A ottanta anni dalla morte di Lenin (1924-2004)

VII parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve su Lenin è stato diviso in otto parti.

All'introduzione

Alla parte successiva




7. La teoria di Lenin sul materialismo dialettico, sulla filosofia e sull’ideologia

Ho cercato fino ad ora nei tre precedenti paragrafi di dare una lettura “aporetica” di Lenin, di mostrare cioè le contraddizioni interne di teorie che i nemici e gli amici presentano in generale come semplicemente “tetiche”, cioè organicamente compiute, per i nemici completamente cattive e per gli amici completamente buone. A mio avviso, però, i “veri amici” sono quelli che segnalano i difetti, ed in questo caso non ho certamente paura a definirmi un vero amico di Lenin.

A proposito della teoria dell’imperialismo, ho detto che essa è buonissima e pienamente valida anche oggi (sia pure con ovvie correzioni di bilancio storico), ma bisogna pure aggiungere che essa non risolve e non può risolvere il problema cruciale dell’individuazione delle forze sociali e storiche strategiche capaci di un superamento della produzione capitalistica, che invece la teoria marxiana originaria in qualche modo segnalava, sia pure in base ad ipotesi scientifiche errate (classe operaia e proletaria, lavoratore collettivo cooperativo associato, general intellect, eccetera).

A proposito della teoria del partito politico, ho affermato che a mio avviso la sua contraddizione principale sta in ciò, che da un lato afferma che il partito è titolare della scienza sociale marxista della rivoluzione, e dall’altro lato questa presunta “scienza” è affidata al gioco delle maggioranze e delle minoranze di un comitato centrale, il cosiddetto “centralismo democratico”, laddove ovviamente la scienza, se è veramente scienza, non procede mediante il gioco casuale delle maggioranze e delle minoranze che vi si sottomettono.

Io posso proceduralmente sottomettermi come cittadino italiano a Berlusconi, Prodi o D’Alema, per me tutti “alieni” e nemici, ma questa sottomissione è integralmente “procedurale” e dovuta alla mia accettazione del principio democratico delle maggioranze elettorali, ma non posso certo “sottomettermi” alle opinioni di Armando Cossutta o Fausto Bertinotti, se le ritengo scientificamente errate e talvolta (come nel caso di Bertinotti) addirittura demenziali. A proposito infine della teoria delle alleanze di classe, ho sostenuto che esse sono molto sagge, e che lo stesso Marx lo aveva a suo tempo capito quando aveva sostenuto che “gli a solo della classe operaia si trasformano in cerimonie funebri” (verità autoevidente per tutti, al di là delle scolastiche settarie di vario tipo), ma che questo riconoscimento poteva entrare in rotta di collisione con quel monismo sociologico largamente mitico  definito “proletarizzazione” universale e globale.

Toccando ora il quarto tema della cultura e della filosofia mi soffermo in quello che è di fatto il mio “specialismo”, il che non significa ovviamente che io abbia ragione, ma semplicemente che si tratta di questioni cui ho dedicato maggiore studio ed attenzione da almeno quaranta anni. Anche qui siamo di fronte a mio avviso ad una contraddizione. Da un lato, apprezzo molto il fatto che Lenin, mostrando qui un saldo orientamento culturale, abbia sempre esplicitamente rifiutato le teorie dicotomiche sulla contrapposizione di una scienza borghese ad una scienza proletaria, di un’arte borghese e di un’arte proletaria, ed infine di una letteratura borghese e di una letteratura proletaria.

Con sicura e sostanzialmente corretta intuizione, pur non avendo mai studiato sistematicamente il problema, Lenin capisce l’essenziale, e cioè che la scienza, l’arte e la letteratura non sono né borghesi né proletarie, ma semplicemente sono o non sono. O meglio, è ovvio che la loro genesi psicologica e sociale ed anche il loro consumo sono fortemente influenzati dal classismo antagonistico, ma la loro validità scientifica, artistica e letteraria produce alla fine un risultato universale. E’ vero che Lenin non ha incertezze solo sulla scienza, mentre per quel che riguarda l’arte e la letteratura a volte ha oscillazioni. Ma in generale egli tiene fermo su questa corretta impostazione.

