A questo punto ritengo necessario introdurre un breve inciso. Si usa in modo un po’ sconsiderato 
parlare di questo tipo di cultura populistico-pedagogica in termini di Marx e di 
marxismo, o meglio di sciagurata egemonia del marxismo. Personalmente, ho 
dedicato a Marx ed al marxismo almeno due decenni di studi, e mi considero un 
conoscitore serio sia della teoria di Marx che della variegata e complessa 
storia del marxismo. 
Ebbene, questo populismo pedagogico, per metà laico ed 
anticlericale e per metà cattocomunista, non c’entrano assolutamente nulla con 
Marx, erede diretto dell’illuminismo e del romanticismo, e dunque del grande 
liceo tedesco dell’Ottocento. La matrice deve essere piuttosto fatta risalire 
alla corrente detta dell’operaismo italiano, ed in particolare ai suoi due 
elementi costitutivi fondamentali, e cioè il sociologismo e l’economicismo. 
Ciò 
che i non specialisti (e cioè il 98% dei commentatori giornalistici della 
storia) credono sia il pensiero di Marx è in realtà un impasto altamente 
sgradevole ma anche altamente volatile (e cioè a bassa conservazione) di 
sociologismo e di economicismo. Questo è particolarmente chiaro nella questione 
scolastica. Per sociologismo intendo l’idea del riassorbimento della cosiddetta 
separatezza della scuola nel corpo diretto della società, intesa per di più come 
l’estensione spaziale di una grande fabbrica. Per economicismo intendo 
l’ossessiva riduzione dell’istituzione scolastica a fornitrice del mercato del 
lavoro capitalistico e di controllo del cosiddetto esercito industriale di 
riserva. Questo impasto di sociologismo e di economicismo, cui si associa 
irresponsabilmente il nome onorato di Marx, è particolarmente evidente nel 
cruciale documento cui farò ora riferimento.
La rivista mensile Il Manifesto (non ancora quotidiano) pubblica nel suo 
numero 2, febbraio 1970, delle Tesi sulla Scuola firmate a sei mani da 
Rossana Rossanda, Marcello Cini e Luigi Berlinguer, che sono uno sconcertante 
concentrato profetico del futuro quinquennio Berlinguer-De Mauro del 1996-2001. 
Vale la pena farvi alcune considerazioni “dialettiche”, che spieghino cioè come 
le stesse impostazioni, mutato il tempo storico in cui vennero espresse, possono 
rovesciarsi nel loro esatto contrario. 
Le Tesi sulla Scuola del 1970 
sono un manifesto dell’utopia della descolarizzazione, cioè dell’integrale 
fusione del momento educativo e formativo con il momento sociale e politico. 
Come tutte le utopie della fusione, si tratta di un fraintendimento radicale e 
fatale del fondamento filosofico ed antropologico del comunismo moderno di Marx, 
che è un comunismo delle libere individualità autonome e non della fusione 
populistica o sociale. Ma qui, se è possibile, vi è un fraintendimento ancora 
più grave. Qui non si capisce neppure la ragione per cui i fondatori della 
scuola moderna, dal 1780 al 1830, ebbero ben chiaro il concetto per cui la 
scuola non doveva “rappresentare” o “rispecchiare” la società così com’era (non 
importa se in variante statica o movimentistica, di destra o di sinistra, 
eccetera), ma doveva costituire un momento relativamente separato. 
Questa 
separatezza, lungi dal rappresentare un ritardo conservatore da colmare, 
rappresentava una garanzia inestimabile di autonomia dalle pressioni dirette ed 
immediate dell’economia e della politica. Per usare il linguaggio delle scienze 
sociali moderne, i governi cambiano, le mode culturali cambiano ogni decennio, 
le cosiddette esigenze del mercato del lavoro mutano con i conseguenti profili 
professionali richiesti, le pressioni giornalistiche mutano, eccetera, mentre la 
scuola come istituzione non può e non deve correre dietro a tutti questi 
inevitabili mutamenti sociali, ma deve dotarsi di una sua temporalità autonoma 
in cui strutturare il momento educativo. 
Confluivano in questa razionale 
concezione di separatezza (ovviamente relativa) il razionalismo illuministico e 
l’idealismo romantico. La scuola è infatti il luogo della paideia, 
dell’educazione dei sentimenti e della ragione, ed il distacco prospettico dalla 
società così com’è è la precondizione ottica per non farsi assorbire e succhiare 
dentro una contemporaneità che poi è anch’essa fasulla, perché è un tempo che 
scorre e scompare istantaneamente. Tutto questo, ovviamente, non impedisce un 
riformismo scolastico anche radicale nei cambiamenti delle materie, dei metodi 
di insegnamento e negli assi culturali. Impedisce soltanto una impossibile 
antropologia della fusione dell’individuo con la società, fusione che viene 
invocata sempre in nome della comunità (di volta in volta religiosa, 
nazionalistica o proletaria, eccetera), laddove rende proprio impossibile ogni 
costituzione vera di comunità, perché una comunità reale è composta da 
individualità libere ed autonome. 
Abbiamo così individuato il difetto che a mio avviso sta nel manico, ed il manico era tenuto 
saldamente in mano da quell’ispirazione culturale sessantottina che era del 
tutto egemone presso quella categoria di intellettuali-massa prevalente 
nell’insegnamento elementare, medio e secondario. Le dinamiche della 
costituzione dell’intellettualità universitaria sono diverse, in quanto hanno a 
che fare con la costituzione della parte inferiore dei ceti dominanti, e non con 
la parte superiore dei ceti dominati. Questo dà luogo ad una tipica situazione 
di scissione simbolica fra Noi e Loro che non deve essere ridotta a semplici 
questioni di stipendio (in questo contesto del tutto secondarie, anche se pur 
sempre significative, perché non si vive di aria e nei negozi bisogna pagare), 
perché hanno a che fare non solo con il cosiddetto prestigio dello status 
sociale, ma con l’accesso ai media e con il diritto ad essere ascoltati. E’ 
chiaro a tutti, ad esempio, che il diritto di un magistrato ad essere ascoltato 
dall’opinione pubblica è mille volte superiore al diritto di un insegnante a 
veder compreso il proprio punto di vista. La macchina spocchiosa del 
giornalismo, ad esempio, equipara il lamento dell’insegnante alla mormorazione 
plebea dell’operaio, identificato con un inesistente Cipputi. Tutto questo, 
purtroppo, non è innocente, perché rinsalda nell’insegnante quelle 
caratteristiche negative del risentimento, del rancore, dell’invidia che sono 
tipiche di ogni plebeismo regressivo ed impotente. 
alla parte successiva
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