Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Indipendenza è stato diviso in tredici parti.
 
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10. Il triangolo storico della Prima Repubblica: il nazionalismo nostalgico 
  di destra, l'ecumenismo democristiano e lo storicismo cosmopolitico togliattiano.
  
  La prima repubblica (1946-primi anni Novanta) è stata l'incubatrice storica 
  di processi di dissoluzione potenziale dell'identità nazionale italiana, 
  e pertanto dell'indipendenza reale del nostro popolo. Facciamo questa affermazione 
  gravissima in modo consapevole, senza alcun compiacimento, ed anzi con molta 
  preoccupazione. Per comprendere bene la severità di questa affermazione 
  bisogna ovviamente ricordare quanto già affermato nel paragrafo precedente, 
  per cui l'ideologia antifascista del CLN (il ciellenismo) non fece che rovesciare 
  la politicizzazione indebita attuata precedentemente dal fascismo, identificando 
  l'identità nazionale con una (sia pure legittima) posizione politico-ideologica. 
  Chi afferma oggi (ed alcuni coglioni lo fanno) che la nazione italiana morì 
  nel 1943, come se prima il fascismo l'avesse lasciata vivere onestamente, dimostra 
  soltanto la sua malafede ed il uso inguaribile settarismo politico. Ma questo 
  richiamo non basta. È infatti necessario analizzare i tre lati del triangolo 
  ideologico della prima repubblica, la destra, il centro e la sinistra.
  Iniziamo dalla destra. Nella prima repubblica italiana ci sono state a mio avviso 
  schematicamente due destre, contigue ed intercomunicanti. Una prima destra governativa, 
  costituita da democristiani, liberali e socialdemocratici, ed una destra contigua, 
  costituita essenzialmente da aderenti e simpatizzanti del Movimento Sociale 
  Italiano. Il punto di collusione e di incontro di queste due componenti è 
  stato per decenni il vasto ed articolato apparato della burocrazia ministeriale, 
  delle forze armate, degli apparati di polizia e dei servizi segreti, eccetera. 
  Questo fatto è difficilmente negabile, ed in alcuni casi (e si pensi 
  alla posizione di Francesco Cossiga sulla cosiddetta Gladio) è addirittura 
  apertamente rivendicato, nei termini alla Nolte della "guerra civile mondiale" 
  1945-1991. Per entrambe queste destre (che marciavano sempre separate e colpivano 
  spesso unite) il fondamento dell'identità nazionale era l'anticomunismo. 
  È questo appunto un fondamento perverso, per il semplice fatto che un'identità 
  nazionale (in particolare come quella italiana, in cui la lingua e la cultura 
  sono i due elementi essenziali) non può mai fondarsi su di una opzione 
  politica, fascista o antifascista, comunista o anticomunista, ecc. Non si vuole 
  qui negare la legittimità storica novecentesca dell'anticomunismo, evidente 
  non appena si ammetta (e si veda il 3° §) la piena legittimità 
  storica novecentesca del comunismo, contro ogni mitologia della presunta illusione 
  criminale. Vi sono poi svariate forme di anticomunismo, tutte interessanti, 
  dal fervore del credente all'egoismo del ricco, dal rancore deluso dell'ex militante 
  disincantato all'irriducibile individualismo del non-conformista, eccetera. 
  Non vi è qui lo spazio per analizzare questa pittoresca e variopinta 
  fenomenologia psicologica e sociale. Qui basti riaffermare che l'identità 
  nazionale italiana non si può fondare sull'anticomunismo, che la subalternità 
  servile alla NATO non può certo essere più nazionale della simpatia 
  politica per il cosiddetto campo socialista, e che ancora una volta l'identificazione 
  di un principio comunitario (in questo caso nazionalitario) con una posizione 
  politica è sempre l'anticamera di una potenziale tragedia storica.
  E passiamo ora al centro. Nella prima repubblica italiana esso è stato 
  sempre quasi completamente occupato dalla balena democristiana. È tuttora 
  difficilissima una valutazione storiografica sobria ed equilibrata di questa 
  balena democristiana, perché essa ha dominato per quasi mezzo secolo 
  un sistema politico bloccato, ed in essa si sono riversati tutti i difetti e 
  tutte le qualità del nostro popolo. A mio avviso l'aspetto storico principale 
  di questa balena sta in un tragicomico paradosso, cioè il fatto che questo 
  mastodonte cattolico-clericale ha politicamente gestito la progressiva scristianizzazione 
  del popolo italiano, largamente coincidente con la modernizzazione capitalistica. 
  L'idea di opporsi a questa modernizzazione restando democristiani ed anzi radicalizzando 
  il clericalismo (evidente in pensatori cattolici di buon livello come Augusto 
