Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve  è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.
All'introduzione
Alla parte precedente
 
Alla parte successiva
Dopo questi tre paragrafi dedicati ad una ricostruzione necessariamente 
  autobiografica, possiamo finalmente passare alla parte teorica. Inizierò 
  allora sostenendo che la dicotomia contemporanea fra sinistra e destra non 
  inizia a mio avviso nel 1789, come si tende a dire, ma si costituisce 
  veramente solo a partire dal 1871, ed ha una significativa accelerazione solo 
  dopo il caso Dreyfus in Francia, in cui si costituisce per la prima volta il 
  gruppo degli "intellettuali di sinistra" come gruppo identitario di 
  appartenenza stabile. Certo, questo riguarda solo l’Europa Occidentale, non 
  l’Inghilterra, l’America o la Russia, ma è egualmente interessante. 
  
  
  A proposito del periodo storico che va dal 1789 al 1871 so bene che molti 
  utilizzano ampiamente la dicotomia tra sinistra e destra per classificare le 
  posizione politiche contrapposte. Tutto questo è legittimo, ma non sono del 
  tutto d’accordo, perché c’è il pericolo di confondere queste categorie con il 
  loro uso attuale, che è diverso e talvolta opposto. Ad esempio la parola 
  "patria" nasce a sinistra, e ci mette quasi un secolo per transitare a destra 
  (e sta oggi tornando lentamente a sinistra, vedi il caso Chevènement in 
  Francia – proprio per la nuova situazione imperiale americana). Mazzini e 
  Garibaldi sono indubbiamente più a sinistra di Cavour, ma questo ci dice 
  veramente molto poco sul nostro risorgimento. Alcuni parlano di tre tipi 
  diversi di destra francese (la destra borbonica legittimista e 
  tradizionalista, la destra orleanista speculativa, liberale e faccendiera, ed 
  infine la destra bonapartista, populistica e plebiscitaria). Tutto vero, ma 
  anche tutto inutile per capire il presente. I nordisti erano chiaramente più a 
  sinistra dei sudisti, perché volevano liberare gli schiavi, ma erano poi i 
  portatori del capitalismo più selvaggio, oligarchico, banditesco e piratesco 
  della storia universale. Potrei continuare al lungo, ma questo mi basta per 
  chiarire come prima del 1871 preferirei non usare questa delicata dicotomia. 
  
  
  Fra il marzo e il maggio 1871 si sviluppò e fu sanguinosamente repressa la 
  Comune di Parigi. Un evento storico reale, ma anche un evento simbolico. Dal 
  punto di vista storico, la Comune chiude una fase, e non ne apre assolutamente 
  un’altra. Si tratta dell’ultima grande rivolta popolare ottocentesca, prima 
  della nascita del socialismo e del movimento operaio organizzato, partitico e 
  sindacale. Ma da un punto di vista simbolico, la Comune è l’occasione di uno 
  schieramento ideale. L’atteggiamento di Nietzsche verso la Comune di Parigi mi 
  sembra assolutamente sintomatico, ed è questa fra l’altro la ragione 
  principale per cui, a differenza dei post-moderni alla Gianni Vattimo, 
  considero Nietzsche un pensatore fondamentalmente di destra, e non un 
  pensatore dell’Oltreuomo posteriore alla dicotomia sinistra/destra. La Comune 
  di Parigi appare subito non solo come una comune insurrezione urbana popolare, 
  ma come il sintomo di una crisi di civiltà. Ed infatti è proprio così. Il 
  terreno filosofico della dicotomia fra sinistra e destra è proprio quello 
  dell’interpretazione corretta e della diagnosi della crisi di civiltà. 
  
  
  Ogni crisi di civiltà, o quella che si ritiene tale, viene giudicata in 
  base a parametri di classificazione teorica, che a sua volta traggono spesso 
  origine da reazioni emotive primarie. La distinzione fra destra e sinistra 
  richiede questi parametri di classificazione. Essi non sono sempre in qualche 
  misura arbitrari. Non esistono parametri storiografici definitivi. Ogni 
  generazione ne riscrive di nuovi. I parametri oggi più usati in Italia in 
  filosofia politica sono quelli proposti da Norberto Bobbio, ma questo avviene 
  proprio perché viviamo in un’epoca di egemonia liberale e neoliberale, ed i 
  parametri bobbiani sono particolarmente adatti a fondare questa egemonia, 
  perché sono stati programmaticamente costruiti sulla base della separazione 
  netta fra politica ed economia e fra forme e contenuti della decisione 
  politica. 
I contenuti economici classisti della decisione politica sono per 
  Norberto Bobbio analoghi al noumeno di Kant. Essi sono pensabili, ma non 
  conoscibili. Sono una cosa in sé, non una cosa per noi. La uniche forme 
  modellizzabili sono le procedure formali della decisione politica, e questo 
  formalismo politologico è particolarmente affine alla riproduzione 
  capitalistica, che infatti tende a limitare il fattore politico a questo ruolo 
  subalterno e secondario. Occorre dunque prestare una certa attenzione ai 
  parametri di classificazione usati. E dico subito che vi sono due coppie di 
  parametri molto usati, che io però sconsiglio vivamente. 
  
