In 
  primo luogo, con la stragrande maggioranza dei cosiddetti intellettuali 
  comunisti e marxisti, ho dato per scontato per almeno un ventennio che la 
  sinistra fosse l’unico luogo storico e culturale possibile non solo per la 
  rivoluzione, ma anche per la razionalità e il progresso dell’umanità. Si 
  trattava di un presupposto di autosufficienza che conteneva un aspetto 
  parzialmente narcisistico, evidente oggi nella crociata antiberlusconiana di 
  personaggi che approvano tutte le guerre imperiali americane, ma poi credono 
  che il problema dei problemi sia il cattivo gusto delle televisioni private o 
  il conflitto di interessi. Questo presupposto di autosufficienza mi spingeva 
  ovviamente a condividere il "tabù dell’impurità" verso chiunque si dichiarasse 
  di destra o di estrema destra. Non mi era chiaro, e non poteva esserlo ai miei 
  coetanei ingannati, che il prolungamento di questa guerra civile simulata 
  serviva soltanto a riprodurre un sistema politico consociativo (ancorché 
  migliore di quello nato dopo il 1992 ad opera del colpo di stato giudiziario 
  di Mani Pulite). In poche parole, per dirla in termini cartesiani, non ero 
  stato ancora investito né dal dubbio metodico né tantomeno dal dubbio 
  iperbolico.   
  
  In secondo luogo, ripeto quanto già scritto in molte altre sedi, e 
  cioè che considero gli esiti storici del Sessantotto un episodio della storia 
  dell’individualismo radicale contemporaneo (chi ha sostenuto con migliori 
  argomenti questa tesi è stato il francese Lipovetsky). Il Sessantotto, almeno 
  in Italia e Francia, si caratterizza per la compresenza di una spinta 
  irresistibile alla modernizzazione post-borghese dei costumi, da un lato, e di 
  una falsa coscienza ideologica che mascherava questa modernizzazione 
  post-borghese con l’assunzione di una utopia comunista e libertaria, vissuta 
  peraltro in buona fede in quasi tutti i casi. In quanto tale, il Sessantotto 
  non è dunque la matrice dei partitini rivoluzionari del periodo 1969-1977 e 
  neppure della lotta armata brigatista in Italia. L’ideologia di destra che fa 
  questa equazione è del tutto fuori strada.   
  
  
In terzo luogo, se si studia 
  l’ideologia italiana dei micropartitini erroneamente detti estremistici degli 
  anni 1969-1977 (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, partitini 
  marxisti-leninisti, eccetera), si deve sapere che il loro riferimento a Marx 
  ed a Lenin era del tutto formale, astratto ed infondato. Il marxismo era 
  assunto nella forma dell’operaismo italiano, ed il leninismo nella forma del 
  populismo pauperistico. Questo spiega perché vediamo oggi il populista 
  pauperistico Aldo Brandirali nell’area politica di Berlusconi, e l’operaista 
  Adriano Sofri fra gli apologeti del sionismo, delle guerre americane e 
  dell’imperialismo più totale. Non si è dunque trattato di un "tradimento". 
  
    
Nessun moralismo serve a capire il fenomeno. Questa gente non ha mai avuto in 
  nessun momento il minimo rapporto con Marx o con Lenin, e si tratta allora di 
  avventure della dialettica del tutto specifiche. 
  
  
In quarto luogo, se si 
  esamina l’ideologia della lotta armata in Italia (sia sul versante Brigate 
  Rosse che in quello Prima Linea) si vede che si tratta semplicemente dell’uso 
  delle armi da fuoco a partire dal precedente demenziale paradigma teorico e 
  politico dell’operaismo e del populismo pauperistico. Marx e Lenin non 
  c’entrano niente. Marx è il teorico del lavoratore collettivo cooperativo 
  associato, e Lenin è il teorico delle larghe alleanze di classe.   
  