  del Noce) è per chi scrive un'idea parallela (nella sua patetica e tragicomica 
  ineffettualità) a quella di chi intendeva opporsi alla degenerazione 
  degli stati e dei partiti comunisti restando comunisti ed anzi radicalizzando 
  il proprio marxismo ed il proprio leninismo (evidente nel gruppo intellettuale 
  generazionale in cui si è formato lo scrivente di queste righe). Ma di 
  questo interessante parallelismo storico non possiamo purtroppo parlare adesso. 
  È invece importante ripetere che la balena clericale di centro, erede 
  dell'ostilità storica dei clericali allo stato nazionale italiano (ed 
  in questo positivamente aperta a valorizzare aspetti culturali locali e regionali), 
  era geneticamente predisposta ad aprire incondizionatamente verso due centri 
  politico-culturali non nazionali, la NATO americana e l'Europa carolingia soprattutto 
  tedesca. Nel sorriso di Prodi, democristiano genetico totale, vi sono tuttora 
  l'incondizionato servilismo verso la NATO americana (fino ad avallare tutti 
  i possibili bombardamenti contro l'Irak presenti o futuri) ed il prono consenso 
  al monetarismo dell'Europa carolingia di Maastricht ed ai suoi cosiddetti parametri 
  economici oggettivi. Questo doppio servilismo, genetico nella balena clericale 
  della prima repubblica, si è robustamente travasato nell'Ulivo. Potenza 
  della scienza degli innesti!
  Passiamo ora alla sinistra. Qui la lingua batte, perché il dente duole. 
  In estrema approssimazione, la sinistra (e quella italiana in particolare) è 
  caratterizzata dalla confusione permanente fra popolo e nazione, il che comporta 
  uno stato culturale confusionale permanente fra il principio populista ed il 
  principio nazionalitario. Cerchiamo di spiegarci meglio. Naturalmente, non intendo 
  qui passare sotto silenzio i grandi meriti, anche culturali, della sinistra, 
  nel promuovere posizioni antifasciste, anticolonialiste ed anti-imperialiste 
  (dalla Corea al Vietnam, dall'Algeria a Cuba, dalla decolonizzazione africana 
  a quella asiatica -fa eccezione purtroppo la colpevole disattenzione verso il 
  sionismo). Queste posizioni devono essere tutte rivendicate. Ma la sinistra 
  ha talvolta (non sempre) un concetto di popolo (nel doppio significato di comunità 
  politica democratica e di strati sociali a basso reddito economico), ma non 
  ha (quasi) mai un concetto di nazione, nel significato di comunità nazionalitaria 
  sviluppatasi progressivamente in una etnogenesi linguistica e culturale. Alla 
  base di questa confusione ci sta purtroppo una concezione strumentale e riduttiva 
  della cultura, per cui la cultura è solo e sempre quello che serve, direttamente 
  o indirettamente, all'ideologia politica di legittimazione di partito. Ed allora 
  le conseguenze sono gravi, ed anzi incalcolabili. Facciamo qui soltanto (fra 
  i molti possibili) l'esempio del cosiddetto nazionalpopolare. Qui l'elemento 
  culturale dell'identità nazionale è ridotto a ciò che può 
  essere diretto al popolo inteso non come comunità politica democratica 
  (è questa la mia concezione teorica e pratica di popolo, per cui vorrei 
  che il popolo italiano fosse una comunità politica democratica, e non 
  una massa di manovra di una nuova oligarchia plebiscitaria agli ordini dell'impero 
  americano), ma come strati sociali poveri, preferibilmente analfabeti. Questo 
  populismo è potenzialmente devastante. A suo tempo, prima di sprofondare 
  nell'analfabetismo di ritorno del baronato universitario, Alberto Asor Rosa 
  scrisse in proposito pagine molto convincenti, nel libro Scrittori e Popolo. 
  La dinamica del populismo culturale, frutto del complesso di colpa regressivo 
  di piccoli e grandi borghesi angosciati dal non avere le mani abbastanza callose, 
  ed adoratori dei plebei più plebei possibili (qui il caso Sofri, o meglio 
  il caso Marino, offrirebbe ad un nuovo Balzac un tema romanzesco incomparabile), 
  inizia dal rammarico del non avere mai avuto un Victor Hugo italiano, e finisce 
  necessariamente in Canzonissima, Pippo Baudo e Raffaella Carrà, mano 
  a mano che la cultura popolare viene assorbita nella cultura di massa capitalistica. 
  Certo, non è colpa di Gramsci se ci è stato questo passaggio dialettico 
  da Pasolini a Veltroni. Ma chi non capisce questo è condannato a non 
  capire la dinamica della metamorfosi del nazionalpopolare in show-business, 
  e del perché della trasformazione alla Stephen King del popolano lettore 
  di romanzoni strappalacrime in casalinga berlusconiana lacrimante davanti a 
  telenovelas intervallate da accattivanti spot pubblicitari.
  
    
 
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