A ottanta anni dalla morte di Lenin (1924-2004)

VI parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve su Lenin è stato diviso in otto parti.

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6. La teoria di Lenin delle alleanze di classe

“Gli a solo della classe operaia si trasformano in cerimonie funebri”. Cito a memoria, ma il lettore può darmi fiducia: la citazione è una citazione originale di Marx. E’ strano che su questa citazione, che non è che un bilancio storico meditato di tutti i tentativi ottocenteschi della classe operaia e proletaria di sollevarsi da sola senza alleanze sociali, si sia fatto un grande silenzio per quasi un secolo.

Se infatti questa posizione di Marx fosse stata adeguatamente conosciuta, sarebbero cadute tutte le infondate mitologie minoritarie, bordighiste, trotzkiste, operaiste, eccetera, sul fatto che sia il “marxismo” che il “leninismo” consistono, in ultima istanza, nel punto di vista operaio, e cioè nell’operaismo puro.

Naturalmente, con questo non intendo dire che non esista un legittimo punto di vista operaio puro. Esso esiste, e riguarda cose come il lavoro notturno, la nocività in fabbrica, i ritmi insostenibili di lavoro, l’insufficienza dei salari, eccetera. Qui esiste ovviamente il punto di vista operaio “puro”, di cui chi scrive è sostenitore inveterato da almeno quarant’anni, senza ripensamenti, senza se e senza ma.

Ma che il punto di vista operaio puro sia l’essenza del marxismo lo hanno potuto dire solo tipi alla Adriano Sofri prima di passare al servizio dei bombardatori americani del Kosovo del 1999 e dei massacri sionisti fatti da Israele, definito da Sofri come “un paese che bisogna amare”.

Dal momento che Lenin non era solo un allievo di Marx, ma era anche una persona intelligente e dotata di buon senso realistico, la sua concezione della politica si basava sulla teoria e sulla pratica delle alleanze di classe, e nella fattispecie di tre classi, gli operai, i contadini e gli intellettuali (categoria grande-magazzino in cui finiva con il mettere tutti quelli che non facevano lavori manuali, e dunque dagli impiegati agli artisti).

Possiamo discutere se e fino a che punto questa tripartizione fosse adeguata oppure no. Ma la grandezza di questa concezione risalta ancora di più se la paragoniamo a vertici della confusione a lui contemporanea, come la teoria operaistica delle “masse” di Rosa Luxemburg, per cui ci sono solo i proletari, ed i contadini, gli intellettuali, la questione nazionale, eccetera, non esistono neppure. Non dimentichiamoci mai che l’attenzione di Lenin alle alleanze di classe lo faceva situare addirittura a “destra” dei puri dell’epoca, sognatori di una impossibile “rivoluzione proletaria pura”.

Eppure, anche nella teoria di Lenin delle alleanze di classe c’era una contraddizione insanabile, che alla fine poi è esplosa. In poche parole, Lenin chiedeva alle altre classi “progressiste” di allearsi alla classe operaia e di accettarne l’egemonia, ma solo in via provvisoria e temporanea, in attesa della loro progressiva sparizione, in vista della finale “proletarizzazione universale”. Ora, c’è qualcosa di contraddittorio nel chiedere alla gente il suicidio o meglio l’eutanasia. Da un lato, si propone l’alleanza di classe. Dall’altro, si tiene fermo che alla fine del processo ci sarà una sorta di inevitabile globalizzazione proletaria universale in una società nuova senza classi caratterizzata dalla omogeneizzazione proletaria.

Siamo talmente abituati da una scolastica marxista secolare ad identificare la possibilità di una società senza classi con l’avvenuta proletarizzazione unica ed omogenea universale che non ci viene generalmente in mente che ci potrebbe essere in futuro in via di principio una società senza classi senza che questa si identifichi con una società proletarizzata omogenea globalizzata. O meglio, non viene in mente a quasi nessuno, ma rivendico il fatto che a me questa idea è almeno venuta in mente. La “proletarizzazione forzata” implica necessariamente resistenza, e questo non soltanto da parte degli egoisti borghesi sfruttatori del sangue proletario.

Possiamo allora chiederci in questo paragrafo il perché del fatto che Lenin da un lato sostenesse le alleanze di classe e dall’altro annunciasse la proletarizzazione universale incitando all’eutanasia di tutti i gruppi sociali non ancora “proletarizzati”. In proposito il discorso sarebbe lungo, perché dovrebbe investire il nucleo delle filosofie messianiche della fine della storia (da Stalin a Fukuyama), e la teoria della proletarizzazione finale della storia mondiale è una variante economicistica delle teorie della fine della storia. Per il momento mi limito a due soli ordini di osservazioni.

