Ho ricordi personali vivissimi degli 
anni Sessanta. Questo di per sé, ovviamente, non è una garanzia di oggettività e 
di attendibilità, perché è evidente che il coinvolgimento soggettivo non può 
essere in nessun modo una prova scientifica di profondità nell’interpretazione 
(come ben sanno gli esperti di storia orale, coscienti del fatto che i testimoni 
diretti possono a volte deformare la realtà dei fatti assai più di quanto 
possano fare degli estranei totali). 
Io sono nato nel 1943, e gli anni Sessanta 
coincidono con i miei studi universitari, compiuti in larga parte all’estero (in 
Francia e in Grecia), con la scoperta della mia vocazione filosofica e con la 
mia vocazione politica comunista e marxista, ed infine con i due eventi del 
matrimonio e della scelta della professione (i due eventi considerati dal 
filosofo tedesco Hegel come i due eventi cruciali nel passaggio dall’astrazione 
intellettuale dell’età giovanile alla concretezza razionale e determinata 
dell’età adulta). Il lettore mi perdonerà questa piccola parentesi 
autobiografica, ma essa viene qui introdotta solo per collocare il contesto del 
mio giudizio sugli anni Sessanta in Italia, da cui inizia logicamente la mia 
riflessione sulla scuola. 
Per una parte importante della gioventù italiana 
ed europea gli anni Sessanta sono stati il grande decennio della modernizzazione 
capitalistica soggettivamente vissuto come il decennio dell’anticamera 
rivoluzionaria del passaggio al comunismo. Oggi è estremamente difficile 
spiegare questo ad un giovane, dato il radicale cambiamento della situazione 
storica che si è avuto nel frattempo. Tuttavia, la comprensione del paradosso 
dialettico della compresenza conflittuale fra modernizzazione capitalistica ed 
utopia rivoluzionaria è difficile anche per i membri della generazione del 
Sessantotto, che tendono a rimuovere nevroticamente questo paradosso, e si 
dividono facilmente nelle due grandi categorie dei nostalgici e dei rinnegati. 
Il nostalgico continua a pensare che l’utopia rivoluzionaria non è stata 
realizzata soltanto per errori politici di tipo soggettivo, e che dunque lo 
“spirito del Sessantotto” deve essere mantenuto ed eternizzato, sia pure con le 
modificazioni di tattica politica che questo richiede. Il rinnegato, invece, 
considera il perseguimento dell’utopia rivoluzionaria uno sciagurato anche se 
inevitabile equivoco giovanile, cui la saggezza dell’età sostituisce l’adesione 
attiva ai valori dell’impero americano (il caso di Adriano Sofri è in proposito 
assolutamente esemplare). 
Le testimonianze dei 
nostalgici e dei rinnegati sono ovviamente opposte, ma hanno un segreto elemento 
in comune. E questo elemento sta proprio nella mancata comprensione del 
meccanismo teorico che permise la sovrapposizione dell’utopia rivoluzionaria 
comunista alla sostanza della modernizzazione capitalistica del costume e dei 
riti sociali e generazionali. Una volta che questo elemento sia stato compreso, 
il paradosso cessa di essere paradossale, e diventa assolutamente 
concettualizzabile, e quindi comprensibile, e quindi anche accettabile 
serenamente senza nostalgia ma anche senza vergogna e ripudio. Si tratta del 
fatto che la generazione del Sessantotto, che si accostò e praticò per almeno un 
decennio l’utopia rivoluzionaria comunista, quasi sempre in piccoli gruppi 
impropriamente definiti “estremisti” (impropriamente, perché invece 
interpretavano bene non “l’estremo”, ma il “normale” ed il “tipico” dello 
spirito del tempo), identificò il capitalismo con la borghesia, o più 
esattamente l’economia capitalistica con il costume familiare e sociale 
borghese, e pensò che rivoltandosi contro la borghesia e la sua cultura si 
rivoltava anche e soprattutto contro lo sfruttamento capitalistico. In Italia 
questo avvenne attraverso l’adozione di massa della variante operaistica del 
marxismo, in cui la classe operaia era divinizzata, ma anche segretamente 
disprezzata con il suo essere ridotta a strumento degli astratti furori 
iconoclastici della rivolta generazionale della piccola borghesia contro 
l’autoritarismo paterno.
La classe operaia, per conto suo, in modo parallelo ma 
assolutamente indipendente, perseguì invece non il progetto operaistico, cioè la 
comunistizzazione fantasmatica della propria collocazione sociale, ma 
l’integrazione migliorata nella società capitalistica mai messa seriamente in 
discussione, e trovò nel sindacato unitario CGIL-CISL-UIL e nel partito PCI (poi 
PDS ed infine DS) il suo sbocco sociale e politico logico, razionale e coerente. 
Questa concezione antropomorfica del capitalismo, anzi del modo di 
produzione capitalistico, che è un sistema impersonale e non un soggetto 
personale trascendentale, avrebbe già potuto essere respinta con gli argomenti 
di Spinoza e poi di Hegel, filosofi che seppero molto bene al loro tempo 
respingere le ingenue antropomorfizzazioni della società. Ma questo non avvenne, 
perché la filosofia è una grande maestra che insegna sempre in un’aula vuota. 
In 
breve: la scorretta antropomorfizzazione concettuale di un ente per sua natura 
non antropomorfico, il modo di produzione capitalistico, era lo strumento 
ideologico più adatto, ed anzi ideale, per poter condurre una rivolta 
generazionale anti-borghese volta alla modernizzazione ipercapitalistica del 
costume all’interno della falsa coscienza necessaria (uso qui un concetto di 
Marx di cui non cesso di ammirare la pregnanza e la pertinenza esplicativa) di 
stare conducendo una lotta anticapitalistica. Questa lotta in realtà non poteva 
essere condotta su queste basi anti-borghesi, per il semplice fatto che era il 
capitalismo stesso nel suo anonimo ed impersonale meccanismo autoriproduttivo a 
premere per una deborghesizzazione controllata del costume in una direzione 
post-borghese, in vista di una individualizzazione ulteriore manipolatoria della 
figura del consumatore, resa finalmente astratta e flessibile, e non più 
vincolata a costumi borghesi parzialmente contraddittori con quella 
liberalizzazione nichilistica e totalitaria. Il capitalismo sottomette infatti 
alla propria riproduzione non solo il proletariato, come è largamente noto, ma 
anche la borghesia, e non solo la piccola borghesia, come è altrettanto noto, ma 
la stessa grande borghesia, come è meno noto, ma come già a suo tempo filosofi 
come Adorno e scrittori come Thomas Mann capirono già molto bene.
alla parte successiva
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