Una introduzione al pensiero marxista di Gianfranco La Grassa
in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro

Prima parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo tratto da Rosso XXI e scritto da Costanzo Preve è stato diviso in cinque parti.



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1. Nato nel 1935, e giunto così alle soglie dei suoi settant'anni, Gianfranco La Grassa sta ora lavorando ad un'opera complessiva su Karl Marx che avrà probabilmente come titolo, Marx in Sé e che sarà una sistematica resa dei conti integrale con il pensiero marxiano. Ma qui parleremo invece del suo più recente lavoro, pubblicato (Cfr. Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi. Dalla proprietà privata al conflitto strategico, Editrice CRT, Pistoia 2004).

Per capire il significato e la direzione dei lavori di Gianfranco La Grassa è necessario collocarlo nel contesto storico e teorico del marxismo internazionale ed italiano della seconda parte del novecento e di questo inizio di secolo. Per questa ragione, in base al principio della storicità del pensiero critico, inizierò con la segnalazione delle tre principali correnti di pensiero marxista in Italia (storicismo, operaismo, althusserismo), continuerò con alcune riflessioni sul maoismo marxista-leninista italiano come fenomeno politico e teorico, ricorderò sommariamente i tre principali momenti evolutivi del pensiero di Gianfranco La Grassa e concluderò infine con alcune note di riflessione sul libro che intendo segnalare al lettore. Cominciamo.

2. Il pensiero di Gianfranco La Grassa si forma all'interno di una gigantesca tragedia storica. La Russia di Stalin esce vincitrice dalla seconda guerra mondiale, ma questo non comporta una ripresa della pratica socialista di Lenin, quanto la formazione di un "campo socialista", per cui di fatto il progetto comunista si riduce ad un "campismo", che semplicemente allarga la pratica della cosiddetta "costruzione" statuale e partitica del socialismo (che già Marx nella sua polemica con Lassalle aveva esplicitamente dichiarato senza ombra di dubbio essere impossibile). A partire dal 1949 inizia la storia della Cina socialista, che ben presto prenderà una via diversa da quella dell'URSS di Krusciov dopo il 1956. Inizia anche un ciclo di lotte di liberazione coloniale, che la semplice esistenza militare del "campo socialista" favorisce (anziché "tradirle", come dice assurdamente la scolastica trotzkista).

In Italia, dopo il 1945, Palmiro Togliatti prende atto saggiamente e realisticamente della assoluta impossibilità “militare, politica e sociale” di una rivoluzione socialista, per cui a mio avviso solo i poco informati possono parlare di una "rivoluzione tradita”. In Italia non ci fu nessuna rivoluzione tradita, per il semplice fatto che, dati i rapporti di forza esistenti sul campo, la rivoluzione era semplicemente impossibile. Nello stesso tempo, Togliatti era comunista, non socialista, ed il problema era allora quello di costruire un partito comunista di massa in un contesto storico di assoluta impossibilità di una rivoluzione socialista.

Il dilemma era oggettivo. Era oggettivo, e fu risolto a due livelli. A livello politico, costruendo uno strano ibrido, socialdemocratico nella sua pratica elettorale, amministrativa e sociale, e stalinista nella sua struttura partitica, ideologica ed identitaria. Lungi dall'essere un punto avanzato del movimento comunista mondiale, questo ibrido metà socialdemocratico e metà stalinista era un puro prodotto del gesuitismo controriformistico e dell'arretratezza italiana, già diagnosticata in vari modi da italiani controcorrente come Dante, Macchiavelli, Leopardi e Gramsci. Questo mostro identitario, in base al detto per cui un albero si giudica dai suoi frutti, doveva infine produrre frutti come Occhetto, D'Alema e Fassino.

A livello teorico, questo ibrido doveva legittimarsi con una ideologia di tipo storicista, per cui il tempo lavorava per lui, ed il progresso storico lo avrebbe infine portato senza bisogno di dolorose rotture rivoluzionarie al socialismo. I capitalisti erano visti come soggetti incapaci di sviluppare le forze produttive, la borghesia come classe in "decadenza", ed il socialismo era inteso come una forza lenta, ma irresistibile. Si trattava, come è del tutto evidente agli studiosi del marxismo, di una teoria di legittimazione politica che non risaliva affatto a Lenin, ma a Kautsky. Era però un Kautsky molto peggiorato politicamente e moralmente, perché nella socialdemocrazia tedesca kautskiana regnava la massima libertà di dibattito, mentre nell'ibrido picista metà socialdemocratico e metà stalinista si cumulavano i difetti delle due componenti (senza i rispettivi pregi), e plebi identitarie rabbiose erano periodicamente istigate dai vertici contro ogni tipo di dissenzienti.

Questo è il quadro storico in cui la generazione di Gianfranco La Grassa dovette fare il suo apprendistato politico. I giovani oggi non ne possono avere minimamente l'idea. E' allora necessario dedicare un piccolo spazio rispettivamente allo storicismo, all'operaismo e all'althusserismo, perché Gianfranco La Grassa è un frutto maturo dell'althusserismo italiano, più esattamente di una deriva feconda partita dall'althusserismo.

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