La teoria della proletarizzazione universale come coronamento sociologico della fine comunista della storia, dato e non concesso che risalga a Marx e/o a Lenin (su questo non posso discutere qui per ragioni di spazio), è un mito monistico-sociologico, o se vogliamo un mito ispirato al monismo sociologico, che rivela una mancata assimilazione della dialettica, ed in particolare della dialettica di Hegel. Proletariato e Borghesia, infatti, sono concetti e realtà unicamente relazionali e complementari, e non esistono e non possono esistere indipendentemente ed isolatamente. L’unità storica e dialettica consiste esclusivamente nella loro relazione. Il mito della cosiddetta “proletarizzazione” è solo l’altra faccia del mito opposto del cosiddetto “imborghesimento”. In particolare oggi, almeno in molti paesi cosiddetti “avanzati” i processi complementari di proletarizzazione e di imborghesimento hanno portato ad una sorta di capitalismo post-borghese e post-proletario, e continuano a non capirlo solo quelli che pensano che Berlusconi con la bandana da pirata sulla testa sia ancora un “borghese” e che Bertinotti rappresenti i “proletari”.

Questa è la prima osservazione, ma la seconda è ancora più importante. Da dove tira fuori Lenin l’idea che una proletarizzazione universale sia una cosa buona da favorire in tutti i modi? Bisogna distinguere, a mio avviso, due aspetti del problema, uno in negativo e uno in positivo. In negativo, lo sorregge la profonda convinzione della cosiddetta “decadenza” della borghesia come classe sociale, decadenza che a sua volta comprenderebbe due aspetti, un aspetto di “stagnazione” e putrefazione delle forze produttive e un aspetto di “imbarbarimento” nei rapporti sociali, politici e militari. Da questo punto di vista “negativo” Verdun e il Carso, Hiroshima e Auschwitz, Palestina e Bagdad sono lì per ricordarci che la diagnosi di imbarbarimento era semmai fin troppo ottimistica, laddove la diagnosi di “stagnazione” era invece errata, dal momento che il capitalismo si è rivelato capacissimo di sviluppare continue innovazioni di processo e soprattutto di prodotto fino a sbaragliare sul campo lo stagnante ed inefficiente socialismo reale (e la Cina è solo l’eccezione che conferma la regola, avendo prima fatto una sorta di accumulazione industriale primitiva in forma “socialista” ed avendo poi intrapreso in un secondo momento un decollo capitalistico in piena regola).

In positivo, la teoria della proletarizzazione positiva di Lenin si basa su di un presupposto umano oggi dimenticato, il lavoratore consapevole erede della filosofia tedesca, detto in lingua tedesca bewusste Arbeiter. Questa figura, a mio avviso, è una pura costruzione mitologica, ed in realtà non è mai veramente esistita, al di là di alcune migliaia di lavoratori manuali di fabbrica che nel tempo libero leggevano Kant, Darwin, Marx ed addirittura Hegel, oltre ovviamente ai grandi romanzieri classici (Balzac, Tolstoj, eccetera). Questo mito fu creato da Engels attraverso la figura del proletariato erede della filosofia classica tedesca. Questo proletario era del tutto inesistente, mentre invece erano esistenti, anche se non molto numerosi, proletari (soprattutto tedeschi e scandinavi) che si informavano invece su sintesi positivistiche elementari.

Questo bewusste Arbeiter socialista è una figura ultraminoritaria, ma esistente nel trentennio 1880-1910, mentre il suo successore, il bewusste Arbeiter comunista, è anch’esso una figura ultraminoritaria, ma esistente, del trentennio 1920-1950. Io stesso, ad esempio, ne ho incontrati alcuni esemplari a Torino, a Parigi, ed a Atene, le sole città in cui abbia vissuto. Soprattutto a Torino, questo bewusste Arbeiter univa genuino interesse per la cultura con penosi riduzionismi collaterali della cultura a ideologia ed a forma di lotta per la cosiddetta gramsciana “egemonia”, che nessuna persona lucidamente consapevole può veramente proporre come modello culturale ed umano realmente riproponibile oggi.

In questo modo, Lenin poteva realmente conciliare l’accettazione piena e sincera delle alleanze di classe con il monismo sociologico proletario, o più esattamente con il mito della omogeneizzazione proletaria finale dell’intera popolazione mondiale. In proposito, lascerò parlare al mio posto il benemerito presidente venezuelano Hugo Chavez (cfr. “Il Manifesto”, 18-8-04): “Non credo ai dogmi della rivoluzione marxista. Non penso affatto che stiamo vivendo in un’epoca di rivoluzioni proletarie. Tutto questo deve essere ripensato. La realtà ce lo dice ogni giorno”.

Ci vuole un creolo mezzo indio e mezzo nero per dire certe ovvietà che tutti i marxisti sofisticati non hanno ancora capito. Lenin, se fosse vivo, lo avrebbe certamente approvato, ed avrebbe parlato di “Europa arretrata e di Venezuela avanzato”. Ma i leninisti senza Lenin sono come gli aristotelici senza Aristotele ai tempi di Galileo. Da tempo ho smesso di sperare che comincino a capire qualcosa.



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