  
Tutto questo 
  era del tutto estraneo agli allucinati pistoleros, che erano mossi da tre 
  presupposti del tutto onirici.  
  
  
Primo, una concezione paranoica del capitalismo 
  mondiale come meccanismo unitario e pianificato, il cosiddetto SIM, lo Stato 
  Imperialista delle Multinazionali (e questa concezione unitaria e non 
  concorrenziale resta oggi nell’idea di impero senza imperialismo di Toni 
  Negri). Il capitalismo diventa l’organizzazione Spectre di James Bond. 
  
    
Secondo, una concezione che definirei di operaismo mistico, per cui la classe 
  operaia di fabbrica continua ad essere vista come il gigante buono da 
  svegliare con azioni esemplari, alla faccia delle leniniane alleanze di 
  classe.   
  
  
Terzo, una concezione che definirei di antifascismo mitico, per cui ci 
  si sentiva eredi ed emuli di Pesce, il partigiano dei GAP, e di Kamo, il 
  rapinatore di banche armeno del tempo di Lenin, e si vedeva un fascista in 
  ogni poliziotto democristiano ed in ogni ingegnere FIAT (questo antifascismo 
  mitico permane ancora oggi in chi continua a vedere Bossi, Berlusconi e Fini 
  dei semplici eredi del fascismo metafisico).   
  
  
Come si vede questi tre 
  presupposti non hanno nulla a che vedere con il marxismo e con il leninismo. 
  Chi li ignora può ripetere questo luogo comune infondato, ma chi sa chi sono 
  stati e che cosa hanno scritto Marx e Lenin (ed io lo so) non si farà prendere 
  per il naso.   
  
  
In quinto luogo, devo dire che l’avvento del gorbaciovismo nel 
  1985 mi fece cadere in una comprensibile schizofrenia, che peraltro condivisi 
  con molti intellettuali marxisti del mondo. Da un lato, sulla scorta di 
  analisti marxisti come Paul Sweezy e Charles Bettelheim, ero convinto da tempo 
  che il socialismo reale fosse diretto da una nuova ed inedita classe 
  sfruttatrice, formatasi con il consolidamento delle burocrazie dispotiche 
  della fusione tra partito e stato (più esattamente, fra partito comunista e 
  stato socialista), e perciò nessuna riforma potesse partire dall’alto in una 
  direzione di emancipazione socialista. 
  
  
Dall’altro, continuavo pascalianamente 
  a sperare nell’autoriforma della burocrazia, e che il baraccone potesse essere 
  salvato all’ultimo momento, perché mi era già chiaro che il crollo geopolitico 
  del baraccone burocratico avrebbe comportato il sorgere da incubo di un impero 
  americano unilaterale.   
  
  
Con questi sentimenti schizofrenici affrontai il 
  fenomeno Gorbaciov, e ci misi molto per capire ciò che avrebbe dovuto essere 
  marxianamente chiaro, e cioè che la classe sfruttatrice dei burocrati di 
  stato, resasi conto di non poter continuare con il vecchio meccanismo 
  statalista e pianificato di sfruttamento, si sarebbe infine riciclata come 
  nuova borghesia compradora e speculativa del più solido e collaudato 
  capitalismo occidentale. Il che ovviamente avvenne, insieme con l’affermazione 
  dell’odioso ed ipocrita unilateralismo geopolitico americano. Meno Pascal e 
  più Marx, meno scommessa e più analisi, eccetera, mi avrebbe forse fatto 
  capire meglio le cose. Ma come disse il saggio proverbio, meglio tardi che 
  mai. 
  
  
  Sul piano intellettuale, cominciai a capire che la dicotomia di sinistra e 
  destra era del tutto inservibile per mettere a fuoco i problemi di un 
  eventuale rinnovamento del marxismo nel triennio 1991-1993, quando per 
  l’editore Vangelista di Milano scrissi una serie di libri, fra cui una 
  trilogia dedicata ai rapporti rispettivi del marxismo con il nichilismo, 
  l’universalismo e l’individualismo. 
  
