempo, però, la riduzione della filosofia ad ideologia, più esattamente dello
spazio filosofico pubblico a spazio ideologico di partito, ha conseguenze
fatali e catastrofiche, ed è questa la ragione della mia insistenza. Se infatti
pensassi che la cosa non è poi così decisiva, non insisterei tanto.
Indipendentemente dalla questione della riduzione indebita
della filosofia ad ideologia, la “filosofia” di Lenin era comunque cattiva. Il
discorso sarebbe lungo e specialistico, ma possiamo compendiarlo qui in tre
punti.
Primo, di tutte le filosofie possibili entro le quali può
essere pensata l’espressività del materialismo storico di Marx, il cosiddetto
“materialismo dialettico” è indubbiamente la peggiore. Ed è la peggiore per una
ragione semplicissima. Chi prende la via della omogeneizzazione categoriale,
logica ed ontologica, delle cosiddette “leggi” della natura e della società,
commette un errore fatale, perché fa pensare che la società si muova o si possa
muovere secondo “regolarità” estratte dal modello delle scienze della natura
moderne. Ora, tutto questo è falso, e non è falso solo in parte, ma è
completamente falso. Se proprio si vuole una filosofia adatta al materialismo
storico, si elabori allora una ontologia dell’essere sociale integrata da una
critica delle ideologie, e soprattutto delle ideologie grandi-narrative.
Secondo, il prendersela tanto con Dio e con la religione,
come fa Lenin, è del tutto fuori tempo e fuori misura. Sono le società
precapitalistiche che utilizzano la religione come ideologia di legittimazione
delle disuguaglianze sociali (che si pretende volute da Dio), mentre nel
capitalismo tutto questo tende a sparire. Se osserviamo come stanno le cose
oggi, vediamo che persino un’organizzazione corrotta, integrata e
burocratizzata come la chiesa cattolica romana è mille volte meglio del
laicismo alla Pannella-Bonino, in quanto non è disposta a mercificare integralmente
la “vita” ed a ridurre la stessa “natura” ad opinione sociale elettiva (come fa
il femminismo anglosassone detto di “genere”). In base alla filosofia di Lenin
tutto questo è letteralmente inconcepibile, e questo significa che la filosofia
di Lenin non è più una bussola adeguata per muoversi nella post-modernità.
Terzo, ed ultimo, indubbiamente Lenin ha di buono che
cerca di capire Hegel ed ammette addirittura che un idealismo intelligente è
meglio di un materialismo stupido. Ma la sua interpretazione di Hegel è del
tutto fuori bersaglio. Per Lenin Hegel è una sorta di seguace di Eraclito, per
cui tutto si muove, tutto scorre e niente rimane uguale perché si rovescia nel
suo contrario. Ma Hegel non è Eraclito. Per Hegel la filosofia si occupa di ciò
che è, ed è eternamente. In questo Essere, evidentemente, esiste una dialettica
fra Permanenza e Mutamento. Ma chi pensa che la dialettica sia solo mutamento
fa diventare Hegel un nichilista, e questo è sbagliato.
Il discorso sarebbe lungo, e non è questa la sede per
condurlo analiticamente. Ciò che conta è ribadire il punto essenziale: la
filosofia è come la scienza, l’arte e la letteratura. Indubbiamente, la sua
genesi è storicamente determinata anche da una struttura classista della
società, ma non può essere ridotta ad essa, come invece è il caso della
ideologia. Il corollario storico e giuridico di questa comprensione comporta,
ovviamente, la sua integrale libertà di pratica, di dialogo e di esecuzione.