  
  Una prima coppia di parametri da sconsigliare è quella fra conservazione e 
  progresso. In generale si classifica automaticamente la destra dalla parte 
  della conservazione e la sinistra dalla parte del progresso. Questo era 
  probabilmente vero alle origini del processo storico della modernità 
  illuministica, ma nel frattempo le cose si sono fortemente ingarbugliate. Non 
  vi sono dubbi sul fatto che il concetto di progresso è stato una creazione 
  dell’illuminismo (o meglio della sua corrente maggioritaria, perché c’è anche 
  un Rousseau che non vi credeva ed anzi lo avversava), è poi passato al 
  positivismo ottocentesco ed ha poi abbondantemente intriso l’ideologia prima 
  socialista e poi comunista. 
E’ anche vero che il moderno conservatorismo ha 
  spesso come matrice storica la critica alla rivoluzione francese prima e dopo 
  il 1815, ma è anche vero che esiste anche una seconda matrice, la tradizione 
  liberale inglese antirivoluzionaria "whig" di Burke (destinata a rifiorire 
  nella critica anticomunista di Isaiah Berlin e di Hannah Arendt). 
In 
  definitiva, mi sembra che il modello non tenga molto. Quando le anomalie e le 
  eccezioni cominciano a diventare troppo numerose, allora è bene che la 
  dicotomia venga prima criticata e poi decisamente abbandonata. A lungo la 
  sinistra ha accusato il capitalismo di conservatorismo, ed ha addirittura 
  etichettato come "conservatori" i suoi sostenitori. Questa etichetta è priva 
  di fondamento storico, e si applica soltanto (parzialmente) ai residui 
  nobiliari e alle classi legate alla rendita fondiaria ed in parte finanziaria. 
  
Marx sapeva perfettamente che il capitalismo è la forza meno conservatrice che 
  esista, e che fa saltare in aria tutto ciò che sembra solido. Il gruppo 
  sociale più conservatore che esista in Occidente è forse la piccola borghesia 
  urbana di origine operaia ed impiegatizia. In compenso, il progresso è 
  divenuto nel Novecento una parola d’ordine legata all’innovazione tecnologica 
  connessa con il mercato capitalistico e con il suo allargamento, ed i suoi 
  maggiori critici provengono tutti da una matrice politica di sinistra. Ricordo 
  qui solo la rivendicazione della cosiddetta "antiquatezza" dell’uomo da parte 
  di Gunther Anders. L’ecologismo, e non solo il cosiddetto ecologismo 
  "fondamentalista", è oggi prevalentemente una forza di sinistra (o di 
  centro-sinistra), anche se molti suoi presupposti filosofici furono elaborati 
  nella prima metà del Novecento dalla cosiddetta "destra". In ogni caso, 
  dovunque ci voltiamo, appare del tutto chiaro che la dicotomia 
  conservazione/progresso non è più, ammesso che lo sia mai stata veramente, un 
  utile parametro di classificazione fra la sinistra e la destra. 
  
  
  Una seconda coppia di parametri, generalmente usata per classificare due 
  tipi diversi di sinistra (ma anche di destra), è quella che separa i 
  riformisti dai rivoluzionari. Nella polemica politica i riformisti vengono 
  talvolta chiamati moderati, ed i rivoluzionari estremisti. Si tratta di una 
  dicotomia pretestuosa e pigra, che in realtà non funziona assolutamente. E’ 
  bene metterne in luce la matrice teorica, che è la concezione storicistica del 
  tempo. Se concepiamo infatti il tempo storico come un "medium" omogeneo ed 
  orientato, simile ad una strada lunga e diritta (e così lo concepivano le 
  ingenue ideologie del progresso), gli agenti storici possono essere pensati 
  come automobili che corrono più lente, e dunque più sicure, oppure più veloci, 
  e dunque più efficienti ma anche più insicure. I moderati riformisti sono 
  quelli che vanno piano, mentre i rivoluzionari estremisti sono quelli che 
  vanno forte, e dunque rischiano di andare fuori strada perché non rallentano 
  in curva. 
Ma questa concezione della storia è assurda. Il tempo storico non è 
  per nulla una linea dritta con un prima e un dopo omogenei, e neppure una 
  strada a curve con gli stessi requisiti direzionali stabili. Il tempo storico 
  apre ogni tanto delle "finestre" di opportunità, che nessuno potrebbe mai 
  creare arbitrariamente con un puro atto di volontà, e queste sono appunto le 
  rivoluzioni che possono riuscire. In quanto alle cosiddette riforme, il guaio 
  è che molto spesso vengono battezzate "riforme" delle incredibili 
  controriforme peggiorative (riforma della scuola, riforma delle pensioni, 
  riforma della sanità, eccetera). Il termine riforma ha perduto oggi qualunque 
  significato connotativo, e viene usato esclusivamente in un contesto di 
  mistificazione ideologica. 
Nello stesso modo il termine estremista è ormai 
  usato arbitrariamente per connotare qualunque comportamento ostile all’impero 
  americano ed ai suoi alleati, ed è diventato come il termine "terrorista". Bin 
  Laden lo è, mentre Bush guarda caso non lo è. Il massacratore Sharon non lo è, 
  mentre il povero Arafat lo è. I coloni razzisti israeliani non lo sono, mentre 
  gli eroici partigiani palestinesi lo sono. Non si tratta di semplice 
  confusione semantica, ma di vera e propria degradazione semantica. La 
  degradazione semantica è un segnale sicuro di corruzione sociale, ed allora 
  l’etimologia deve lasciare spazio alla politica rivoluzionaria. 
  
  
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