6. La
teoria di Lenin delle alleanze di classe
“Gli a solo della classe operaia si trasformano in
cerimonie funebri”. Cito a memoria, ma il lettore può darmi fiducia: la
citazione è una citazione originale di Marx. E’ strano che su questa citazione,
che non è che un bilancio storico meditato di tutti i tentativi ottocenteschi
della classe operaia e proletaria di sollevarsi da sola senza alleanze sociali,
si sia fatto un grande silenzio per quasi un secolo.
Se infatti questa
posizione di Marx fosse stata adeguatamente conosciuta, sarebbero cadute tutte
le infondate mitologie minoritarie, bordighiste, trotzkiste, operaiste,
eccetera, sul fatto che sia il “marxismo” che il “leninismo” consistono, in
ultima istanza, nel punto di vista operaio, e cioè nell’operaismo puro.
Naturalmente, con questo non intendo dire che non esista un legittimo punto di
vista operaio puro. Esso esiste, e riguarda cose come il lavoro notturno, la
nocività in fabbrica, i ritmi insostenibili di lavoro, l’insufficienza dei
salari, eccetera. Qui esiste ovviamente il punto di vista operaio “puro”, di
cui chi scrive è sostenitore inveterato da almeno quarant’anni, senza
ripensamenti, senza se e senza ma.
Ma che il punto di vista operaio puro sia
l’essenza del marxismo lo hanno potuto dire solo tipi alla Adriano Sofri prima
di passare al servizio dei bombardatori americani del Kosovo del 1999 e dei
massacri sionisti fatti da Israele, definito da Sofri come “un paese che
bisogna amare”.
Dal momento che Lenin non era solo un allievo di Marx, ma
era anche una persona intelligente e dotata di buon senso realistico, la sua
concezione della politica si basava sulla teoria e sulla pratica delle alleanze
di classe, e nella fattispecie di tre classi, gli operai, i contadini e gli
intellettuali (categoria grande-magazzino in cui finiva con il mettere tutti
quelli che non facevano lavori manuali, e dunque dagli impiegati agli artisti).
Possiamo discutere se e fino a che punto questa tripartizione fosse adeguata
oppure no. Ma la grandezza di questa concezione risalta ancora di più se la
paragoniamo a vertici della confusione a lui contemporanea, come la teoria
operaistica delle “masse” di Rosa Luxemburg, per cui ci sono solo i proletari,
ed i contadini, gli intellettuali, la questione nazionale, eccetera, non
esistono neppure. Non dimentichiamoci mai che l’attenzione di Lenin alle
alleanze di classe lo faceva situare addirittura a “destra” dei puri
dell’epoca, sognatori di una impossibile “rivoluzione proletaria pura”.
Eppure, anche nella teoria di Lenin delle alleanze di
classe c’era una contraddizione insanabile, che alla fine poi è esplosa. In
poche parole, Lenin chiedeva alle altre classi “progressiste” di allearsi alla
classe operaia e di accettarne l’egemonia, ma solo in via provvisoria e
temporanea, in attesa della loro progressiva sparizione, in vista della finale
“proletarizzazione universale”. Ora, c’è qualcosa di contraddittorio nel
chiedere alla gente il suicidio o meglio l’eutanasia. Da un lato, si propone
l’alleanza di classe. Dall’altro, si tiene fermo che alla fine del processo ci
sarà una sorta di inevitabile globalizzazione proletaria universale in una
società nuova senza classi caratterizzata dalla omogeneizzazione proletaria.
Siamo talmente abituati da una scolastica marxista
secolare ad identificare la possibilità di una società senza classi con
l’avvenuta proletarizzazione unica ed omogenea universale che non ci viene
generalmente in mente che ci potrebbe essere in futuro in via di principio una
società senza classi senza che questa si identifichi con una società
proletarizzata omogenea globalizzata. O meglio, non viene in mente a quasi
nessuno, ma rivendico il fatto che a me questa idea è almeno venuta in mente.
La “proletarizzazione forzata” implica necessariamente resistenza, e questo non
soltanto da parte degli egoisti borghesi sfruttatori del sangue proletario.
Possiamo allora chiederci in questo paragrafo il perché del fatto che Lenin da
un lato sostenesse le alleanze di classe e dall’altro annunciasse la
proletarizzazione universale incitando all’eutanasia di tutti i gruppi sociali
non ancora “proletarizzati”. In proposito il discorso sarebbe lungo, perché
dovrebbe investire il nucleo delle filosofie messianiche della fine della storia
(da Stalin a Fukuyama), e la teoria della proletarizzazione finale della storia
mondiale è una variante economicistica delle teorie della fine della storia.
Per il momento mi limito a due soli ordini di osservazioni.