Dall’altro lato, e non posso nasconderlo, e desidero anzi “denunciarlo” con particolare veemenza, il giusto atteggiamento “universalistico” che Lenin riconosce alla letteratura, all’arte e alla scienza non viene sciaguratamente riconosciuto alla filosofia, che Lenin considera una forma di “ideologia”, ed a cui non è pertanto disposto a riconoscere uno statuto “universalistico” concesso giustamente alla letteratura, all’arte ed alla scienza. Su questo punto cruciale il mio dissenso con Lenin è massimo ed incomponibile. Non si tratta però solo di una questione di “gusto personale”. Penso invece che, l’identificazione di fatto dello spazio filosofico con lo spazio ideologico, con la successiva nefasta definizione del “materialismo dialettico” come filosofia identitaria del partito comunista, eccetera, sia stata una delle malattie inguaribili ed incurabili del movimento comunista novecentesco nel frattempo defunto (1917-1991).

Occorre partire dall’inizio, anche a costo di ripetermi e di essere noioso, perché qui si gioca una partita culturale decisiva. Lo statuto filosofico originario di Karl Marx era una variante dell’idealismo classico tedesco, e più esattamente una libera reinterpretazione di temi tratti da Fichte e da Hegel, mentre invece non era per nulla un “materialismo” nel senso di Feuerbach o un “criticismo” nel senso di Kant. Il fatto che fosse indubbiamente una filosofia dell’attività, della prassi e della trasformazione non ne fa affatto un “materialismo”, perchè tipico del materialismo è semmai il sopportare la situazione presente (Epicuro, Leopardi, eccetera).

E’ semmai tipico dell’idealismo, che cerca di conciliare il “reale” con “l’ideale”, spingere ad una filosofia della prassi. L’unico sensato significato di “materialismo” che può essere dato alla filosofia di Marx è quello di ateismo o se vogliamo di critica della “alienazione religiosa”, ma il dire che al mondo c’è solo la “materia” come oggetto di conoscenza è una tesi scientifica, non filosofica, e meno si confondono i due piani e meglio è.

L’appartenenza integrale di Marx (o almeno del Marx filosofo) alla tradizione idealistica (Platone, Proclo, Fichte, Hegel, con tutte le differenze che qui devo ovviamente trascurare) è stato riconosciuto in Italia da almeno due notevoli filosofi, Giovanni Gentile e mezzo secolo dopo Lucio Colletti. Il fatto che uno sia diventato fascista e l’altro berlusconiano non cambia di un grammo l’esattezza della diagnosi, e non cambia nulla il fatto che ciò che per Colletti è un male e la prova provata della non-scientificità di Marx, per me invece è un bene e la prova provata della discendenza di Marx dalla grande tradizione filosofica greca (Platone e Aristotele) e tedesca (Fichte e Hegel). Inoltre chi scrive non è né fascista né berlusconiano ma si considera un comunista critico indipendente, e sarebbe lieto che questo gli fosse anche riconosciuto.

Ritorniamo a noi. Marx dopo un certo periodo non si occupa più di filosofia.

Sarebbero bastate due settimane nel 1875 per scrivere cento pagine per chiarire le sue posizioni, ma non lo ha fatto. Non è certamente perché “gli mancava il tempo” (ho dovuto leggere anche questa idiozia), ma probabilmente perché non lo riteneva più necessario. Egli credeva, ritengo, che la sua filosofia fosse stata ormai interamente “metabolizzata” nella sua ipotesi scientifica anticapitalistica, e non ci fosse allora bisogno di “raddoppiare” l’oggetto già studiato e scandagliato. Ma questa posizione, per cui la filosofia è inutile perché ormai “assorbita” nella scienza, in filosofia ha un nome, e si chiama positivismo. L’ultimo Marx, al di là di fatue frasi sul “rovesciare Hegel dalla testa sui piedi”, frasi che non significano assolutamente niente e vengono ripetute da tutti i dilettanti del mondo che le ripetono solo perché non sanno neppure cosa significano, è un filosofo positivista implicito.

