Bene, dirà a questo punto il lettore, tutto questo è molto
interessante, ma che cosa c’entra con la situazione scolastica? C’entra,
c’entra, ed anzi c’entra talmente tanto da costituire la mia chiave
interpretativa del mio esame dell’intera questione, almeno per quanto riguarda
l’ultimo trentennio, se non l’ultimo quarantennio.
La rivolta anti-borghese,
convinta di essere anche anticapitalistica, laddove lo stesso capitalismo
cercava per conto suo di realizzare una scuola post-borghese e pienamente
funzionale alla nuova fase del capitalismo, si rivolse contro la scuola detta
“borghese”, la sua cultura e le sue modalità di trasmissione, ed in questo modo
metteva le basi teoriche inconsapevoli per la sua trasformazione in fattore
servile, subalterno e coadiuvante di questo progetto capitalistico
post-borghese. Lo sciagurato quinquennio di Luigi Berlinguer e di Tullio De
Mauro (1996-2001) non viene dunque dal nulla, e non è unicamente spiegabile con
teorie del tradimento, eccetera. C’era in realtà una logica in quella follia. Lo
scopo di questo mio breve saggio è la ricostruzione sommaria di questa logica
paradossale del rovesciamento del vecchio populismo sociologistico anti-borghese
in modernizzazione luddistica dell’istituzione scolastica. A sua volta, la
comprensione della natura economica ed aberrante del quinquennio berlingueriano
(1996-2001) permette di capire meglio l’attuale scenario morattiano del 2002,
con le possibili contraddizioni che aprirà, e che sono già in parte visibili
oggi, in cui siamo solo all’inizio.
La riforma della scuola del primo centro-sinistra del 1964 è stata a mio avviso un punto
alto e pienamente positivo nella nostra storia. Se è messa a confronto poi con
lo sciagurato quinquennio dei pidiessini Berlinguer-De Mauro questo risalta in
modo ancora più luminoso. Questa riforma si basava su due punti entrambi
positivi. In primo luogo, l’istituzione della Scuola Media Unica con
l’abolizione della canalizzazione precoce, e ferocemente classista, fra vecchia
scuola media con il latino e scuola d’avviamento al lavoro.
Avendo vissuto
personalmente il periodo precedente, ricordo perfettamente che i nostri gruppi
di amici erano divisi in due fra i futuri lavoratori precoci ed i futuri
studentelli, in un’età in cui questa divisione era vissuta proprio per quello
che era, una divisione non solo di classe ma quasi di casta.
In secondo luogo, e
questo è sottolineato sempre troppo poco, il fatto che questa benemerita riforma
non toccò quasi l’istituzione benemerita del liceo (non importa se classico o
scientifico), salvandone l’impianto illuministico, laddove sia la riforma
Moratti sia la riforma Berlinguer lo mettono in pericolo, in direzione di una
sciagurata americanizzazione della scuola secondaria superiore.
Faccio
questo rilievo per ricordare una cosa comunque ovvia. Il riformismo non è mai
frutto di un personale politico, che è sempre un semplice esecutore subalterno
di grandi processi storici, ma è sempre il frutto di momenti storici che lo
rendono possibile. Allora, nel 1964, si viveva una stagione riformistica. Nel
quinquennio 1996-2001 il personale politico di origine picista era invece al
servizio di un progetto controriformistico, indipendentemente dalla falsa
coscienza ideologica con cui mistificava a se stesso questa funzione.
una volta messa in piedi la Scuola Media Unica, si
fece poi lo sbaglio populistico-pedagogico di privilegiarne l’irrilevante
aspetto della socializzazione anziché concentrarsi sul cruciale apprendimento
disciplinare. Di qui gli stupidi abbandoni dell’analisi logica e grammaticale,
la trascuratezza verso la matematica, eccetera. Alle classi subalterne, appena
ammesse alla scolarizzazione, si consegnava una scuola caratterizzata da un
indirizzo pedagogico radicalmente sbagliato.
I bambini fanno la loro
socializzazione nel cortile, non in classe. In classe si impara sempre e
soltanto una disciplina, il suo metodo ed il suo contenuto. Questo è il
contrario del cosiddetto classismo, ma è anzi la premessa di una concezione
veramente democratica, in cui si insegnano al giovane cittadino strumenti
validi, e non girotondi, salterelli ed altre cretinate
sociologiche.
All’interno di questa impostazione
radicalmente sbagliata (che lo stesso *Gramsci in carcere a suo tempo aveva
criticato con grande preveggenza) il problema della cosiddetta “serietà” degli
studi fu consegnato di fatto nelle mani peggiori, cioè delle professoresse
ferocemente classiste della piccola borghesia detta impropriamente “umanistica”
(in realtà non umanistiche, ma disumane), più correttamente definite in uno
studio dell'epoca le “vestali della classe media”. Queste professoresse (con
sparuto contorno di qualche professore) affrontarono la Scuola Media Unica nel
modo peggiore, in base alla categoria del declassamento, del livellamento e del
peggioramento degli studi. Si aprì così a metà degli anni Sessanta quello spazio
di schizofrenia culturale per cui la pedagogia ufficiale era improntata ad una
sorta di facilismo socializzatore mentre la pratica delle vestali della classe
media era improntata ad una mistica della bocciatura dei nuovi piccoli plebei
riottosi.
Nello spazio di questa schizofrenia
irruppe alla fine degli anni Sessanta il decisivo libro Lettera ad una
Professoressa del prete toscano don Lorenzo Milani. A quel tempo una
bellissima canzone di Lucio Dalla, intitolata Caro amico ti scrivo diceva
fra l’altro: “Anche i preti potranno sposarsi/ ma soltanto a una certa età”.
Contro questa tendenza libertaria don Milani sosteneva che un insegnante doveva
essere celibe, per potersi dedicare completamente all’educazione. Non vorrei
insistere troppo su questo orrore antropologico. Esso è giustificato dal fatto
che don Milani decise in modo estremistico (ed io apprezzo sempre il momento
unilaterale di verità che c’è in ogni estremismo, che ha poi sempre tempo di
farsi mediare in modo moderato una volta fatto passare come plausibile il suo
principio ispiratore) di opporsi alla bocciomania reazionaria delle vestali
della classe media. Non fu certo colpa sua se questo su benemerito intervento
diventò uno dei primi manifesti ideologici del cattocomunismo italiano e del suo
populismo irrefrenabile. Mentre don Milani era per una scuola esigente e
difficile, appunto perché sapeva perfettamente che gli umili non sarebbero mai
stati poi in grado di riscattarsi, il “milanismo” cattocomunista ne fece la
bandiera del facilismo, del voto unico, del voto politico sempre sufficiente,
della socializzazione sistematicamente preferita all’apprendimento disciplinare.
Questa tragicommedia, di cui ovviamente il prete toscano precocemente scomparso
non fu per nulla colpevole, sta alle radici della negazione del momento
disciplinare dell’insegnamento, che vedremo in azione ad esempio
nell’ispirazione del poi fallito concorsone Berlinguer del 2000, il cui rifiuto
corale da parte degli insegnanti segnò anche il momento di svolta nella crisi
del progetto scolastico del personale politico e sindacale di origine PCI, come
ricorderò più avanti.
alla parte successiva
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