Centoventi anni dalla morte di Karl Marx (1883-2003)

Un’occasione per una discussione a tutto campo e per una proposta di autoconvocazione

I parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione

Alla parte successiva




1. La congiuntura storica in cui cade l’anniversario dei centoventi anni dalla morte di Marx (1883-2003). L’impero ideologico-militare americano-sionista

Il centenario della morte di Karl Marx avvenne nel 1983 in un contesto storicamente molto diverso da quello di oggi, e cioè in un contesto di bipolarismo geopolitico mondiale, con la presenza di due superpotenze strategicamente paragonabili, gli USA e l’URSS. Alla luce dell’arrogante unilateralismo militare odierno degli americani e dei sionisti, si trattava di una situazione molto migliore, perché di fatto lasciava un maggiore spazio d’indipendenza a gran parte dei paesi del mondo. A distanza di soli vent’anni, sembra che siano già passati dei secoli.

Negli anni Ottanta del Novecento, e questo era particolarmente visibile in alcuni paesi dell’Europa Occidentale (Italia, Francia e Spagna in particolare), la tradizionale egemonia del marxismo fra gli intellettuali, i giovani, gli studenti e le avanguardie operaie (egemonia che caratterizzò il decennio 1966-1976) stava sfaldandosi. Si stava rapidamente realizzando la geniale diagnosi del pensatore cattolico Augusto Del Noce (il più grande “marxista inconsapevole” della seconda metà del Novecento italiano, e parlo assolutamente sul serio), per cui la logica dello storicismo progressista a base filosoficamente nichilistica portava irresistibilmente ad un’adesione alla cosiddetta “società radicale” occidentalistica dei consumi. Lo storicismo di Gramsci stava evolvendo rapidamente nel Nietzsche post-moderno di Vattimo.

Ogni tentativo di emancipare il marxismo dall’economicismo riduzionistico e dai miti operaistici, tentativo che personalmente svolsi in modo patetico per un decennio (con varie proposte inutili di rilettura di Lukács, Benjamin, Bloch, Althusser, ecc.) cadeva nel vuoto assoluto, mentre avanzavano invece in modo inarrestabile le tre varianti del femminismo differenzialistico, dell’ecologismo parlamentaristico e del pacifismo moralistico, che nei confronti dell’eredità marxista gettavano via il bambino (del materialismo storico) con l’acqua sporca (dello storicismo grande-narrativo e dell’economicismo riduzionistico). Sono molto fiero di essermi comportato in modo “patetico” in quel periodo, avendo sempre considerato Don Chisciotte un eroe positivo, ma vent’anni dopo non posso fare a meno di valutare in modo più “distanziato” la situazione storica.

La stessa cosa si può dire per il fenomeno Gorby, il ridicolo mito della perestrojka e della glasnost e la comprensione esatta dei termini della dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1985-1992). Da un lato, avevo assimilato nel decennio precedente le lezioni del maoismo cinese, di Paul Sweezy e di Charles Bettelheim, e non mi facevo illusioni teoriche sul carattere classistico delle società comuniste, e su come la dinamica storica dei loro gruppi dirigenti le portava irresistibilmente verso una restaurazione del capitalismo “normale”. Dall’altro lato continuavo ad avere delle illusioni emotive, e dunque non razionali, e speravo (nella dimensione psicologica che gli anglosassoni chiamano wishful thinking) nella riformabilità di questi baracconi politico-sociali in agonia. Con la comprensibile stupidità del comunista indipendente accolsi l’avvento del ridicolo Gorby con speranza messianica. Da allora ritengo di aver imparato la lezione. E’ giusto sperare, ma è sbagliato raccontar(si) delle storie. Il motto dei marxisti rimasti in questo 2003 dovrebbe infatti essere: sperare, continuare a sperare, ma senza raccontar(si) delle storie.

Lo scenario di questo 2003 è ben diverso da quello del 1938. Oggi siamo in pieno imperialismo militare e neocoloniale, in una situazione di completa assenza del diritto internazionale e di unilateralismo assassino da parte degli americani e dei sionisti. Oggi la sola discriminante seria non è certamente più quella disegnata dalla dicotomia Sinistra/Destra, almeno a mio parere, ma è quella disegnata dalla dicotomia ben più importante Sostenitori dell’Impero/Avversari dell’Impero. A suo tempo, non ricordo in che anno (ma credo intorno al 1920) Lenin scrisse che l’emiro feudale dell’Afganistan poteva essere più “progressista” della socialdemocrazia tedesca. Ed infatti ora siamo nella stessa situazione di allora. Il girotondaro americanizzato è oggi molto peggiore del mullah fondamentalista. Entriamo in un mondo nuovo, e chi continua ad interpretarlo con gli schemi del 1945, del 1968 o del 1983 contribuisce a protrarre la confusione ed a rimandare le necessarie operazioni di riorientamento gestaltico radicale. Chi ritiene di poter parlare di Marx e marxismo senza comprendere bene questo punto è fuori a mio avviso da ogni ipotesi di ricostruzione di una prospettiva anticapitalistica.




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