Proseguiamo. L’amico Engels, in questo sostanzialmente fedele a Marx, decise di occuparsi sistematicamente di filosofia con un volenteroso dilettantismo degno di miglior causa. Egli fu il “traghettatore” dal positivismo implicito al positivismo esplicito. Come tutti i dilettanti, iniziò con una confusione fra ontologia e gnoseologia, cioè fra teoria dell’essere e teoria della conoscenza, e definì allora il materialismo e l’idealismo (che sono posizioni ontologiche) in termini gnoseologici, cioè nei termini della teoria gnoseologica del “riflesso” (Wiederspiegelung), per cui il materialista era colui che “rifletteva”, o meglio rispecchiava, la realtà, mentre l’idealista era quello che la costruiva arbitrariamente. Il generoso dilettante metteva così le basi di una confusione destinata a durare almeno un secolo.

E siamo allora giunti finalmente al nostro Lenin. Lenin era convinto che il “materialista” è colui che rispecchia scientificamente la realtà che esiste indipendentemente da noi, e che per esempio non può rispecchiare Dio, perché Dio non esiste, e solo la “materia” (metafora per indicare sia la natura che la società) esiste. Egli si imbestialiva in modo indecente, ed assai poco filosofico, nei confronti degli oppositori (in proposito, tristi ed esilaranti sono soprattutto le memorie di Valentinov, un intelligente empiriocriticista con cui Lenin ruppe una vecchia amicizia per esclusive ragioni “filosofiche”), per un fatto non difficile da segnalare. La parola chiave è “realtà indipendente dalla nostra coscienza”. Lenin pensava infatti che la tesi fondamentale del marxismo fosse appunto che il passaggio dal capitalismo al socialismo fosse qualcosa di indipendente dalla nostra coscienza, e cioè necessaria, oggettiva, scientifica, simile alle leggi delle scienze naturali (naturmässig). Questa è la ragione per cui si imbestialiva tanto con gli “idealisti”, e vedeva il diavolo “idealista” in tutto, perfino nella fisica di Mach e Poincarè.

Si tratta di una sciocchezza. Anche le aquile a volte volano più in basso delle galline. Lenin era un’aquila, ma in filosofia volava più in basso delle galline. Il passaggio dal capitalismo al socialismo, ammesso che in futuro possa compiersi (e lasciando comunque in sospeso per ragioni di spazio il problema di che cosa significhi), non è assolutamente qualcosa di oggettivo, necessario, scientifico e conforme alle leggi naturali (naturmässig). Il carattere omogeneo delle leggi della natura e delle leggi sociali è una stupidaggine condivisa dai positivisti e dall’idealista meno intelligente, e cioè da Schelling, e poi dai suoi seguaci utopico-messianici-confusionari, come il pur simpatico Ernst Bloch. Il pensiero non può allora “rispecchiare” questo processo, dal momento che questo processo senza intervento umano cosciente semplicemente non esiste.

Parlare di cose che non esistono ha un nome, e si chiama religione. La concezione del passaggio necessario e “rispecchiato” dal pensiero dal capitalismo al socialismo è una religione pura. Più esattamente, è una pseudo-scienza ed una quasi-religione. Le religioni normali sono tuttavia molto migliori (e prego il lettore di interpretare letteralmente), perché sono immensamente più comprensive della totalità dell’esperienza umana, prendono in considerazione anche l’amore coniugale, la malattia, la morte, eccetera. Qui Lenin prende un abbaglio grande come la catena degli Urali.