  Mano a mano che approfondivo l’analisi, mi 
  rendevo conto che la dicotomia non era solo inservibile, ma addirittura 
  fuorviante, e dava luogo a ciò che nel Seicento Bacone chiamava "idola", cioè 
  pregiudizi devianti. 
  
  
Per quanto riguarda il nichilismo moderno, la sinistra ne 
  era stata addirittura il luogo privilegiato con la sua evoluzione dal 
  precedente storicismo progressistico al disincanto post-moderno della fine 
  della storia. 
  
  
Per quanto riguarda l’universalismo, la sinistra era stata 
  storicamente il vettore principale del suo scioglimento nei particolarismi non 
  universalistici della classe (operaia) e del partito (socialista e poi 
  comunista). Ma l’universalismo della classe e del partito era stato sempre e 
  solo astratto, aprioristico e formale, mentre nella realtà storica non aveva 
  mai funzionato come tale. 
  
  
Per quanto riguarda l’individualismo, infine, la 
  sinistra non aveva ripreso la preziosa indicazione di Marx sulla libera 
  individualità sociale (che per Marx avrebbe dovuto essere la base 
  dell’antropologia comunista, dopo la dipendenza personale precapitalistica e 
  l’indipendenza personale borghese), ma era caduta in forme di identità e di 
  appartenenza di tipo organicistico e tribale (il cosiddetto "popolo di 
  sinistra"). 
Insomma, non posso farla lunga per ragioni di spazio. Basti 
  concludere che fu proprio il processo di ripensamento personale a farmi 
  prendere atto del fatto che finché ragionavo in termini di opposizione polare 
  fra sinistra e destra non ne sarei mai venuto fuori. 
  
  
  Sul piano teorico avevo già dunque rotto con la dicotomia fino dai primi 
  anni Novanta. Ma restava ancora un radicamento emotivo di appartenenza, duro a 
  morire come tutti i radicamenti identitari ad origine biografica. La rottura 
  emotiva per me risale al marzo 1999, quando i bombardieri americani e dei loro 
  servi europei della NATO (con la lodevole eccezione della Grecia, patria della 
  filosofia) cominciarono a cospargere di uranio radioattivo la Jugoslavia. Da 
  vecchio conoscitore dei Balcani, sapevo perfettamente che non c’era in corso 
  nessun genocidio e neppure nessuna pulizia etnica (cioè espulsione etnica di 
  massa da un territorio), ma solo una repressione armata di un movimento armato 
  indipendentista (una situazione comune ad almeno cinquanta paesi al mondo).
 
  Sapevo anche che il movimento armato indipendentista albanese UCK perseguiva 
  la pulizia etnica dei serbi, mentre Milosevic non perseguiva quella degli 
  albanesi. Sapevo anche che gli americani erano del tutto indifferenti ai 
  cosiddetti "motivi umanitari", e volevano invece un insediamento militare 
  geopolitico nei Balcani (l’odierno Camp Bondsteel). 
  
  
  
Sapevo anche che i 
  cosiddetti colloqui di Rambouillet erano stati una trappola pianificata dalla 
  Albright. Bene, tutto questa era largamente noto, ed invece vidi la sinistra 
  che appoggiava la guerra americana, Veltroni che sfilava in suo appoggio, 
  
 che inneggiava sulle colonne del giornale-partito "La Repubblica", 
  
 che prestava il suo nome alla cosiddetta Operazione Arcobaleno, 
  eccetera. In quel momento in me si ruppe qualcosa. Poi lessi che la rivista 
  "Diorama Letterario" di Tarchi si era invece impegnata contro la guerra con 
  contributi pacati ed equilibrati, ed allora decisi che il "tabù dell’impurità" 
  avrebbe dovuto essere rotto proprio per preservare la mia salute mentale e la 
  mia dignità personale di studioso. E l’ho fatto. 
  
 
  
  
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