La teoria della proletarizzazione universale come
coronamento sociologico della fine comunista della storia, dato e non concesso
che risalga a Marx e/o a Lenin (su questo non posso discutere qui per ragioni
di spazio), è un mito monistico-sociologico,
o se vogliamo un mito ispirato al monismo sociologico, che rivela una mancata
assimilazione della dialettica, ed in particolare della dialettica di Hegel. Proletariato e Borghesia, infatti,
sono concetti e realtà unicamente relazionali e complementari, e non esistono e
non possono esistere indipendentemente ed isolatamente. L’unità storica e
dialettica consiste esclusivamente nella loro relazione. Il mito della
cosiddetta “proletarizzazione” è solo l’altra faccia del mito opposto del
cosiddetto “imborghesimento”. In particolare oggi, almeno in molti paesi
cosiddetti “avanzati” i processi complementari di proletarizzazione e di
imborghesimento hanno portato ad una sorta di capitalismo post-borghese e
post-proletario, e continuano a non capirlo solo quelli che pensano che
Berlusconi con la bandana da pirata sulla testa sia ancora un “borghese” e che
Bertinotti rappresenti i “proletari”.
Questa è la prima osservazione, ma la seconda è ancora più
importante. Da dove tira fuori Lenin l’idea che una proletarizzazione
universale sia una cosa buona da favorire in tutti i modi? Bisogna distinguere,
a mio avviso, due aspetti del problema, uno in negativo e uno in positivo. In
negativo, lo sorregge la profonda convinzione della cosiddetta “decadenza”
della borghesia come classe sociale, decadenza che a sua volta comprenderebbe
due aspetti, un aspetto di “stagnazione” e putrefazione delle forze produttive
e un aspetto di “imbarbarimento” nei rapporti sociali, politici e militari. Da
questo punto di vista “negativo” Verdun e il Carso, Hiroshima e Auschwitz, Palestina
e Bagdad sono lì per ricordarci che la diagnosi di imbarbarimento era semmai
fin troppo ottimistica, laddove la diagnosi di “stagnazione” era invece errata,
dal momento che il capitalismo si è rivelato capacissimo di sviluppare continue
innovazioni di processo e soprattutto di prodotto fino a sbaragliare sul campo
lo stagnante ed inefficiente socialismo reale (e la Cina è solo l’eccezione che
conferma la regola, avendo prima fatto una sorta di accumulazione industriale
primitiva in forma “socialista” ed avendo poi intrapreso in un secondo momento
un decollo capitalistico in piena regola).
In positivo, la teoria della proletarizzazione positiva di
Lenin si basa su di un presupposto umano oggi dimenticato, il lavoratore
consapevole erede della filosofia tedesca, detto in lingua tedesca bewusste
Arbeiter. Questa figura, a mio avviso, è una pura costruzione mitologica,
ed in realtà non è mai veramente esistita, al di là di alcune migliaia di
lavoratori manuali di fabbrica che nel tempo libero leggevano Kant, Darwin,
Marx ed addirittura Hegel, oltre ovviamente ai grandi romanzieri classici
(Balzac, Tolstoj, eccetera). Questo mito fu creato da Engels attraverso la
figura del proletariato erede della filosofia classica tedesca. Questo
proletario era del tutto inesistente, mentre invece erano esistenti, anche se
non molto numerosi, proletari (soprattutto tedeschi e scandinavi) che si
informavano invece su sintesi positivistiche elementari.
Questo bewusste
Arbeiter socialista è una figura ultraminoritaria, ma esistente nel
trentennio 1880-1910, mentre il suo successore, il bewusste Arbeiter comunista, è anch’esso una figura
ultraminoritaria, ma esistente, del trentennio 1920-1950. Io stesso, ad esempio, ne ho incontrati alcuni esemplari a
Torino, a Parigi, ed a Atene, le sole città in cui abbia vissuto. Soprattutto a
Torino, questo bewusste Arbeiter univa genuino interesse per la cultura
con penosi riduzionismi collaterali della cultura a ideologia ed a forma di
lotta per la cosiddetta gramsciana “egemonia”, che nessuna persona lucidamente
consapevole può veramente proporre come modello culturale ed umano realmente
riproponibile oggi.
In questo modo, Lenin poteva realmente conciliare
l’accettazione piena e sincera delle alleanze di classe con il monismo
sociologico proletario, o più esattamente con il mito della omogeneizzazione
proletaria finale dell’intera popolazione mondiale. In proposito, lascerò
parlare al mio posto il benemerito presidente venezuelano Hugo Chavez (cfr. “Il
Manifesto”, 18-8-04): “Non credo ai dogmi della rivoluzione marxista. Non penso
affatto che stiamo vivendo in un’epoca di rivoluzioni proletarie. Tutto questo
deve essere ripensato. La realtà ce lo dice ogni giorno”.
Ci vuole un creolo mezzo indio e mezzo nero per dire certe
ovvietà che tutti i marxisti sofisticati non hanno ancora capito. Lenin, se
fosse vivo, lo avrebbe certamente approvato, ed avrebbe parlato di “Europa
arretrata e di Venezuela avanzato”. Ma i leninisti senza Lenin sono come gli
aristotelici senza Aristotele ai tempi di Galileo. Da tempo ho smesso di
sperare che comincino a capire qualcosa.