Questo errore se ne porta dietro anche un altro, quello imperdonabile della riduzione della filosofia a ideologia. Ora, è chiaro che qualcosa chiamato “ideologia” esiste, e non solo esiste ma non è neppure eliminabile, a meno di prospettarsi una impossibile “trasparenza” della capacità umana di conoscenza. Solo Dio, infatti, se esistesse, sarebbe del tutto non-ideologico (cosa per altro già genialmente anticipata da Aristotele con la sua teoria dell’Atto Puro e del Pensiero del Pensiero). Nello stesso tempo, però, la riduzione della filosofia ad ideologia, più esattamente dello spazio filosofico pubblico a spazio ideologico di partito, ha conseguenze fatali e catastrofiche, ed è questa la ragione della mia insistenza. Se infatti pensassi che la cosa non è poi così decisiva, non insisterei tanto.

Indipendentemente dalla questione della riduzione indebita della filosofia ad ideologia, la “filosofia” di Lenin era comunque cattiva. Il discorso sarebbe lungo e specialistico, ma possiamo compendiarlo qui in tre punti.

Primo, di tutte le filosofie possibili entro le quali può essere pensata l’espressività del materialismo storico di Marx, il cosiddetto “materialismo dialettico” è indubbiamente la peggiore. Ed è la peggiore per una ragione semplicissima. Chi prende la via della omogeneizzazione categoriale, logica ed ontologica, delle cosiddette “leggi” della natura e della società, commette un errore fatale, perché fa pensare che la società si muova o si possa muovere secondo “regolarità” estratte dal modello delle scienze della natura moderne. Ora, tutto questo è falso, e non è falso solo in parte, ma è completamente falso. Se proprio si vuole una filosofia adatta al materialismo storico, si elabori allora una ontologia dell’essere sociale integrata da una critica delle ideologie, e soprattutto delle ideologie grandi-narrative.

Secondo, il prendersela tanto con Dio e con la religione, come fa Lenin, è del tutto fuori tempo e fuori misura. Sono le società precapitalistiche che utilizzano la religione come ideologia di legittimazione delle disuguaglianze sociali (che si pretende volute da Dio), mentre nel capitalismo tutto questo tende a sparire. Se osserviamo come stanno le cose oggi, vediamo che persino un’organizzazione corrotta, integrata e burocratizzata come la chiesa cattolica romana è mille volte meglio del laicismo alla Pannella-Bonino, in quanto non è disposta a mercificare integralmente la “vita” ed a ridurre la stessa “natura” ad opinione sociale elettiva (come fa il femminismo anglosassone detto di “genere”). In base alla filosofia di Lenin tutto questo è letteralmente inconcepibile, e questo significa che la filosofia di Lenin non è più una bussola adeguata per muoversi nella post-modernità.

Terzo, ed ultimo, indubbiamente Lenin ha di buono che cerca di capire Hegel ed ammette addirittura che un idealismo intelligente è meglio di un materialismo stupido. Ma la sua interpretazione di Hegel è del tutto fuori bersaglio. Per Lenin Hegel è una sorta di seguace di Eraclito, per cui tutto si muove, tutto scorre e niente rimane uguale perché si rovescia nel suo contrario. Ma Hegel non è Eraclito. Per Hegel la filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente. In questo Essere, evidentemente, esiste una dialettica fra Permanenza e Mutamento. Ma chi pensa che la dialettica sia solo mutamento fa diventare Hegel un nichilista, e questo è sbagliato.

Il discorso sarebbe lungo, e non è questa la sede per condurlo analiticamente. Ciò che conta è ribadire il punto essenziale: la filosofia è come la scienza, l’arte e la letteratura. Indubbiamente, la sua genesi è storicamente determinata anche da una struttura classista della società, ma non può essere ridotta ad essa, come invece è il caso della ideologia. Il corollario storico e giuridico di questa comprensione comporta, ovviamente, la sua integrale libertà di pratica, di dialogo e di esecuzione.



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